“Non sono attratto da opere in cui il disturbo mentale è al centro della narrazione. Mi interessa la normale instabilità, l’accumulo di perturbazioni, il disagio, l’incapacità di stare al mondo”. Dopo l’esordio, “La casa mangia le parole”, Leonardo G. Luccone torna con un nuovo romanzo, “Il figlio delle sorelle”, e ne parla in questa intervista: “La pandemia? L’impatto a breve sarà in termini letterari modesto e soprattutto non facilmente leggibile… sarà determinante capire come questo disagio si infiltrerà nelle storie, quali forme prenderà”. E ancora: “Non si commenta mai abbastanza quanto la narrativa contemporanea sia refrattaria alla tecnologia”

Leonardo G. Luccone vive e lavora a Roma. Figura nota nell’ambiente dell’editoria, nel 2005 ha fondato Oblique. Ha tradotto e curato volumi di scrittori angloamericani come John Cheever e F. Scott Fitzgerald, e nel 2019 è stato pubblicato da Ponte alle Grazie La casa mangia le parole, il suo esordio letterario.

Il figlio delle sorelle, la sua nuova opera narrativa, edita sempre da Ponte alle Grazie, è il racconto di un padre, un uomo malato di mente e ormai stremato. La figlia Sabrina, nata quasi vent’anni prima in modo miracoloso ma anche devastante per i fragili equilibri familiari, ritrova l’uomo dopo oltre un decennio, e conosce Carlotta, la sorella che non ha mai avuto.

 

luccone il figlio delle sorelle

Luccone, ne La casa mangia le parole, il suo primo romanzo, ha affrontato aspetti fondamentali dell’oggi, a partire dall’identità personale e politica sempre più in crisi. Ne Il figlio delle sorelle evidenzia il disfacimento della famiglia tradizionale e mostra i problemi della paternità: si può dire, più in generale, che da autore la ossessionino la decadenza del mondo e dei suoi modelli, non più consolidati?
“Sì. Mi interessa sia la grande scala sia quella minuscola, cioè individuale. Rispetto al libro precedente qui il movimento è più dal particolare (un uomo, la sua famiglia, le sue relazioni) verso l’universale (la paternità e la maternità, avere figli in tarda età, il destino dei giovani nel mondo frantumato)”.

Altro tema centrale nel nuovo romanzo è il racconto della malattia mentale: sono tante le narrazioni di questi anni che, da punti di vista diversi, si confrontano con i disturbi legati alla psiche (del resto, in tempi di pandemia ogni giorno i media stessi sottolineano queste problematiche, che rappresentano una vera e propria emergenza): in questo senso ci sono letture che l’hanno colpita, di recente?
“Opere rilevanti recenti non ce ne sono, o perlomeno non le ho lette. Non sono attratto da opere in cui il disturbo mentale è al centro della narrazione. Mi interessa la normale instabilità, l’accumulo di perturbazioni, il disagio, l’incapacità di stare al mondo. Devo dire che tutta la narrativa di valore parla esattamente di questo. Benn, Walser, Hofmannsthal, Joyce, Sebald, Bernhard, Plath, Shirley Jackson, DeLillo, Berto, D’Arrigo sono centrali”.

Nell’ultima parte del libro, quella dedicata al viaggio in Sicilia, tra padre e figlia ci sono molti riferimenti al mito. Ce ne vuoi parlare?
“Lascerei il piacere al lettore. Posso però citare due cose lontane ma collegate che hanno molto alimentato il romanzo. La prima: sono anni che ho in mente una frase di Johan Huizinga: ‘Gli dèi erano immortali’. Mi ha sempre attratto il fatto che gli dèi si accoppiassero tra loro in modo spregiudicato, senza far tanto caso ai vincoli familiari. La seconda: in una mostra sui riti eleusini mi hanno colpito alcuni frammenti di vasi e pinakes ritrovati nell’antica Locri Epizefiri. Rappresentano una versione molto femminista del mito di Persefone. Persefone sovrasta Ade, è la vera regina dell’aldilà, dell’underworld. C’è un culto sincretico e segreto di Persefone che ha riflessi sulla società attuale. Mi interessava capire di più, andare alla fonte, anzi al lago di Pergusa”.

A proposito, da osservatore della narrativa contemporanea, che impatto pensa avranno i due anni di emergenza sanitaria nei romanzi del prossimo futuro?
“L’impatto a breve sarà in termini letterari modesto e soprattutto non facilmente leggibile. Certo, ci saranno una serie di romanzi e racconti direttamente legati alla pandemia, ma non è questo che interessa. Sarà determinante capire come questo disagio si infiltrerà nelle storie, quali forme prenderà. Per capire il fenomeno, però, c’è bisogno di distacco. Ci vorranno venti o trenta anni per capire. Solo ora cominciamo a renderci conto degli effetti di Černobyl’ sulla letteratura successiva. Oppure degli effetti di internet. Non si commenta mai abbastanza quanto la narrativa contemporanea sia refrattaria alla tecnologia: molte opere contemporanee sembrano ambientate negli anni Settanta, o prima. Sono onde di trasformazione complesse, e letteratura e editoria sono decisamente conservatrici”.

Tornando alla sua narrativa, gioca un ruolo importante la struttura: al montaggio delle trame lavora a posteriori o ha tutto in mente sin dall’inizio?
“Non faccio grandi lavori di rimontaggio; voglio che su carta siano esattamente come li ho in mente: presente e passato sullo stesso piano, contemporanei, confusi. Il presente riscrive costantemente il passato”.

Un passo indietro: lei è editor, traduttore, agente e tiene corsi di editoria: ha atteso il 2019 per il suo debutto narrativo. Cosa l’ha spinta a questo passo? Abituato a lavorare a testi altrui, con quanta severità si pone davanti ai suoi, nel lavoro di stesura e revisione?
“Lavorare da editor in casa editrice è una delle ragioni per cui mi sono tenuto alla larga dalla pubblicazione, o dal valzer degli editor-scrittori. È dal 2014 che non ho più incarichi ufficiali da editor in casa editrice, e cinque anni mi sono sembrati un tempo sufficiente. Più in generale, quando un editor scrive è uno scrittore come gli altri: uno scrittore solo e vulnerabile. La sua competenza si azzera quasi del tutto, ed è una salvezza. Certo, se poi in rilettura subentra l’editor sono guai. Però è bene ricordare che di questa coabitazione è intessuta tutta l’editoria. Aldo Manuzio era un fine scrittore; Fitzgerald era anche un editor intelligente; di Calvino e Pavese e Vittorini si è parlato allo sfinimento. William Maxwell. Più recenti: Antonio Franchini, Claro, Max Porter”.

Negli anni avrà dato centinaia di consigli agli autori e alle autrici con cui ha lavorato, e non saranno mancate le critiche spietate: com’è il dialogo con il suo editor?
“Ad averne avute di critiche spietate! Il mio primo romanzo è stato accolto da un prolungato silenzio, perfino dalla maggior parte degli autori con cui lavoro. Certo, c’è il popolo rancoroso degli scrittori che magari ho rifiutato, ma su questo c’è poco da fare. Per fortuna ho trovato un editor schietto e capace, Vincenzo Ostuni, che mi dà fiducia e mi ha spinto a proseguire nonostante il risultato commerciale modesto. Lavoriamo in modo classico: legge il romanzo finito, ci vediamo e discutiamo ogni parte, poi rileggiamo sia insieme sia separatamente. Ci prendiamo tempi mediamente lunghi”.

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