“Il Capo”, nuovo romanzo di Francesco Pacifico (di cui pubblichiamo un estratto) è una riflessione sul potere e la manipolazione: quella intellettuale, quella economica e quella che si compie inevitabilmente raccontando una storia. Narra la storia di Gaia, che ha subìto un abuso sul lavoro…

“Comandare le persone è un’esperienza. Per i capi far piangere la gente nei bagni è sempre stata una magia”.

Nel suo nuovo romanzo, Il Capo, in libreria per Mondadori, Francesco Pacifico narra la storia di Gaia, che ha subìto un abuso sul lavoro e, durante una lunga passeggiata notturna, racconta a Francesco come sono andate le cose.

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Lo scrittore romano, classe ’77, autore (tradotto negli Usa e nel Regno Unito) di romanzi come Il caso Vittorio (minimum fax, 2003), Storia della mia purezza (Mondadori, 2010), Class (Mondadori, 2014, nuova edizione 2021) e Le donne amate (Rizzoli, 2018), nell’epoca del “quiet quitting” e delle grandi dimissioni, indaga il modo in cui sta cambiando il nostro rapporto col lavoro. E lo fa attraverso il personaggio di Gaia, che lavora da qualche anno per la “Fondazione, una grossa istituzione culturale romana, quando viene invitata dal suo capo a una misteriosa settimana di “team building”.

E così una mattina di gennaio, dopo una levataccia e un saluto frettoloso alla fidanzata, parte per il Sudtirolo, dove pensava che ad attenderla ci fossero i colleghi, magari già a bagno nella spa incorniciata dalle montagne. Ma quando arriva non trova traccia né di loro né del capo. E lo chalet vista lago che le viene assegnato sembra essere già occupato da un altro ospite, un uomo.

Gaia non sa se pensare a un malinteso, a uno scherzo o a un’assurda performance artistica architettata dal capo. Perché le ha detto di non parlare di quel viaggio con gli altri dell’ufficio? Perché non le ha ancora confermato la “lead” sul nuovo progetto? Ma soprattutto, perché non è lì e non le risponde al telefono?

I primi indizi arrivano poco dopo, quando decide di esplorare il resto dell’albergo, ma la situazione, nei giorni successivi, si rivelerà via via più articolata e surreale.

Nella presentazione de Il Capo si sottolinea come da molti anni Pacifico (fondatore ed editor della rivista Il Tascabile di Treccani, traduttore e autore, tra gli altri, della raccolta di saggi letterari Seminario sui luoghi comuni, minimum fax, 2012, del saggio Io e Clarissa Dalloway, Marsilio, 2020, della raccolta di racconti Solo storie di sesso, Nottetempo, 2022) lavori, attraverso la scrittura, alla decostruzione del proprio privilegio di classe e di genere. Il nuovo romanzo rappresenta una tappa di questo percorso, una riflessione sul potere e la manipolazione: quella intellettuale, quella economica e quella che si compie inevitabilmente raccontando una storia.

francesco pacifico foto di musacchio & iannello

Francesco Pacifico nella foto di Musacchio & Iannello

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

(…) La Fondazione era un posto labirintico dove comandavano diversi clan senza nome la cui esistenza Gaia percepiva solo confusamente. Il senso di una figura come Lupini – nipote di un assessore degli anni d’oro del Comune di Roma – stava nella gestione degli equilibri tra i clan. Lupini ti aggiornava settimanalmente su chi ti stava voltando le spalle, chi stava remando contro ostacolando ogni tuo progetto. Col tempo però cominciavi a scoprire che sparlava anche di te con gli altri, all’apparenza i suoi rivali, per rassicurarli. Così, mentre tu ti impegnavi in un progetto, lui te lo lasciava morire evitando i follow up su tutte le aree di sua competenza, prevedendo il piacere che ne avrebbero tratto i suoi apparenti nemici; poi, sparlandone con quei nemici, definiva i tuoi progetti “fumosi”, proprio perché erano morti (per colpa sua), e definiva “contorto” il tuo modo di lavorare. Intanto, veniva a riferire a te come una voce messa in giro da altri che lui ti riportava perché era dalla parte tua, che stavi perdendo credito nei corridoi della Fondazione.

