In “Bianco è il colore del danno” la giornalista Francesca Mannocchi racconta il modo in cui una patologia cronica, per la quale non esiste cura, ha cambiato il suo modo di stare al mondo. Di essere madre, figlia, compagna, cittadina – Su ilLibraio un toccante capitolo dal libro

Quattro anni fa, la giornalista Francesca Mannocchi, nota per le sue corrispondenze da diverse zone di conflitto (ha realizzato reportage da Iraq, Libia, Yemen, Libano, Siria, Tunisia, Egitto e Afghanistan, e si è trovata trovata spesso in zone di guerra), ha scoperto di avere una patologia cronica per la quale non esiste cura. Questa nuova, personale convivenza con l’imponderabile ha cambiato il suo modo di essere madre, figlia, compagna, cittadina.

Ne parla nel suo nuovo libro, Bianco è il colore del danno (Einaudi Stile Libero), in cui indaga sé stessa e gli altri, scava nelle pieghe delle relazioni più intime, dei non detti più dolorosi, e si confronta con un corpo diventato d’un tratto nemico.

Qui, inoltre, Mannocchi ha deciso di domandarsi come crescere suo figlio correndo il rischio di diventare disabile all’improvviso e di non potersi più occupare di lui come prima. Il suo corpo, in apparenza integro eppure danneggiato, diventa così lo specchio della fragilità umana e insieme della nostra inarrestabile pulsione di vita.

L’autrice, che scrive da tempo per L’Espresso e altre testate, e che con il suo primo libro, Io Khaled vendo uomini e sono innocente (Einaudi Stile Libero, 2019), ha vinto il Premio Estense, guarda dunque il mondo attraverso la lente della malattia per rivelare tutto ciò che è inconfessabile, anche perché essere malata l’ha costretta a conoscere il Paese attraverso le maglie della sanità pubblica.

bianco è il colore del danno francesca mannocchi

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto del libro:

Fata Morgana

C’è una canzone di Piero Ciampi che si chiama È Natale il 24. Ciampi dice che il 24 ha la folle sensazione di fermarsi a una stazione senza amici e senza amore. Io no, ma anche per me il Natale è il 24. Da quando sono nata ogni anno lo festeggiamo nello stesso posto: a casa di zia Antonietta, la sorella maggiore di mia madre. Zio Nello, suo marito, mette in tavola i pomodori che ha steso al sole, lasciato seccare poi condito con olio, aglio e peperoncino, mi dice «zio li ha fatti apposta per te», torno a sentirmi bambina, lo ringrazio di spacchettare la mia età in tante piccole ere che non ci sono piú e riportarmi a quella di partenza. Mangiamo i fritti natalizi, i carciofi, le mele, il cavolfiore, i broccoli e il baccalà in pastella. Siamo felici, riconciliati con l’idea di famiglia che smette di essere la gabbia delle aspettative tradite e diventa un’addizione d’amore, rinnovata coi posti aggiunti a tavola per i figli e i figli dei figli.

La parola famiglia, nella sua accezione migliore, è la tavola di ramo materno, la notte della vigilia di Natale.

Niente da detrarre né da dimostrare. Niente crediti né debiti.

Ora che Rita non c’è piú al suo posto siede l’umiltà che ci ha insegnato, l’umiltà da cui veniamo.

Ogni anno, pochi minuti prima della mezzanotte, un adulto si assenta senza dare nell’occhio e prende le sembianze di un signore barbuto e robusto che viene dal Nord.

Fingiamo di vedere le renne nelle luci delle case in lontananza, zia Antonietta urla: – Arriva Babbo Natale, arriva Babbo Natale! – e arriva davvero, con un sacco di iuta sulle spalle e i regali per tutti. E per tutti una lettera, per i buoni e i meno buoni. Le scrive tutte zia.

Sospendiamo l’incredulità fingendo che non manchi nessuno nella stanza per godere lo spettacolo dei bambini sbalorditi. A volte piangono, altre volte fingono stupore per non deludere le nostre chimere. Io mi avvicino a zia e le sussurro all’orecchio: – Ma allora Babbo Natale esiste davvero? – E lei risponde sempre: – Solo se ci credi –. Me lo dice perché io non ci ho creduto mai.

