Dopo il successo dell’acclamato “Tre donne”, Lisa Taddeo (scrittrice americana di origini italiane) torna in libreria con “Animale”, un romanzo sul consenso, le relazioni, il sesso e la natura misteriosa del desiderio femminile. Nel costruire il personaggio protagonista, l’autrice indugia talmente tanto sulle ferite del suo passato da generare una sorta di carneficina emotiva, che si inserisce in una tendenza piuttosto diffusa: quella di “sbattere il trauma in prima pagina”. Viviamo infatti in un’epoca in cui le storie sono edificate proprio sulla presenza di traumi più o meno violenti. Ma cosa genera tutta questa ostentazione?

“Se qualcuno mi chiedesse di descrivermi in una sola parola, sceglierei depravata“. Lisa Taddeo sa come evitare i giri di parole. Arriva dritta al punto e sicuramente ci prova gusto a non usare mezzi termini, ma a selezionare quelli più ruvidi e sconvolgenti. Su questa scia decide di impostare il suo nuovo libro, Animale (Mondadori, traduzione di Monica Pareschi), pubblicato dopo il successo dell’acclamato (più all’estero che in Italia) Tre donne.

A differenza del suo primo lavoro – in cui l’autrice aveva raccolto storie di donne sul desiderio, sintetizzando una ricerca durata otto anni sul territorio americano – questa volta Taddeo ha scelto di ricorrere alla forma romanzesca. Ma i temi, in fondo, sono molto vicini a quelli del precedente saggio: il consenso, le relazioni, il sesso e la natura misteriosa del desiderio femminile, che può appassire da un momento all’altro o spingersi in luoghi inimmaginabili.

animale lisa taddeo

È Joan a dare voce a tutti questi aspetti: figura respingente fatta di carne, rabbia e di tutti i suoi traumi.

Con lei si instaura fin da subito un rapporto ambiguo e ostile, al limite del fastidioso, non tanto empatico, ma stranamente ammaliante. Quando la incontriamo per la prima volta, sta cenando in un ristorante con un uomo sposato. Un altro uomo (sposato) irrompe nel locale e, guardandola negli occhi, si toglie la vita sparandosi un colpo in testa.

Da questo momento (siamo letteralmente alla terza riga della prima pagina) si spalanca il racconto di una serie eventi serrati e caotici, apparentemente privi di senso. Siamo risucchiati in una voragine che prende le sembianze di un flusso di coscienza intimo e disinibito, in cui affiorano flashback di una vita sofferta e pensieri intrusivi, tra i quali, qualche volta, spuntano anche pochi ricordi felici – un pomeriggio di sole a Grosseto, il gusto della grappa sulla lingua, il primo bacio.

Così, mentre noi sprofondiamo nell’abisso di Joan, lei si mette alla ricerca di Alice, l’unica persona al mondo che sembra poterla aiutare a dare un senso al suo passato. Un passato di violenza e di abusi, di vergogna e di ossessioni.

Come in Tre donne, anche in Animale Taddeo ci suggerisce l’idea che ogni donna viva con un’ombra dentro, una sorta di un trauma originario legato alla presenza maschile. È il trauma che ci definisce come persone e che condiziona le nostre scelte. Ma non solo: è il trauma che chiama e genera nuovi traumi. Si mette quindi in atto uno schema disfunzionale per il quale la vulnerabilità diventa un magnete che ci rende ancora più esposti e fragili.

L’autrice indugia talmente tanto su questo aspetto che alla fine, della protagonista, non ci rimane che una manciata di ferite. Anche il Guardian sostiene che “sfortunatamente, il romanzo va storto in un paio di punti cruciali. Innanzitutto, il personaggio di Joan è unidimensionale. È una vittima di un abuso sessuale che non ha interessi a parte il sesso e il suo stesso trauma. Non legge mai un libro, non guarda la tv, non ascolta musica, non fa niente di pratico. Non ha ricordi di nient’altro che non siano traumi e sesso. Ci sono varie scene in cui racconta le sue esperienze lavorative passate, ma non scopriamo mai cosa ha fatto nel dettaglio – o meglio, tutto ciò che sembra aver fatto lì sia stato fare sesso indesiderato”.

L’effetto è una carneficina emotiva che procede per accumulo e che insiste su una tendenza piuttosto diffusa: quella di “sbattere il trauma in prima pagina” – e infatti Taddeo fa esattamente questo quando nel secondo capitolo scrive: “scommetto che la maggior parte di queste persone non ha passato nemmeno l’uno per cento di quello che ho passato io”.

È quindi in parte vero quello che scrivono in molte recensioni uscite oltreoceano: ovvero che la scrittura di Taddeo sembra risultare più efficace nella forma saggistica – o, semplicemente, che Tre donne è un lavoro più completo e riuscito rispetto ad Animale. Il che può apparire paradossale, visto che l’autrice in questo romanzo non ha freni e quasi ogni frase è una stilettata, precisa e violenta. Ma forse è proprio questo esagerare nelle descrizioni, questo sostare nei ricordi traumatici e nel rievocarli con assoluta crudezza che, nella dimensione romanzesca, risulta un po’ artificioso. E anche poco credibile. Tutto troppo, troppo tutto.

Alcuni l’hanno definito un’occasione mancata. Altri invece hanno ricondotto questo calcare la mano a un gusto generale per l‘ipernarrazione del trauma. Secondo il New Yorker infatti viviamo in un’epoca in cui le storie sono edificate proprio sulla presenza di un trauma: “a differenza della trama del matrimonio, la trama del trauma non dirige la nostra curiosità verso il futuro (lo faranno o no?) ma indietro nel passato (cosa è successo?)”.

La teoria del trauma trova la sua incarnazione più fulgida in Una vita come tante di Hanya Yanagihara, un romanzo incentrato su uno dei personaggi più tormentati, disgraziati e maledetti che la letteratura abbia mai visto (non a caso è anche il numero uno dei cosiddetti “libri per piangere” che tanto spopolano su TikTok). Ma anche il proliferare di generi come il memoir, l’autofiction, la testimonianza o i reality e i talk show in televisione, dimostrano quanto sia forte l’esigenza di confessarsi e di mettersi a nudo, l’urgenza di mostrare e rivendicare le proprie ferite. E si sa che – almeno secondo le teorie di drammaturgia più accreditateè dalle ferite che nascono le storie. Ma cosa genera tutta questa ostentazione del trauma?

Sempre dall’approfondimento del New Yorker: “Il trauma ha la meglio su tutte le altre identità, riduce la personalità e la ricostruisce a propria immagine. Con la trama del trauma, la logica è questa: evoca la ferita e crederemo che un corpo, una persona, l’abbia sopportata. Trauma è diventato sinonimo di retroscena“. E così facendo ha perso il suo significato, svuotandosi di senso e diventando spesso soltanto un elemento retorico.

Ecco dunque che in questo contesto il libro di Taddeo assume un valore più grande, fornendo una preziosa occasione per riflettere non solo su come i nostri traumi ci definiscano, ma anche sul sotterraneo (e a volte nemmeno troppo consapevole) bisogno che abbiamo di mitizzarli. Come se solo essi ci potessero legittimarci a essere quello che siamo. Anche se siamo il nostro peggio, anche se ci riduciamo a essere non più umani: animali.

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