“Tutta la sua vita è oggetto di pareri contrastanti, è come una sfida, un gioco di paradossi”. Lo scrittore e giornalista Alain Elkann, che si racconta a tutto campo su ilLibraio.it, ha dedicato un romanzo-indagine, “Il silenzio di Pound”, al controverso poeta americano, cercando di decifrarne il genio: “Un artista straordinario e un talent scout, ma non l’assolvo per il suo antisemitismo pervicace, che era quasi un’ossessione. Dopo la Shoah pensavamo che gli ebrei fossero al sicuro, ma non è così…”. Tra le altre cose, l’autore, allievo di Alberto Moravia e Indro Montanelli, parla dell’esperienza con la rivista Panta e dell’amicizia con Pier Vittorio Tondelli. Quanto all’arte dell’intervista: “Quella perfetta non esiste. Messner mi incuteva soggezione… Dare del tu è sbagliato, il lei aiuta a stabilire una confidenza e un’intimità”. E sulle nuove generazioni (dopo le polemiche sui “giovani Lanzichenecchi” incontrati in treno): “Leggere è una ricchezza straordinaria, spero che i ragazzi non perdano l’abitudine di avere un libro in tasca”
Diceva Ennio Flaiano che “il peggio che può capitare a un genio è di essere compreso”. Non è questo il caso del poeta e scrittore americano Ezra Pound, artista visionario, talent scout, economista eretico, traduttore geniale, dandy raffinato, amico di Yeats, Joyce, Eliot ed Hemingway, il vate che ha rivoluzionato i canoni poetici del Novecento e l’intellettuale violentemente antisemita e fiancheggiatore del fascismo, che ha pagato la fedeltà a Mussolini con la prigionia e un lunghissimo internamento in manicomio, a Washington, con l’accusa di tradimento. Una vita avventurosa conclusa nel nascondimento a Venezia dov’è morto il 1° novembre 1972.
Alain Elkann, padre di John, Lapo e Ginevra – avuti dall’ex moglie Margherita Agnelli e protagonisti, in questi mesi, di una querelle familiare dai risvolti giudiziari sull’eredità – nonché giornalista brillante e scrittore prolifico (quasi tutti i suoi libri sono stati pubblicati da Bompiani), allievo di Alberto Moravia e Indro Montanelli, autore di migliaia di interviste per la carta stampata e la televisione (si trovano online sul sito alainelkanninterviews.com) si è messo sulle tracce di Pound, quasi come un detective, per cercare di decifrare questo silenzio ed esplorarne il genio e la personalità contraddittoria e sfuggente. Ne è nato un libro, Il silenzio di Pound (Bompiani), un romanzo dove lo scrittore Morli, alter ego dell’autore, è ossessionato dal capire in che cosa consiste il genio: “Non volevo scrivere una vera e propria biografia di Pound”, ci spiega Elkann, che abbiamo intervistato, “molte cose che ci sono nel libro sono inventate“.
Cosa l’ha spinta a raccontare questa figura controversa?
“È cominciato tutto durante la pandemia, quando mi interrogavo spesso sull’essenza del genio. In ogni epoca ci sono numerosi artisti ma solo pochi, i geni, restano. Poi ci sono alcune eccezioni, come Caravaggio, ignorato per trecento anni e poi riscoperto”.
Ezra Pound era un genio?
“È la domanda che Morli, nel libro, pone ad alcuni suoi amici, Luke, Pietro e Fred, e ognuno risponde diversamente”.
Lei che ne pensa?
“Anzitutto era un talent scout straordinario. Quando arriva a Parigi, nel 1920, diventa amico di numerosi artisti, da Brancusi a Picasso, da Jean Cocteau a Erik Satie fino a Ernest Hemingway che dirà che lui gli aveva insegnato a tirare di pugilato e Pound aveva ricambiato insegnandogli cosa si doveva scrivere e cosa no. Si batte per far pubblicare James Joyce sulle riviste letterarie quando lo scrittore irlandese era ancora poco conosciuto fino a presentarlo a Sylvia Beach, proprietaria della famosa libreria Shakespeare & Co., che nel 1922 pubblica Ulisse. Aiuta a rivedere il manoscritto di The Waste Land di Thomas Stearns Eliot, che gli dedica il poema con l’epigrafe ‘A Ezra Pound – il miglior fabbro’, citando la definizione che nel Canto XXVI del Purgatorio di Dante, Guido Guinizelli dà del trovatore Arnaut Daniel. Anche solo per questo Pound era sicuramente un genio, ma neanche sulla sua attività di editor e traduttore c’è unanimità. Alcuni considerano la sua poesia geniale, altri ritengono geniale la sua traduzione dal cinese di Confucio. Tutta la sua vita è oggetto di pareri contrastanti”.