Ma voglio che Pietro lo faccia, per questo anch’io divento una madre fata Morgana e recito il copione magnifico della finzione:

– Sei stato buono? Se sei stato buono Babbo Natale esaudirà i tuoi desideri, – lo dico e immediatamente mi pento.

Ti do, mi dài. O peggio: ti do, se mi dai.

La congiunzione se è l’unità di misura del dono per come ce l’hanno insegnato. Mette l’altro se non di fronte all’obbligo, almeno alla possibilità di dover dare qualcosa in cambio. Diventa una concessione.

Non è scelto per un altro, è scelto affinché un altro ci dia qualcosa in cambio.

Impone presenza perché la chiede.

Per come ce l’hanno raccontato la notte di Natale, il dono è tirannico.

Mi mordo il labbro, pentita di aver detto a Pietro: «Se sei stato buono allora riceverai».

E gli dico: – Babbo Natale ti porterà un regalo perché è cosí che funzionano i doni: chi dona non chiede niente in cambio.

Mia madre tre anni fa mi ha fatto un regalo senza chiedere niente in cambio.

Ha smesso di mangiare gelato. Era il suo vizio, era capace di mangiarne chili.

Non manca mai, il gelato, nel suo freezer. Cassata siciliana coi canditi, affogato al caffè, il preferito di mio padre, sorbetto al limone per il dopocena d’estate, il biscotto gelato ripieno di cioccolato per Pietro.

[…] Ora però non lo mangia piú, ha fatto un fioretto. È il suo modo per dirmi: «doveva capitare a me». È il suo modo per dirsi: allora rinuncio, nostro Signore in cui non credo, rinuncio affinché lei non peggiori, affinché la malattia resti quieta e non si svegli.

Rinuncio perché è questo che fanno le madri. Le madri si sacrificano.

Ci penso ogni volta che Pietro chiede un gelato e io le dico: – Te che gusto vuoi? – e lei mi guarda dallo spazio di uno sforzo, col sorriso arrendevole di chi sta perfettamente aderendo alla maternità. Il sorriso che dice: io mi privo, dunque sono madre.

E io capisco di averla guardata – o meglio non vista – con occhi di figlia, quelli presbiti che dànno l’amore per scontato.

Ad agosto ho preso un foglio e ho scritto il nome di mia madre, Daniela, e di nonna, Rita. Il lato dell’asse materno. Dall’altro ho disegnato quello paterno, il nome dell’altra mia nonna, Maria, e di sua madre, Antonia.

In fondo al foglio due linee oblique che portavano a un altro nome proprio, il mio. Qui c’è Francesca.

Ho unito i loro nomi in verticale cercando un segno che rendesse comuni quelle vite distinte, e l’ho trovato. Ognuna ha appreso di essere donna attraverso una mancanza, un gelato di cui si era privata.

I gusti: un lavoro lontana dai lacci familiari che potesse garantire l’autonomia di un «no», di un «decido io», di un «si fa a modo mio». Il patrimonio paterno per assecondare un amore seducente ma sfaticato. Una vita da casalinga per assembrare il tempo in mille occupazioni aggiusta cuore. Una cura, prima di morire lasciando sei figli orfani.

Questa è la divisa delle donne che osservo: un atto di rinuncia, offerto per noi e per tutti, un sacrificio in remissione di una causa superiore, che per nome proprio non ha mai avuto il loro.

Disegnando le rette che si intersecavano nel mio nome mi sono domandata se fosse un altro messaggio in codice della gabbia, dell’immobilità potenziale della malattia, se cioè il corpo mi stesse dicendo di disancorarmi dall’infelicità di chi aveva mandato a monte sogni e desideri, sacrificandosi.

«Espugna il tuo futuro. E liberalo dalla mancata realizzazione di altri».

Forse il messaggio cifrato dice questo.

La scorsa estate, mentre camminavo lungo il sentiero che porta a Scoglio di su Brecconi, a Tertenia, in Sardegna, salendo e scendendo scogliere su ciottoli appuntiti circondati dal ginepro, ho pensato a una frase che scrissi anni fa, era la fine degli anni Novanta, su uno dei miei diari: «La famiglia è quella cosa che ti impone di non allontanarti dalla riva mentre tu hai già raggiunto l’altra sponda».

