Negli ultimi anni i suoi libri erano diventati introvabili. Ora la casa editrice nottetempo inizia a riproporre le opere di Fausta Cialente (1898-1994), tra le autrici femministe di riferimento del ‘900 letterario italiano. E lo fa a partire da “Un inverno freddissimo”… – Su ilLibraio.it l’introduzione di Emmanuela Carbé

Dopo decenni in cui i suoi libri sono stati difficili da reperire, torna finalmente in libreria Fausta Cialente, tra le prime autrici italiane a dichiararsi esplicitamente femminista.

Nata a Cagliari nel 1898, è morta nel 1994 a Pagbourne, in Inghilterra, lasciandoci diversi romanzi, che tornano ora in libreria con nottetempo.

Si (ri)comincia dal suo quarto romanzo, Un inverno freddissimo (nottetempo), pubblicato nel 1966, con cui l’autrice e traduttrice è stata finalista al Premio Strega.

Un inverno freddissimo Fausta Cialente

La trama ci porta nella Milano del Secondo Dopoguerra, in una soffitta malmessa, divenuta la casa di una famiglia particolare, che deve affrontare un inverno molto freddo. La protagonista, Camilla, lasciata sola dal marito, è costretta, nonostante tutto, a indossare i panni del capofamiglia e ad affrontare le difficoltà e le perdite che la guerra ha portato con sé.

L’autrice dimostra di saper parlare del periodo buio della guerra e del dopoguerra, che ha vissuto sulla propria pelle. Durante gli anni della dittatura, Cialente si è opposta al regime attraverso attività giornalistiche e collaborando a un programma radiofonico antifascista.

Di Cialente, che nel 1976 ha vinto il Premio Strega con Le quattro ragazze Wieselberger, nottetempo riproporrà Il vento sulla sabbia, Interno con figure e Ballata levantina.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo l’introduzione:

Introduzione

di Emmanuela Carbé

Esistono alcune specie marine dotate di gusci protettivi che abbandonano, crescendo, per formare una protezione più adatta alle nuove dimensioni; altri animali di cielo o di terra, specie in primavera e in autunno, fanno la muta e cambiano pelle, piume, esoscheletro. Lo spazio entro il quale si svolge Un inverno freddissimo è una vecchia soffitta di Milano che sembra proprio questo: un carapace con la funzione di schivare le minacce esterne per un periodo limitato, il solo inverno – che fu effettivamente molto freddo – del 1946-47, tra le macerie della guerra e l’inizio della Repubblica. Il romanzo, uscito nel 1966, fu scritto una ventina di anni dopo: Cialente ha avuto il tempo di elaborare e ripensare la stagione neorealista reinterpretandola da lontano, attraverso la storia di una famiglia che di eroico ha ben poco e che invece racchiude in sé delle costanti universali, un catalogo di contraddizioni umane, aspirazioni, debolezze, e quel desiderio naturale di sentirsi ancora vivi che fa da spinta ai desideri più nascosti. La fase di ricostruzione del secondo dopoguerra diventa allora uno spazio di incertezze e di possibilità, dove qualcuno vorrebbe diventare in fretta adulto e qualcun altro desidererebbe invece riprendersi indietro gli ultimi scampoli della giovinezza, oppressa dagli obblighi e dallo spirito di sacrificio che i tempi duri hanno imposto.

L’inverno sta arrivando minaccioso all’avvio del libro, quando uno stormo di colombi si alza “a un segnale prestabilito”: è come l’inizio di un concerto, l’apertura di un sipario, ma forse è anche un presagio di quello che accadrà poi. Un colombo si posa sulla ringhiera della soffitta, una donna scosta la tendina e lo osserva. Inizia così la minuta storia di una famiglia come tante del dopoguerra, tenuta insieme da Camilla, che con gentilezza e tenacia mantiene l’ordine e lega insieme i fili narrativi (e letterali: lavora spesso a maglia) tra gli abitanti della casa, così misera e scomoda da essere chiamata “albergo dei poveri”. Le cose però spesso accadono quando Camilla non è in casa, come se fosse lei stessa in fondo a sabotare l’evoluzione di quel nucleo familiare, oppure a tenere gli occhi chiusi per non guardare i cambiamenti di chi le sta intorno, e che spesso arrivano fin troppo repentinamente (il narratore di questa storia non è in fondo molto distante da lei). È una donna matura e giovane insieme, allegra ma con un senso del dovere a tratti irritante: abbandonata dal marito, ha cresciuto tre figli e due nipoti, tra cui Nicola, morto partigiano. Dopo gli anni del conflitto trascorsi nella casa di famiglia in campagna, la soffitta di Milano doveva essere un simbolo di rinascita e riscatto per tutti. Diventa invece uno spazio di incubazione, e un luogo abitato dalla memoria che “ricostruisce malignamente, senza tregua” il tempo perduto. Anche nella casa di campagna si ricostruisce il tempo, che prende pieghe strane: Camilla vi torna più volte, in un caso con il figlio Guido, felice di avere “sua madre tutta per lui, notte e giorno”. Non è davvero tutta sua perché da quelle parti gira un vicino di casa, il Rosso, un uomo almeno in apparenza un po’ brutale: li avrà letti davvero, si chiede Guido (che recita a memoria Amleto, Otello, Antonio e Cleopatra), quei volumi di Shakespeare che ha in casa? Guido ricorda a tratti l’Agostino di Moravia: quella notte dorme insieme alla madre (la casa è fredda e difficile da riscaldare), e quando la luce è spenta inizia una patetica richiesta di affetto, subito bloccata da Camilla, che gli dà un bacio cercando di respingerlo. Fa da contraltare a Guido la sorella maggiore Alba, la “povera fanciulla” che ha invece un destino simile all’Albertine di Proust: lei, al contrario di Guido, non sopporta gli eccessi di dolcezza materna, che cerca di evitare spegnendo in fretta la luce prima di addormentarsi.

