Chi siamo senza i nostri ricordi? “Zucchero bruciato”, esordio letterario di Avni Doshi, tra i finalisti del Booker Prize, è un potente romanzo sulla memoria, sulla malattia (l’Alzheimer), sul tempo e sull’ambivalenza della maternità

“Questa è una perdita lunga ed estenuante, in cui si sparisce un pezzettino alla volta. Forse, allora, non c’è altro da fare se non aspettare, aspettare finché lei non sarà più lì nel suo guscio, e allora potrà iniziare il lutto, un lutto pieno di rimorso perché non ci saremo mai chiarite”.

Da circa un anno, sua madre sta perdendo la memoria a causa di una precoce forma di Alzheimer. Dal momento della diagnosi, Antara si ritrova con una rabbia che non può sfogare, intrappolata nella cura di una donna che non si è mai presa cura di lei. E che presto dimenticherà tutto il dolore che le ha inflitto, restando impunita.

Zucchero bruciato, esordio letterario di Avni Doshi, è un romanzo sulla memoria e sul tempo, e sull’ambivalenza della maternità. Pubblicato per la prima volta in India nel 2019, nel 2020 è tra i finalisti del Booker Prize e ora arriva in Italia con Editrice Nord, nella traduzione di Francesca Martucci.

Il peso della malattia porta con sé un’inversione di ruoli che deve fare i conti con il passato delle due donne: una madre – Tara – narcisista, emotivamente assente, guidata solo da un ossessivo desiderio di rottura e ribellione; e una figlia – Antara – strappata per capriccio a una normale vita familiare e trascinata senza consenso in realtà ogni volta diverse, abitate solo da uno stesso senso di solitudine e abbandono.

Avni Doshi ha una prosa che il New York Times ha definito precisa e devastante. E segue le oscillazioni di una narrazione che scorre su due binari temporali, alternando passato e presente.

Avni - Sharonharidas

Credit: Sharon Haridas

Ci sono i ricordi di infanzia: gli anni trascorsi tra le mura dell’ashram del guru indiano Baba, un fittizio Osho Rajneesh (che proprio a Pune, dove è ambientata la storia, aveva la sua controversa comunità), dove Antara cresce sotto la guida di un’altra donna; la fuga e l’elemosina; l’esilio in collegio ma anche la familiare casa dei nonni. E ci sono i giorni di oggi, della malattia, fatti di foglietti sparsi per la casa nel tentativo di rallentare l’amnesia, di pentole lasciate incustodite sul fuoco e sguardi incerti, ma anche di silenzi coniugali e crisi di identità.

Tara, la madre. An-tara, la figlia. L’una l’antitesi dell’altra. In un tentativo di separarla quanto più possibile dalla sua strada, attraverso la negazione del suo stesso nome la madre si appropria definitivamente di lei, vincolandola a un legame che può realizzarsi soltanto in una simile ambivalenza. È quell’opposizione di forze che Antara continua a sentire dentro di sé anche da adulta, e che porta in apertura del romanzo a farle rivelare al lettore: “Mentirei se dicessi di non aver mai gioito dell’infelicità di mia madre”.

Antara è diversa da Tara, ma proprio come lei, è diversa anche da tutti gli altri. È complicata, le dicono i parenti, sembra non appartenere mai a nessuno, a nessun luogo. Anche il suo matrimonio, carico di disillusioni e in fondo male assortito, la fa sentire in gabbia. Il suo unico rifugio è la sua arte, quei disegni a cui metodicamente lavora da anni: il volto di uomo, sempre lo stesso eppure ogni giorno sempre diverso dal precedente, riproduzioni che celano sotto gli occhi di tutti (e anche del lettore) la sua colpa più grande.

Nei personaggi di Avni Doshi non c’è dolcezza, si fa fatica a comprenderli fino in fondo, a empatizzare, ma è questa la loro forza. I pochi uomini della storia – il marito e il padre di Antara, gli amanti della madre – sono concentrati unicamente su loro stessi, sostenuti da una società ancora estremamente patriarcale. Con i personaggi femminili, invece, l’autrice sfida i tabù associati al ruolo di mogli e di madri.

La maternità tossica che mette in scena ha matrice generazionale: le cattiverie che Tara infligge alla figlia – pizzicotti, percosse, commenti taglienti, fino a veri e propri atti di distruzione – non sono che il riflesso di ciò che lei per prima ha subito, anche se in forma diversa. “Come faremo a sfilarle i gioielli quando muore?” si domanda la madre di Tara, davanti al peggioramento della malattia della figlia. Di generazione in generazione, ogni volta uguale ma diversa dalla precedente. Neanche Antara potrà fuggire la sua eredità affettiva.

Chi siamo senza i nostri ricordi? E quanto quelli che ci restano sono affidabili? Il lutto prolungato della malattia accompagna, pagina dopo pagina, la riflessione sulla memoria. Durante i sette anni in cui ha lavorato al romanzo, l’autrice ha dovuto fare i conti anche con la diagnosi di Alzheimer della nonna e scrivere è diventato così un modo per imparare e comprendere il più possibile questa malattia. Dopo otto stesure, prima di conquistare il mercato internazionale come Zucchero bruciato, il libro ha visto la luce in India con un titolo diverso, Girl in White Cotton che gioca con la simbologia cromatica orientale, dove il bianco identifica il lutto. Lo stesso bianco di cui si veste Tara in gioventù come atto di ribellione, come grido alla sua diversità.

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