Pietro camminava da solo due metri avanti a me, affatto fiaccato dal caldo e ansioso di raggiungere le cale sottostanti. Mi ha detto: – Mi aiuti?

Non ricordavo la ragione di quella frase scritta sui diari di ragazza, quale crisi momentanea avesse ordinato una sillaba dopo l’altra le parole che la componevano, quale scelta non condivisa avesse reso me, mio padre e mia madre una volta ancora antagonisti.

Sapevo però che è l’altro modo che possiedo per dire famiglia. Che lo combatto, muovendomi, a un tempo rancorosa e riconoscente, nelle vite di chi, pur amandomi molto, mi ha amata male. Mi è tornata in mente quella frase e istintivamente ho detto a Pietro: – Ce la puoi fare da solo, sei bravo.

Lui ha stretto i pugni in segno di dissenso, ha detto: – Mamma, mi ero stancando, non ce la faccio.

– Certo che ce la fai, – ho detto io e siamo andati avanti, un passo dopo l’altro camminando sulle pietre che, consumate dal vento e dal tempo, sono diventate scalini naturali.

Quando abbiamo raggiunto la cala ho portato Pietro a nuotare.

Volevo arrivare fino allo scoglio distante qualche decina di metri, che poi è un’isola, non uno scoglio, Pietro mi chiedeva: – Mi porti lontano con te? – E io guardavo la riva che si allontanava e il moto delle nostre gambe farsi spazio nell’acqua, ci tenevamo per mano, lo incoraggiavo, prova da solo, ce la fai, lo vedi? E vedevo tutto, trasparenza e cristalli di luce, una manciata di schiuma a ogni bracciata, il suo pugno frettoloso a liberare gli occhi dal sale finché si è stancato e mi ha detto: – Mi aiuti a tornare a riva, mamma? Non riesco da solo.

Il mare è diventato livido, guardavo i piedi toccarsi a ogni gambata.

Pensavo: sarà sempre cosí? E per quanto ancora? Che madre è una madre che ti promette l’altra sponda senza essere certa di potertici accompagnare? Che madre è una madre che raggiunta l’altra sponda può non saperti riportare a riva?

Quando siamo tornati indietro mi sono arrampicata su uno scoglio, ho guardato l’isolotto da lontano e Pietro da vicino. Vado a nuotare, ho detto. Pietro voleva venire con me e gli ho spiegato che, a volte, famiglia significa lasciare andare la mamma e il papà che hanno voglia di fare cose da soli.

– A te cosa piace fare da solo qui al mare? – Giocare ai supereroi sui sassi. – A papà? – Pescare col fucile sott’acqua.

– E a mamma? – Nuotare da sola la sera e la mattina.

E cosí sono andata, ho raggiunto l’isola a stile libero e mi sono seduta su un sasso.

Avevo l’impressione che ci fosse una guardia a seguirmi, l’ombra delle parole del diario.

Pietro era su un altro sasso ma distante.

Continuavo a non ricordare la ragione della frase appuntata sui diari di ragazza, «la famiglia è quella cosa che ti impone di non allontanarti dalla riva mentre tu hai già raggiunto l’altra sponda», ma avevo chiara l’impronta del dolore che l’aveva generata.

Vedevo riflessa nell’acqua l’immagine dei miei genitori seduti alla destra – mio padre – e alla sinistra – mia madre – del mio posto a capotavola, sul tavolo di marmo della nostra cucina.

Vi rendo tutto, ho detto a voce bassa.

Vi restituisco i patimenti di cui mi sono fatta carico e li oltrepasso, nuotando a rana, lo stile che da sempre preferisco.

La rinuncia è stata il freno della mia vita, l’esempio che le donne mi hanno dato, è stata il loro sacrificarsi per gli altri, sacrificarsi anche per me.

Ho pensato alla retta di destra e di sinistra, le donne di madre e le donne di padre e tornando a riva le ho oltrepassate. Consegnando loro gratitudine e perdono, e a mio figlio, se non la promessa che potrò sempre riportarlo a riva, la memoria di averlo fatto una volta almeno.

(Continua in libreria…)

 

Libri consigliati