L’altra figlia di Camilla, Lalla, è un dispositivo di intuizioni e riconoscimenti: aspirante scrittrice, fa “letteratura anche nella vita”, e per suo padre che l’ha abbandonata immagina un destino eroico con avventure nientemeno che nel suddamerica: ma la verità è misera e terrena, meno epica. C’è in tutto il romanzo una disperata assenza di padri, solo in parte compensata dalla figura del vicino di casa Enzo, un antifascista rientrato dall’Egitto con una misteriosa storia alle spalle. Ma ci sono anche alcuni spettri, e quell’inverno assume allora i contorni della fredda e nebbiosa Danimarca di Amleto: “il cielo è abitato da fantasmi remoti che di lassù ci guardano con minacciosi occhi bianchi”, dice Lalla osservando la neve che cade. Il primo fantasma è il partigiano Nicola, che con l’esempio eroico e con la sua saggezza influisce ancora sulle scelte dei vivi. Il secondo è una donna amata da Enzo negli anni egiziani. L’antifascista compare anche nel romanzo precedente, Ballata levantina, uscito nel 1961, e i lettori di Cialente conoscono bene la storia della tragica scomparsa dell’amata Daniela, annegata forse in un fiume in circostanze non chiare. Qui Enzo è osservato da Camilla, preoccupata da quello sguardo rivolto al passato: “‘Dio mio!’ aveva pensato, ‘cos’ha, adesso? Vede un fantasma?’”. A Enzo, che ha uno “strano accento” e “curiose inflessioni”, è ora affidato uno dei fili conduttori dei romanzi e racconti di Cialente, quel tratto comune agli espatriati che faceva scrivere ad Adorno, sulla scia di Nietzsche, “fa parte della morale non sentirsi mai a casa propria”.

Si diceva delle specie marine e degli animali di cielo o di terra che abbandonano il guscio protettivo quando è troppo stretto: Cialente fu anche questo, in continua fuga verso un altrove. Si definì in più occasioni “straniera dappertutto”, ed effettivamente lo era anche per ragioni biografiche: nata a Cagliari nel 1898, passa la giovinezza in diverse città a causa del lavoro del padre, ufficiale dell’esercito. Nel 1921 si trasferisce in Egitto dopo il matrimonio con Enrico Terni, musicista e compositore, vicedirettore di una filiale del Banco di Roma ad Alessandria d’Egitto; pur con frequenti ritorni, Cialente vive stabilmente lì fino al 1947, quando decide di lasciare il marito e tornare nuovamente in Italia. La sua vita sarà un viaggio anche nei decenni successivi, con spostamenti al seguito della famiglia fino agli ultimi anni passati in Inghilterra, nella casa della figlia a Pangbourne, dove muore nel 1994. Il suo percorso letterario fu personalissimo e originale, a partire dall’esordio Natalia, che scritto tra il 1925 e il 1927 conteneva riferimenti alla disfatta di Caporetto e descriveva l’innamoramento della protagonista per una donna. Il romanzo probabilmente non piacque alla censura fascista, e dopo l’edizione del 1930 non fu più ristampato: venne recuperato solo nel 1982, quando Mondadori lo pubblicò con una prefazione di Carlo Bo.

