“È strano, penso ora, il modo in cui se pure la mente dimentica, il corpo ricorda. Il modo in cui il corpo ricorda slegato dalla mente”. Nel 2000, la narratrice e protagonista de “ll corpo ricorda” viene sequestrata e stuprata dall’uomo con cui conviveva, che era stato anche il suo insegnante all’università. Il memoir di Lacy M. Johnson è un romanzo di corpi, nervi e fibre spezzate. Nel buio della violenza, la protagonista rivendica il suo spazio di felicità: la scrittura si rivelata un’alleata preziosa, la vera chiave della rinascita

Leggere Il corpo ricorda di Lacy M. Johnson, edito NN Editore, è un atto di sincerità e coraggio: è come impugnare un bisturi per scavare, chirurgicamente, nella nostra stessa carne.

Il libro fa parte della collana Le fuggitive, è tradotto da Isabella Zani ed è stato finalista al National Book Critics Circle Award for Autobiography, al Dayton Literary Peace Prize, e all’Edgar Award for Best Fact Crime; è stato inoltre selezionato tra i migliori libri del 2014 da Kirkus, Library Journal e Houston Chronicle.

L’opera si presenta ufficialmente come memoir, ma è molto di più: è la rappresentazione del corpo come varco, come zona e perimetro di memoria eterna. Per orientarsi in questo libro occorre aggrapparsi saldamente ai due concetti di corpo e memoria, marchiati a fuoco in ogni pagina.

“È strano, penso ora, il modo in cui se pure la mente dimentica, il corpo ricorda. Il modo in cui il corpo ricorda slegato dalla mente: il modo di stare-accanto o giacere- sotto o sedere-sopra o rialzarsi-da. Il corpo ricorda le preposizioni: la propria posizione in rapporto ad altri corpi”. (p.38)

Questo è un romanzo di corpi, nervi e fibre spezzate; è un romanzo senza nomi di battesimo, perché ogni personaggio è solo un altro corpo: L’Uomo Con Cui Vivo, Il Mio Primo Marito, Mio Marito, Mia Sorella Maggiore, figure soltanto tratteggiate e mai tridimensionali, funzionali alla geografia emotiva della protagonista.

Il trauma è il nucleo pulsante della vicenda, ma non intende essere il centro del libro: l’orrore viene infatti sviscerato a frammenti e rivelato pagina dopo pagina, senza una coerenza formale. Non vi è linearità nel libro, e il racconto della vicenda è alternato alle indagini della polizia e alle sedute di psicoterapia.

Lacy M. Johnson, "Il corpo ricorda"

È la notte del 5 luglio 2000 quando Lacy M. Johnson riesce a scappare dal seminterrato in cui l’ex fidanzato l’ha imprigionata, intenzionato a ucciderla. Lei ha ventidue anni all’epoca del sequestro, e lui è stato il suo insegnante all’università e poi l’uomo con cui ha convissuto per anni.

Il rapporto tra la protagonista è il suo ex compagno non è raccontato seguendo un criterio cronologico, ma servendosi di pennellate e rapide impressioni: ci sono le fotografie delle loro vacanze, il pescado a la Veracruzana che lui le prepara, il corpo dell’uomo che dorme dandole le spalle, il sesso, la dipendenza e le manipolazioni sempre più umilianti, in un crescendo che non regala mai tregua al lettore.

L’autrice, col suo stile a tratti torrentizio e a tratti frammentato, affronta tutti i sentimenti contrastanti che hanno costellato la vita con l’uomo che l’ha sequestrata: “Lui che mi urla in faccia tutto il tempo, distorce le mie parole finché raccontano una storia che non ho mai sentito prima, finché dubito di me, finché cedo per sfinimento” (p.81).

Lacy M. Johnson rifiuta l’etichetta della vittima ed esplora le sfumature più dolorose del rapporto con l’uomo, i tentativi di compiacerlo, la voglia di scappare, tutti i momenti in cui lei prova a lasciarlo ma lui riesce sempre a farla tornare nella sua rete. Il rapporto di sudditanza è descritto senza filtri, in maniera schietta e liberatoria, e la narratrice offre al lettore la radiografia di una relazione- specchio, funzionale a riflettere il potere dell’uomo.

La prosa è visceralmente legata  alle impressioni del corpo e procede spesso per immagini, molto utili per dare l’idea delle sensazioni della narratrice: “io divento una pozzanghera, colo dal divano al pavimento”(p.83).