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Anche a causa delle sue idee politiche su Hitler e Mussolini durante la Seconda guerra mondiale.
“Estreme e inaccettabili, ma che lui difende fino in fondo anche quando viene catturato dai partigiani italiani e consegnato ai militari statunitensi con l’accusa di collaborazionismo e tradimento, reati per cui rischiava la pena di morte, evitata grazie a una perizia psichiatrica che lo dichiarò infermo di mente, anche se secondo alcuni storici fu solo un espediente, e per questo finì internato in manicomio. Quando agli inizi degli anni Sessanta torna a Venezia, compie il suo ultimo gesto artistico: il silenzio. Smette di parlare ma si lascia immortalare in memorabili fotografie mentre con il cappello, la cappa e il bastone cammina nella nebbia attraversando le calli. Era chiaramente cosciente di essere un personaggio. Anche se andare a morire a Venezia può sembrare banale, è molto più eccentrico abitare per quasi venticinque anni tra Rapallo e Zoagli. Tutta la sua vita è come una sfida e un gioco di paradossi”.
Fred, uno degli amici interrogati da Morli nel libro, lo assolve dall’accusa di essere nazifascista. Lei farebbe lo stesso?
“No. Quando nel 1933 incontra a Roma Benito Mussolini non gli parla delle sue poesie, ma gli suggerisce alcune ricette di politica economica accusando tutti gli ebrei di essere usurai. Da ebreo, non potrei assolverlo per il suo antisemitismo . E quest’ossessione non è un gesto artistico. Ciò non toglie che sia stato un’artista e un personaggio decisamente affascinante”.
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Che idea si è fatto del suo silenzio?
“È stata la sua ultima opera d’arte. O l’ennesima provocazione. Non credo che abbia taciuto perché si vergognasse delle sue idee politiche e dell’ammirazione per Mussolini e Hitler. Quando nel 1968 Pier Paolo Pasolini va a intervistarlo, Pound, ormai anziano e affaticato, quasi disinteressato, dice pochissime cose. C’è un bellissimo articolo di Indro Montanelli sul silenzio di Pound. I due si incontrano a una cena organizzata da alcuni amici del poeta ma lui, a tavola, non parla, si limita solo ad accarezzare un gatto e questo dettaglio affascina moltissimo Montanelli”.
Nel libro Morli prova a stanare Pound dal suo mutismo.
“Compie diversi tentativi, ma senza successo. Alla fine l’unico che riesce a stabilire un rapporto con il poeta è Alfio, un giovane siciliano arrogante e sfrontato, con nostalgie borboniche, che scrive al poeta per dirgli che lo considerava un eroe per il modo in cui aveva difeso fino in fondo le sue idee anche a costo di subire punizioni umilianti e feroci. Pound si incuriosisce e nel viaggio in Sicilia incontra Alfio a Palermo. Il poeta, forse, rivede in quest’uomo la sua giovinezza e in qualche modo gli si affeziona. È un’esperienza che ho sentito anch’io nella mia biografia personale”.
Con chi?
“Ho lavorato a lungo con Alberto Moravia e Indro Montanelli, i miei maestri. Loro anziani, io giovane. Entrambi avevano verso di me un’affettuosità particolare. Mi dicevano di non stancarmi troppo, o mi chiedevano della salute di mia madre. È un po’ lo stesso rapporto che nel romanzo si stabilisce tra il vecchio Pound e il giovane Alfio”.
È soddisfatto della sua indagine su Pound?
“È quella di un detective che non arriva a nessuna soluzione, a differenza di Poirot o Maigret. L’indagine finisce da dove è partita. Io non l’assolvo, è vero, ma il dubbio aleggia a causa dell’indiscutibile grandezza di questo artista. Aloisia, la moglie di Morli, chiede conto al marito di questa ricerca spasmodica dicendogli che Pound o l’accetti o non lo accetti. Ha ragione. Nel giudizio sull’arte e sulle opere degli artisti, come sulla vita degli uomini, non esiste mai l’unanimità”.
Si può condannare l’artista e assolvere la sua arte? Una domanda di grande attualità anche oggi, basti pensare al dibattito degli ultimi anni sulla cancel culture.
