Da Mark Twain a David Foster Wallace, da Emily Brontë a Virginia Woolf, da Joseph Conrad a Italo Calvino: il nuovo libro di Paolo Di Paolo, “Vite che sono la tua. Il bello dei romanzi in 27 storie”, esplora grandi classici (e non solo) che hanno segnato la sua esperienza di lettore… – Su ilLibraio.it il capitolo dedicato a “Il barone rampante”

Ogni romanzo che sia stato letto e amato lascia nel lettore una traccia della sua lettura: un gesto rappresentato con vivida chiarezza, la caratterizzazione di un personaggio descritta a regola d’arte, un passo della trama inaspettato o, talvolta, soltanto una frase. Spesso, si tratta di piccolo dettaglio in cui il lettore riconosce qualcosa di se stesso, della sua esperienza personale, un passo che spinge a immedesimarsi in quella narrazione e farla propria, come se fosse parte integrante della vita del lettore. A questa esperienza, di riconoscimento di se stessi nella letteratura, è dedicato il nuovo libro di Paolo Di PaoloVite che sono la tua. Il bello dei romanzi in 27 storie (Laterza).

Finalista al Premio Strega 2013 con il romanzo Mandami tanta vita (Feltrinelli), Paolo Di Paolo è lo scrittore romano, classe ’83, autore di Una storia quasi solo d’amore (Feltrinelli) e Ogni viaggio è un romanzo. Libri, partenze, arrivi (Laterza). Di Paolo esplora quei romanzi che hanno più segnato la sua esperienza di lettore: da Mark Twain a J. D. Salinger, da David Foster WallaceFrancis Scott Fitzgerald, da Joseph Conrad a Virginia Woolf, l’autore guida il lettore alla scoperta di quei dettagli e particolari che più lo hanno colpito nella lettura di 27 grandi romanzi esemplari, classici e non solo, ciascuno capace di innescare quel senso di riconoscimento e di appartenenza, la sensazione che la storia e la letteratura non appartengano soltanto ai personaggi, ma anche ai lettori.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un capitolo del libro:

Non mangiare mai lumache

Il barone rampante di Italo Calvino

«Fu un pomeriggio che non finiva mai».

Tradizione scolastica pretende che lo si legga praticamente come un libro per ragazzi. L’edizione che ho conservato è, non a caso, quella letta in prima media. Le sono affezionato, pure in questo caso, come a un talismano. Ci sono segni di matita, ma servivano solo a ricordarmi dove riprendere la lettura.

Non avevo mai più riletto Il barone rampante, non da cima a fondo. Lo rileggo ora, da coetaneo dell’autore – e questo sì, un po’ mi impressiona: avere davanti Italo Calvino trentaquattrenne. Calvino che scrive, a trentaquattro anni, Il barone rampante; e lo scrive nella luce del ricordo – «anzi, la nostalgia», precisa lui – delle sue letture di bambino, «brulicanti di personaggi e casi paradossali». Scrivendo una prefazione a sé stesso, come faceva di frequente, affastella titoli di libri – da Alice nel paese delle meraviglie a Peter Pan al Barone di Münchhausen – i cui autori, sostiene, hanno voluto ritornare fanciulli per dare libero corso alla propria immaginazione. Basta questo per capire cos’è Il barone rampante? Calvino mette in chiaro al lettore soprattutto che cosa il romanzo non è: non è racconto filosofico, non è romanzo storico, né parodia del romanzo storico.

Da ragazzino, com’era giusto che fosse, avevo preso il racconto alla lettera. Un pranzo aristocratico di quasi estate, il 15 giugno del 1767. Una famiglia. Un atto di disubbidienza. Il dodicenne Cosimo Piovasco protesta davanti al piatto di lumache che gli viene offerto e lo respinge. «Ho detto che non voglio e non voglio!», strepita. Quindi decide di arrampicarsi sui rami di un albero e di non scendere più.

Non avrei potuto, nella prima lettura del romanzo, fissare l’attenzione su una frase che – poco oltre l’inizio – forse ne rivela il cuore. L’io narrante, il fratello del ribelle Cosimo, evoca la delusione – il «capitolo triste» – del passaggio dai pranzi in camera della prima infanzia a quelli al tavolo dei grandi, con la serie di sgridate, di ripicche, di castighi, di impuntature che ne deriva. Poi aggiunge: «Allora avevo otto anni, tutto mi pareva un gioco, la guerra di noi ragazzi contro i grandi era la solita di tutti i ragazzi, non capivo che l’ostinazione che ci metteva mio fratello celava qualcosa di più fondo».

L’ostinazione. Oggi capisco che il vero tema del romanzo di Calvino – scritto, come dice ancora lui stesso, quando «la spinta vitale della giovinezza è ancora forte» e insieme si sente «la prima illusione d’una maturità, d’una conquistata esperienza» – è l’ostinazione. Il gesto di rottura di Cosimo – non mangiare lumache, vivere su un albero – non vale tanto di per sé, quanto per la rigorosa fedeltà con cui viene confermato nel tempo. Non mangiare lumache e vivere sugli alberi non è rifiutarsi di crescere. Non c’è effettiva parentela con un Peter Pan, per esempio. Non mangiare lumache mai più: c’entra la solidarietà con «le povere bestie straziate», il disgusto per il loro sapore una volta cotte, e l’«insofferenza per tutto e per tutti». Non mangiare mai più lumache – e naturalmente crescere, invecchiare, cambiare, senza però venire meno a un patto di coerenza firmato con sé stessi. Cosimo non accetta compromessi, o ne accetta il minimo indispensabile: così, portando alle estreme conseguenze una scelta, un principio, non sta evitando di diventare adulto. Sta evitando di assumere, nell’uomo adulto che sarà, ciò che aveva rifiutato; sta sorvegliandosi per non cadere in contraddizione. È, in definitiva, il precettore di sé stesso.