L’autrice rinnega qualsiasi tipo di giudizio e ci racconta la vicenda così com’è, in maniera impietosa, senza risparmiare nulla e camminando sul confine, labilissimo, che segna il rapporto tra vittima e carnefice “È facile scrivere che ho paura di lui. È più difficile scrivere che mi ha insegnato ad apprezzare il cinema, la buona cucina, e ammettere che probabilmente sono una scrittrice a causa sua, a causa di tutto quello che è successo. È difficile ammettere che lo amavo” (p.74).

La protagonista, nonostante tutto, non fa del suo carnefice un mostro senza alcuna parentela con la realtà, come sottolinea la traduttrice nelle Note alla fine del libro, ma gli regala anche dei lineamenti di umanità.

Il corpo assume tante forme nel racconto: corpo abusato, corpo sacrificato, corpo lavato e strigliato che si illude di risorgere il giorno dopo, nell’alba di un nuovo inizio.

Lacy M. Johnson e la scrittura come terapia

In fondo al buio della violenza, però, la narratrice rivendica il suo spazio di felicità: “Voglio solo essere felice” è un mantra che si ripete più volte, come a voler raggiungere finalmente un riscatto e un’espiazione.

Il corpo di Lacy M. Johnson continua a ricordare e rimuginare, ad avere paura dell’attrito coi corpi altrui, ma anche ad avere desiderio di un’altra carne capace finalmente di amare. L’autrice amerà altri uomini, scoprirà un amore non tossico e conoscerà anche la maternità.

Nella narrazione di questa maternità c’è, però, tutto il peso del trauma: la paura di sfiorare i suoi figli, la paura di farsi toccare, la paura di toccarli troppo e di fargli del male. Il corpo ricorda tutto, spesso non riconosce le carezze e ha paura del contatto, il corpo teme e desidera l’inevitabile al tempo stesso.

La scrittura è un altro macro-tema del memoir, perché è letteralmente la salvezza della protagonista.

Ogni giorno in cui Lacy M. Johnson inizia a scrivere, pensa di aver cominciato un giorno migliore e il lettore la segue in questa rinascita: per lei la scrittura è terapia e guarigione, possibilità di cambiare i fili della sua storia.

Scrivere il suo libro le dona esaltazione ed euforia, perché le parole le permettono di tornare a sentirsi padrona di quel corpo che non smette mai di ricordare. La scrittura le dona lacrime e paura, speranza e riscatto, ma soprattutto le dona il coraggio di osservare, davvero e per la prima volta, il suo corpo.

La narrazione procede spedita e poi torna indietro, va avanti e poi indugia. L’ultima parte del libro è quella più dolorosa ma anche la più compatta: il blocco finale del memoir rivive, con dovizia di particolari, il giorno del sequestro e la fuga dall’uomo con cui conviveva.

Il lettore osserva la protagonista incatenata a una sedia vede il suo sangue che cola, sente il tocco delle mani dell’aguzzino che si avventano sul corpo nudo della donna. Tutto intorno c’è rumore bianco e il soffitto azzurro: la prosa dell’autrice fornisce una bussola per orientarsi nell’orrore, dei colori che aiutano a non perdere la lucidità e trovare una via di fuga.

Un polso che si libera, una catena che si allenta, un caleidoscopio di sensazioni e di freddezza; le gambe che conducono a una porta che non è chiusa a chiave, la prontezza dei riflessi e il silenzio. Un ultimo istante in cui c’è soltanto il buio e la solitudine: la mano tocca la porta, la accarezza, la spinge. La porta si apre e nella mente c’è soltanto una parola: Avanti.

La protagonista esce dall’incubo e  anche il lettore esce da questa storia, senza però mai uscirne davvero, perché ogni singola parola di questo memoir è destinata a testimoniare una memoria eterna e bruciante.

La sincerità di questo libro è intollerabile, quasi un atto di maleducazione, ma la letteratura non ha il compito di rassicurare o di dare risposte, può semmai far sorgere nuovi dubbi e universalizzare l’esperienza individuale. Il memoir di Lacy M. Johnson è letteratura viva e pulsante, perché riesce a trasfigurare il proprio trauma personale senza autocompiacimento, sublimandolo la memoria privata del corpo in memoria collettiva.

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