“Credo che Pound non c’entri molto con la cancel culture. Ognuno di noi, compresi gli artisti, è testimone del proprio tempo e tutti siamo influenzati da quello che accade. Pound, vedendo applicate alcune sue idee, a cominciare dall’antisemitismo, dai regimi totalitari che negli anni Venti e Trenta del Novecento stringono in una morsa l’Europa, pensa che questa sia la soluzione per la crisi politica ed economica del Vecchio Continente. E invece alla fine la storia non gli darà ragione. Hitler muore nel suo bunker, Mussolini viene impiccato a testa in giù. La fine della Seconda guerra mondiale rappresenta anche la sconfitta delle sue idee, che gli sembravano giuste e vincenti…”.
È preoccupato per il crescente antisemitismo in Occidente?
“La storia, come diceva Gianbattista Vico, è fatta di corsi e ricorsi. Forse l’errore che abbiamo fatto è pensare che dopo la Shoah l’antisemitismo non sarebbe più tornato. Non è così. È esploso in Europa, è esploso negli Stati Uniti, soprattutto nelle università, in quello che fino all’altroieri sembrava il paese più sicuro e accogliente per gli ebrei, è esploso in Germania, dove un partito di estrema destra come AfD (Alternative für Deutschland, ndr) cresce nei consensi. Il mondo è fatto di cicli, distruzione e ricostruzione, che si ripetono”.
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Lei ha iniziato la sua carriera lavorando come editor della Bantam Books e poi come rappresentante di Mondadori a Parigi, fino all’esperienza della rivista letteraria Panta, che fondò nel 1990 con Elisabetta Rasy, Elisabetta Sgarbi e Pier Vittorio Tondelli.
“E con la benedizione di Moravia. Un ricordo affascinante. Noi eravamo tutti legati a Nuovi Argomenti, la rivista fondata da Moravia e poi diretta da Enzo Siciliano, che ha formato moltissimi scrittori italiani come Albinati, Veronesi, Saviano e poeti come Magrelli e Bellezza. A un certo punto abbiamo pensato che era tempo di fare una rivista di un’altra generazione, la nostra, quella venuta dopo il Gruppo 63, con il rilancio della narrativa e del romanzo, che nasce in contemporanea con l’arrivo, negli Stati Uniti, degli scrittori minimalisti come Jay McInerney, Bret Easton Ellis, Mona Simpson”.
Pier Vittorio Tondelli continua ad esercitare grande fascino sulle nuove generazioni. Che ricordo ha?
“Bellissimo. Era una persona molto buona, affettuosa e timida. Avevamo un legame forte d’amicizia. A entrambi piaceva esplorare e guardare all’estero per scoprire le nuove avanguardie culturali. Agli inizi della sua carriera, Tondelli è stato più apprezzato e compreso in Francia che non in Italia dove il suo primo libro, Altri libertini, che metteva in luce una nuova generazione della provincia italiana, fu pubblicato dall’editore parigino Edition du Seuil. Un’altro aspetto che mi legava a Tondelli è che a lui piaceva scoprire i giovani scrittori, li proteggeva, li seguiva, aiutandoli a pubblicare le prime opere. Un po’ come Pound”.
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Ha fatto tante interviste sia per la tv sia per la carta stampata. Qual è lo scrittore o scrittrice che le sarebbe piaciuto intervistare?
“Sono riuscito a intervistare Tony Morrison (la prima scrittrice afroamericana a vincere il Nobel per la Letteratura nel 1993, ndr) poco prima che morisse. Andai a trovarla nella sua casa di New York, era molto malata, fu un incontro straordinario. Ce ne sono tantissimi che avrei voluto incontrare”.
Per esempio?
“Se potessi avere la macchina del tempo direi Virginia Woolf, Elsa Morante, Ernest Hemingway, Italo Svevo, Pier Paolo Pasolini, Tomasi di Lampedusa, James Joyce”.
Tra quelle realizzate, chi l’ha messa più in difficoltà?
“Ricordo sempre con grande emozione l’incontro con Reinhold Messner. Fisicamente mi faceva impressione, ero quasi in soggezione di fronte a un uomo che con le sue mani e i suoi piedi ha sfidato la montagna scalando le 14 vette più alte del mondo e correndo rischi enormi”.
L’intervista che l’ha affascinata di più?
“Quella che non ho ancora fatto”.
Esiste una ricetta per l’intervista perfetta?
“No, le varianti sono moltissime. Le racconto quello che mi è capitato con due muse”.
Prego.