Non lo è forse, a suo modo, lo stesso Calvino? Ragazzo e adulto, lieve e pensoso. Leggero e pensoso allo stesso tempo, iperconsapevole, sorvegliatissimo, sulla pagina come a voce. Non gli piace la parola parlata, è imprecisa, troppo istintiva. Nelle interviste balbetta, spezza le frasi, aspetta in silenzio prima di rispondere. Le risposte più precise e intelligenti – spiega – mi vengono in mente qualche ora dopo avere concluso un’intervista. L’intervistatore, preso alla sprovvista, propone: le lascio le domande e torno domani? Lo scrittore ci pensa: no, qualche volta è necessario fare lo sforzo di parlare. Anche scrivere – incredibile a dirsi – gli riesce difficile: «Mi scoccia. Non mi riesce facile. D’altra parte, credo che quelli a cui riesce facile non valgano molto». Rimprovera i giovani scrittori che «tendono a pensare troppo poco». Lui non ha ancora trentacinque anni, però ha già scritto Il barone rampante.

È il 1957, lo stesso anno dell’Isola di Arturo. I rispettivi protagonisti sono pressoché coetanei. Uno ha la sua isola, l’altro i suoi alberi. Entrambi i romanzi sembrano disconnessi dall’attualità. Una reazione antineorealista? È più interessante osservare come Morante e Calvino investano, più che sul tempo, sullo spazio; su una geografia «emotiva» che, astraendo un luogo, ne potenzia all’infinito l’atmosfera e così lo mitizza.

Dietro Ombrosa, l’ambientazione immaginaria del Barone, c’è la Riviera ligure dell’infanzia di Calvino. I rami degli elci e delle magnolie, il sole tra le foglie, il loro movimento; i tetti delle case «di mattone sbiadito e ardesia», i pennoni dei bastimenti in lontananza, verso il porto. «In fondo si stendeva il mare, alto d’orizzonte, ed un lento veliero vi passava». Togliendo il nome al paesaggio in cui è cresciuto, Calvino può descriverlo con libertà assoluta, ma non per questo con minore precisione. La luna sopra i rami, i fruscii e i rumori lontani della notte, il «mugghio» del mare sono quelli di Sanremo, e così – enumerati con la cura che forse solo un figlio di botanici può avere – gli olivi, i pini, le roveri, i castagni, nel punto in cui il bosco sale la montagna: «Questo era l’universo di linfa entro il quale vivevamo, abitanti d’Ombrosa, senza quasi accorgercene».

Ecco il punto – detto così, di passaggio, con levità. Tutti abbiamo abitato il paesaggio della nostra infanzia «senza quasi accorgercene». Rivisto da lontano – dalla prospettiva del fratello di Cosimo, ormai invecchiato – guadagna particolari, anziché perderli; riacquista spessore, intensità, emette un bagliore avvolgente. È Sanremo, e allo stesso tempo non lo è più, esiste e non esiste: tanto vale usare il nome di Ombrosa e spostarla indietro nel calendario a un’epoca imprecisata, come d’altra parte si sposta l’infanzia una volta che l’abbiamo alle spalle. È sempre in qualche altro secolo leggendario, dove i pomeriggi non finiscono mai e le ciliegie parlano, i castighi durano troppo, però poi arriva una voce da qualche parte che grida: «Mino! Mino! T’hanno perdonato! Ci aspettano! C’è la merenda in tavola!», passano creature misteriose in groppa a cavalli nani, ragazzine affascinanti e dispettose.

Si può restare sull’albero della nostra infanzia e nello stesso tempo crescere? Calvino permette al suo Cosimo di non essere catturato – l’ultimo tentativo, a vuoto, lo fa nottetempo la sorella Battista, armata di una scala a pioli –, ma non gli permette di fermare il tempo. Cosimo non scende, e tuttavia non resta bambino: benché a cavalcioni su un ramo d’olmo, cresce, seguita a crescere da «solitario che non sfuggiva la gente», conosce le stagioni, la compagnia dei libri, la caccia, il lavoro, il senso del potere («La gente lo riveriva, gli dava del ‘Signor Barone’, e a lui veniva di prender delle pose un po’ da vecchio, come alle volte piace ai giovani»). Sperimenta l’amore e il sesso: Ombrosa si riempie così di «bastardi del Barone, veri o falsi che fossero». È adulto, e invecchia. C’è fra lui e il mondo una distanza minima e invalicabile. La fedeltà a quella scelta ormai remota non conosce cedimenti, e questo alla lunga lo fa sembrare, o forse essere, matto.

Il vecchietto rattrappito che Calvino descrive nelle pagine finali del romanzo – «gambe arcuate e braccia lunghe come una scimmia, gibboso, insaccato in un mantello di pelliccia che finiva a cappuccio» – lo fa somigliare a un frate eremita, a un anacoreta. In verità, la sua aria svanita, il suo silenzio ostinato sono forse da leggere come la traduzione fisica di una coerenza estremista. Impossibile, impraticabile per i più. Il rifiuto dei compromessi diventa, infine, follia? È possibile; e tuttavia il bello del Barone rampante è in questo sogno estenuato di poter essere fedeli a sé stessi per tutta la vita, di difendere la parte più autentica e più pura di noi, di camminare sugli alberi senza diventare in tutto come gli adulti, senza dimenticarsi del mondo e del meglio di cui siamo capaci.

(Continua in libreria…)

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