Ogni riproposta di Cialente è un’incredibile scoperta, come se ci dimenticassimo ciclicamente di una delle più grandi scrittrici italiane – fatto certo non infrequente in letteratura, particolarmente lamentevole in questo caso – e nel ritrovarla ci chiedessimo ogni volta perché la si legge così poco. Alcune ristampe sono fortunatamente molto recenti: Natalia, Cortile a Cleopatra e Le quattro ragazze Wieselberger sono oggi in libreria, ma molto altro è ancora sommerso. Come questo romanzo, forse il più sottovalutato eppure tra i migliori, che esce ora dopo più di quarant’anni (l’ultima ristampa è del 1976) inaugurando il progetto editoriale di nottetempo dedicato a Cialente, che farà riemergere i suoi racconti e i romanzi Ballata levantina e Il vento sulla sabbia.

C’è molta reticenza in Cialente, una felice inclinazione a fare spesso un passo indietro e andare in una direzione diversa da ciò che ci si aspetterebbe, sparigliando le carte all’ultimo momento. Non ha temuto lo spreco, lo scarto, incurante della capitalizzazione del proprio talento. Ha attraversato il Novecento senza clamore e con garbo, con i suoi tempi e i suoi silenzi. Il senso del dovere profondo, civile, che guarda al bene collettivo, è stato la cifra della sua visione ampia, politica, complessa del mondo. Non ebbe paura di mettere da parte il mestiere di scrittrice per altre necessità: come quando aderì alla propaganda antifascista durante la guerra, impegnandosi sul fronte del Medio Oriente. Negli ultimi mesi del 1940 lasciò la casa dove viveva con il marito e la figlia e si trasferì al Cairo per collaborare con gli inglesi. È l’inizio di un silenzio letterario che durò molti anni, e che Cialente ricorda nell’ultimo romanzo Le quattro ragazze Wieselberger: “non ero più la ‘scrittrice’, avevo perfino dimenticato d’esserlo stata, mi sembrava che non avrei più potuto perder tempo a ‘inventare storielle’, la crudeltà della guerra mi faceva vedere questo come la cosa più inutile del mondo. Avevo torto, ma così è stato”. E ne parla anche nel suo inedito diario di guerra, quando con una certa sorpresa si scopre una coraggiosa propagandista: “chi avrebbe potuto prevedere ciò quando non ero che una letterata! E come mi sembra, oggi, fredda e lontana, la letteratura!” E ancora, nel dicembre del 1942, quando un’amica le fa sapere che alcuni conoscenti stanno leggendo il suo romanzo Natalia, Cialente chiede come ci si possa occupare di letteratura in mezzo alla guerra (“leggere Natalia ora! ho esclamato – ma dev’essere insopportabile”, riporta nel suo diario); è tuttavia quell’episodio che la spinge a tornare a sfogliare i suoi romanzi e a ricordarsi del suo primo mestiere: “mi è sembrato di rincontrare una persona che non vedo più da molto tempo e che pure conosco tanto bene: la persona che è stata capace di faticare su quelle pagine, con tanta coscienza e tanta emozione – così a lungo. Forse non è stato inutile”.

Nell’aprile del 1947, quando è già rientrata stabilmente in Italia, Cialente incontra il fedelissimo amico Renato Mieli, che in Egitto aveva collaborato alla propaganda antifascista. Insieme ripercorrono le memorie di quel periodo: “ci siamo detti però, ancora una volta”, scrive poi Cialente nel suo diario, “che questi anni di guerra sono stati ad ogni modo i più belli, assurdo a dirsi: per l’attività nostra, la nostra unione, […] e per come, tutti, siamo stati migliori nel pericolo e nella lotta – tutti”. A quegli anni difficili eppure “belli” risale anche il più grave lutto della sua vita, quando il 25 novembre 1943 muore prematuramente l’amato fratello Renato, noto attore teatrale, investito da una camionetta tedesca all’uscita dal teatro Argentina di Roma dopo aver recitato l’“Albergo dei poveri” di Gor’kij (è la seconda perdita di Cialente: nel dicembre 1917 era stato ucciso il cugino Fabio nel corso dei combattimenti sull’altopiano di Asiago). Quei fantasmi e quelle vicende torneranno negli anni a venire trasfigurati nella scrittura, a partire da Ballata levantina e Un inverno freddissimo, che con soluzioni e angolazioni molto diverse recuperano dall’interno, con una voce isolata, quasi fuori dal tempo, storie della guerra e del dopoguerra.

Cialente con la sua scrittura è sempre andata a passo leggero ma deciso, senza l’affanno di chi vuole a tutti i costi rimanere: anche per quel passo aggraziato, capace di toccare i nodi più profondi dell’esistenza umana, siamo certi che Un inverno freddissimo tornerà a essere letto.

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