Dopo una vita di privazioni e rigide regole, quando Alessandra scopre di essere incinta, decide di allontanarsi dalla comunità di Testimoni di Geova nella quale vive. “Il Dio che hai scelto per me” è il romanzo d’esordio di Martina Pucciarelli (di cui pubblichiamo un estratto), e la storia raccontata si ispira in parte alla sua esperienza: un doloroso addio e la ricostruzione di sé…
Cambiare richiede molto coraggio. Lo sa bene Martina Pucciarelli che, ispirandosi in parte alla sua storia, scrive un romanzo d’esordio intimo e doloroso, fatto di rinunce ma anche di amore: l’amore materno in grado di stravolgere una vita intera.
Il Dio che hai scelto per me (HarperCollins Italia) è il racconto di un addio. Alessandra, la protagonista, è cresciuta in una comunità di Testimoni di Geova, cercando sempre di rispettare la rigida disciplina e le regole imposte. Niente musica o libri che non fossero quelli scelti dalla comunità; mai un compleanno, e anche quando ha incontrato l’amore, ha dovuto sacrificarlo. Un’infanzia segnata da privazioni e abusi durante la quale la protagonista ha sempre cercato di soddisfare le attese dei genitori.
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Poi il matrimonio con Federico, un uomo più grande scelto per lei all’interno dei Testimoni, e Alessandra, da figlia devota, si ritrova a dover essere una moglie devota.
Ma quando la donna scopre di essere incinta, qualcosa cambia. Sente di voler donare ai suoi figli la libertà che le è stata negata. E inizia un percorso di allontanamento dalla comunità, e di ricostruzione di sé, che stravolge la sua vita e quella delle persone vicine.
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Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
Da qualche tempo mi ero trincerata nel silenzio, rispondendo solo “forse” quando venivo interpellata, una sorta di sciopero della parola, una forma di protesta pacifica messa in atto senza però averne cognizione di causa. Un giorno di quell’inverno smisi semplicemente di parlare, destando non poche preoccupazioni. Ero una bambina molto ubbidiente, vivace ma con un forte senso del dovere e l’obiettivo principale di dare meno disturbo possibile ai miei genitori, essendo io la seconda di cinque figli. Avevo otto anni e dividevo la vita e la stanza da letto con due fratelli e due sorelle, di cui tre più piccoli di me. Lavorava solo papà, mentre la mamma era dedita alla cura dei figli e della casa. Un solo stipendio, l’affitto da pagare, i soldi sempre troppo pochi, mia madre colma di frustrazione e mio padre ritirato in un mondo tutto suo fatto di poesia, fotografia, radiocomunicazioni e altri ritagli di passioni giovanili che conservava con accanita gelosia, in grado di isolarlo da tutto e di offrirgli protezione da strilli, pianti, debiti, la costante necessità di un miracolo economico, i conflitti irrisolti con i suoi genitori.
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La mia protesta silenziosa non doveva pertanto minare gli equilibri familiari che mi volevano buona, affettuosa, ricettiva agli ordini, responsabile verso i miei fratelli e le mie sorelle, attenta agli umori di mia madre. Ben presto, però, il mio silenzio era diventato un’anomalia disturbante. Un impiccio. Gli adulti si attivarono allora con domande di vario tipo per stimolarmi. «Ti piace la neve?» mi aveva chiesto la mamma pochi giorni prima. Ma io rispondevo solo “forse” a qualsiasi domanda. «Non mi devi rispondere “forse”» aveva ribattuto lei. «Se mi rispondi “sì”, ti faccio scendere a giocare con la neve, altrimenti resti qui a casa.» Non avevo mai visto la neve a Livorno, e nemmeno altrove. Le famiglie più abbienti della mia, per poter godere di quel bianco immacolato senza allontanarsi troppo dalla città, salivano fino all’Abetone; noi una settimana bianca non potevamo permettercela, e neppure una sola giornata in alta montagna perché a stento riuscivamo a comprare una giacca a testa, figurarsi il corredo da sci.
Quella, perciò, era un’occasione irripetibile. All’aut aut di mia madre di scegliere tra la neve e la parola, tuttavia, non cedetti e restai a casa a osservare dalla finestra i miei fratelli lanciarsi palle di quella bianca meraviglia. Quel giorno mia madre mi aveva portata con sé a fare acquisti in un negozio dove era possibile comprare a buon mercato vestiario per tutta la famiglia. Come sempre, io l’avevo seguita senza protestare, come se fossi una sua estensione. Eravamo spesso in completa comunione di sentimenti: ciò che piaceva a lei, piaceva a me. Ciò per cui si indignava, indignava anche me; qualsiasi cosa lei amasse, temesse, rigettasse, io amavo, temevo, rigettavo a mia volta con maggiore intensità. Era come se le mie terminazioni nervose fossero collegate al suo sistema nervoso centrale: il suo dolore era anche il mio, così come le carezze mancate; potevo sentire caldo e freddo per lei. La mamma acquistò qualche rimanenza del negozio in offerta, e scelse per me una felpa multicolore, in pile spesso. Era raro poter godere di lei in modo esclusivo, non doverla dividere con nessuno, avere la sua completa attenzione. Decisi quindi che era arrivato il momento di aprirmi liberamente con lei e, una volta uscite dal negozio, quando mi chiese se la felpa mi piaceva, pronunciai un chiaro e inequivocabile “no”.
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Ruppi in questo modo l’abitudine ai “forse” che durava da settimane, uscendo dal territorio neutro del dubbio in cui mi ero rifugiata, con un’attestazione: no, non mi piace quello che hai scelto per me. Avrei potuto scegliere altre parole: avrei potuto rispondere “sì” o, meglio ancora, “sì, grazie”. Avrei potuto dire alla mamma che la felpa era bellissima, o che non vedevo l’ora di indossarla; invece, la mia nota compiacenza in quel frangente venne meno, e il “no” si impose in me con prepotenza. Mia madre decise allora di impartirmi una lezione fondamentale: non avrei più dovuto dire ciò che pensavo.
La vidi trasformarsi, assumere una forma mai conosciuta prima. «Adesso basta: sono stanca!» Mi prese per i capelli e mi strattonò con forza. «Non ti piace? Ho capito bene?» La voce e lo sguardo feroci, il pugno che stringeva ciuffi di capelli. «Avessi mai ricevuto io un regalo da bambina! Un’attenzione, una carezza: niente!» Mi fece sedere di forza su una panchina davanti a dove aveva posteggiato il nostro furgoncino familiare. «Sono stanca! Mi hai sentito? Sono stanca!» Annuii più volte, guardandola, incapace di reagire. Mi intimò di non alzarmi. Mentre infilava le buste nel bagagliaio del Ducato, la sentii mormorare tra sé e sé: «Non le piace, non le piace… mai un regalo… una carezza…». Poi salì in auto, mise in moto e se ne andò. Ero rimasta sola.
(continua in libreria…)
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