“Una volta andai a intervistare Anita Pallenberg, modella e attrice, compagna prima di Brian Jones e Keith Richards dei Rolling Stones e poi del pittore Mario Schifano. Ci incontrammo in una pizzeria di Londra. Diventammo subito amici, lei era di buonumore, io pure. Lei si è confidata. Un mix perfetto, quasi ideale, per un incontro. Un’altra volta avevo appuntamento con Marianne Faithfull, ex di Mick Jagger, musa ispiratrice di tanti successi dei Rolling Stones e icona della Swinging London”.
Cosa avvenne?
“Il suo agente mi aveva dato l’indirizzo sbagliato, arrivai in ritardo, lei non era pronta, io dovevo ripartire subito dopo. Lei non aveva tanta voglia di parlare e mi propose di fare una passeggiata, io guardavo l’orologio, lei era svogliata. Alla fine feci l’intervista di fretta, doveva essere il contrappunto alla Pallenberg, ma è stata molto al di sotto delle aspettative che avevo prima di incontrarla. A volte è solo una questione logistica. Come diceva Moravia, la salute e il lavoro devono andare bene, in un certo senso tutte le interviste vanno bene alla fine”.
E se avesse dovuto intervistare Ezra Pound?
“Se fossi andato pieno di pregiudizi, magari alla fine mi sarebbe stato simpatico, mentre invece, se mi fossi presentato preso dall’entusiasmo, alla fine ne sarei uscito deluso. Chissà».
Tra i tanti libri che ha scritto ce n’è uno del 2005, Cambiare il cuore, che è un dialogo con il cardinale Martini. Che persona era?
“Incuteva rispetto per il suo carisma ma era un uomo dolcissimo. Tra noi due, entrambi con radici piemontesi, nacque subito una forma di simpatia e rispettosa amicizia. Ci legava il grande amore per Gerusalemme e quando ci siamo conosciuti ci eravamo detti che speravamo, un giorno, di poter camminare insieme, fianco a fianco, sulle mura della città alle quali ho dedicato anche un libro. Questo non si è avverato a causa della sua malattia. Nel 2004 andai a trovarlo e trascorremmo la Pasqua insieme. Lui amava profondamente il mondo e la cultura ebraiche e io avevo grande rispetto per il cristianesimo. L’ultima volta che l’ho intervistato è stato nel 2010 a Gallarate, nella casa dei Gesuiti dove si era ritirato. Era già molto malato. Oltre a lui c’è un’altra persona del mondo cattolico che stimo molto: Arturo Paoli”.
Quando l’ha incontrato?
“Lo conobbi nel 1982 in una favela del Brasile dove ero andato per i suoi 70 anni. Facemmo l’intervista sotto le cascate di Iguazú. Poi ci rivedemmo a Roma e a Lucca. Per certi versi, lui era il contrario di Martini, era molto polemico nei confronti della chiesa ufficiale. Ricordo ancora la sua spiegazione sul concetto di fede come affidamento, la confianza, come diceva lui. Ho avuto una magnifica amicizia anche con altri uomini di fede come il rabbino Elio Toaff, un ebreo profondamente italiano, e con l’ex principe di Giordania, Hassan bin Talal, con il quale nel 2005 ho scritto il libro Essere musulmano. L’amicizia con queste persone aveva un caratteristica comune”.
Quale?
“Era un’amicizia con il lei. Il tu regalato a tutti ha un significato irrilevante, ci sono, invece, dei lei che consentono una confidenza, talvolta anche una parità. Nelle trasmissioni, a Montanelli davo sempre del lei. Non mi sarebbe mai venuto in mente di intervistare Norberto Bobbio e dargli del tu. Oggi sembra ridicolo dare del lei, ma credo invece che sia una grande possibilità di intimità e amicizia”.
Un anno fa ha fatto molto discutere un suo racconto pubblicato da Repubblica, sui “giovani Lanzichenecchi” incontrati durante in viaggio in treno da Roma a Foggia. Quando pensa alle giovani generazioni prova preoccupazione?
“Sono molto preoccupato e dispiaciuto quando vedo che gli studi umanistici nelle università ricevono sempre meno fondi. È importante studiare la matematica e le materie scientifiche, ma non bisogna sostituirle alla cultura umanistica. Leggere è una ricchezza straordinaria e costa poco. Permette, a chi non ha i mezzi, di vivere altre vite e di viaggiare. Spero che i ragazzi non perdano l’abitudine di avere un libro in tasca. Ho vissuto con persone che nei confronti dei libri nutrivano un rispetto quasi sacrale, nel quale credo ancora molto. Moravia prima di leggerne uno toglieva la sopraccoperta, per non stropicciarla, e poi la rimetteva quando aveva concluso la lettura. Per questo mi affascina vedere una persona con un libro in mano”.
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