I vari gruppetti addentellati dentro e fuori dalla Fondazione si fabbricavano la loro opinione su di te in base ai suoi pettegolezzi. D’altronde nessuno cacciava nessuno per le calunnie di Lupini, perché a credere alle sue storie era solo chi andava in cerca di una pezza d’appoggio per fermare i progetti di qualcun altro; ma al tempo stesso tutti credevano nel networking e nell’imperativo di non scontrarsi con nessuno, perché di nessuno si poteva sapere con certezza a chi fosse legato, dove portasse la sua rete familiare e clientelare; d’altra parte lui a pelle risultava gioviale e pragmatico, per i colleghi era tranquillizzante credere alle cose che diceva.

Il capo, che era trattato come il fiore all’occhiello della Fondazione, perché negli angoli risicati che i quotidiani dedicavano al no profit si scriveva dei suoi progetti per la scuola o le periferie, lo parcheggiava in progetti minori che pareva creargli apposta per distrarlo, ma Lupini accettava quelle umiliazioni come parte del lavoro, sapendo che prima o poi avrebbe stupito il capo con la propria fedeltà – e la sua occasione forse era arrivata proprio quella sera, quando Gaia aveva fatto il numero del capo e gli aveva risposto lui.

Il fatto che un posto importante come la Fondazione si riducesse a un legnoso equilibrio di poteri cozzava con l’idea che il lavoro di Gaia fosse “pieno di potenziale”, espressione aziendale new age che il capo teneva continuamente in bocca per motivarla. A un certo livello molto concreto, l’idea del potenziale era suggerita dai milioni di euro cui aveva accesso la Fondazione per i suoi progetti pedagogici; ma come tante istituzioni di Roma, la Fondazione era e rimane un labirinto di corridoi e vecchie stanze dove ogni giorno si indicono riunioni in cui, col passare delle mezz’ore, si capisce che qualcuno aveva già deciso che il progetto non dovesse andare da nessuna parte; eppure bisogna comunque restare a giocare la mano già persa, perché invece all’improvviso possono arrivare certe mail o certi messaggi o entra nella sala qualche visitatore importante, un sottosegretario, un senatore a vita, un professore, e la riunione, succede forse una volta su dieci, prende il volo e porta “da qualche parte”. I termini sono sempre questi: “da qualche parte”, “da nessuna parte”.

Quando i progetti decollano si parla della loro importanza “per la nazione”. Si parla della Cina, della Francia, del Nord Africa e degli Stati Uniti; si parla di scuola e imprenditoria e Calvino e Pasolini e Morante. Gaia ancora non si era abituata, ambientata, ma quando un progetto finalmente prendeva forma, pepita d’oro nel setaccio melmoso, le pareva che si aprissero tutte le porte e si potesse raggiungere qualsiasi scuola d’Italia, qualsiasi teatro, qualsiasi associazione di cultura italiana nel mondo con una lettera in carta intestata o una mail dall’indirizzo di posta ufficiale. Allora Gaia sapeva di aver fatto bene a lasciare il teatro.

Quando invece, come succedeva la gran parte del tempo, i progetti si impantanavano dopo mesi di preparazione, qualcuno era tenuto a dire: “Che occasione persa”, e qualcun altro ad aggiungere: “Almeno ci abbiamo provato”. Gaia non sopportava di ascoltare queste espressioni, ma non riusciva a farne una colpa al capo, che non aveva niente a che vedere con i Lupini. Il capo veniva dalla provincia, non faceva parte delle clientele; soprattutto non aveva un’energia distruttiva ed esaltava sempre il lavoro degli altri. Casa sua se l’era comprata con i suoi soldi. E il capo l’aveva fatta sentire grande quando le aveva detto che entrare in Fondazione era l’ultimo “treno” per non arrendersi a quello zoo fuori dalla Storia che era il teatro sperimentale: la sua ultima “occasione di impattare”, di “fare i conti con il Paese reale”. Anche se il capo parlava in modo ridicolo, e non aveva una visione politica, e anche se usava queste parole astratte del mondo imprenditoriale, era una vera presenza nella sua vita, le aveva fatto ottenere un contratto e cominciava ogni giornata in ufficio parlando con lei.

(continua in libreria…)

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