Isidoro Meli, siciliano doc, è in libreria con il suo secondo romanzo, “Attìa e la guerra dei gobbi”, con cui l’autore propone ai suoi lettori un tuffo nella storia – rivisitata – del Risorgimento italiano. Su ilLibraio.it l’incipit

Isidoro Meli, siciliano doc, è in libreria con il suo secondo romanzo, Attìa e la guerra dei gobbi (Frassinelli). Non è all’esordio narrativo, dunque: per la stessa casa editrice ha pubblicato, nel 2016, La mafia mi rende nervosoCon il suo secondo romanzo l’autore propone ai suoi lettori un tuffo nella storia – rivisitata – del Risorgimento italiano.

isidoro meli attìa e la guerra dei gobbi

Una storia che è un po’ un romanzo picaresco, un po’ d’avventura, un po’ tragicomico: i quattro protagonisti hanno una missione da compiere pressoché impossibile: salpare dalla Sicilia con una bagnarola e raggiungere Caprera per rapire Anita Garibaldi, al fine di impedire all’Eroe dei Due Mondi l’impresa dei Mille.

Il ‘Generale’, Francesco Landi, deve quindi allestire un manipolo per rapire Anita, e la scelta cade su Attìa, un giovane ragazzo arabo che sopravviveva tra lavori saltuari e piccoli furti; Panc, un gigante buono nativo di Bronte, con una passione per i pistacchi; Andrea Foti detto u’ Muzziaturi, un efferato omicida, un pentito di mafia; Salvatore Paradiso, giovane soldato napoletano, arruolato solo perché l’ha promesso al padre. Ma con un “cast” del genere, non ci si può che aspettare avventure sempre più rocambolesche e assurde. Un dettaglio: Nello, il narratore che racconta la storia, è morto.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo l’incipit del romanzo:

Dal diario del soldato semplice Salvatore Paradiso

Recatomi a Palermo dinanzi al generale Landi come da precedenti direttive, ricevetti l’incarico di guidare un contingente a mezzo barca fino all’isola di Caprera, a scopo di portare a compimento una missione di cui per ragioni prudenziali qui non si farà menzione.

In effetti, trattandosi di missione segretissima, la stesura di codesto testo pare poco opportuna o quanto meno imprudente. Che potrebbe accadere se, in caso di nostro fallimento, il nemico riuscisse a procurarsi siffatto documento, traboccante indicazioni, movimenti, informazioni sulla natura della missione? Considerazioni di tal guisa hanno turbato i miei pensieri in queste ultime ore: assolvere il dovere di segretezza assoluta e proteggerlo con ogni atto della mia persona, o prediligere la sovranità del metodo che ho sempre applicato da quando son soldato, dell’analisi pacata dei fatti attraverso la loro stesura su foglio? Alla fine mi sono pronunciato in questa direzione. Ho puntato sul metodo a scapito della contingenza. Nella disgraziatissima eventualità di fallimento, distruggerò il testo tramite ingestione.

Devo dire che la decisione ha sollevato il mio animo non poco, giacché trovo di mio gradimento dedicare alcuni minuti della giornata alla scrittura et a profonda meditazione. Credo addirittura che se ogni uomo, donna e bambino di questa terra dedicasse una parte del suo tempo alla scrittura et alla meditazione, il mondo sarebbe un luogo assai migliore. Ne sarei più sicuro se oltre a scrivere trovassi anche il tempo di meditarne.

Inoltre la scrittura è un ottimo metodo per esorcizzare le mie inclinazioni più impure, che troppo spesso mi hanno spinto fuori dalla retta via indicata da mio padre. Et in queste circostanze, con sì tante responsabilità caricate sulle mie spalle come un lieto gravame, vorrei evitare di scasciarla.

Il contingente è formato da tre individui poco raccomandabili: un omone soprannominato «U’ Panc», che a parte la stazza pare essere il più bonario; un giovine criaturo estremamente ciarliero e dalla pelle di un orribile colore viola, che ho inteso chiamarsi «Attìa»; et il famigerato terribile Andrea Foti u’ Muzziaturi. Forse non è la compagnia più appropriata per svolgere con solerzia un incarico sì delicato, ma in fondo chi può dirlo? Lo sa solo Dio. E Dio tiene le sue opinioni per sé, il più delle volte.

Io posso dirlo. Senza essere Dio e ignorando la sua opinione. La faccio breve: la notte del primo marzo 1860 quattro uomini salparono da Palermo alla volta di Caprera per rapire la donna di Giuseppe Garibaldi. Nessuno di loro aveva progettato il viaggio, né scelto liberamente di prendervi parte: il loro coinvolgimento fu una conseguenza del bizzarro dipanarsi degli eventi. L’ideatore del viaggio si chiamava Francesco Landi, aveva l’appellativo di «Generale», ed era uno dei massimi rappresentanti del potere borbonico in Sicilia. In cambio della liberazione della donna, sosteneva, avrebbero costretto Garibaldi a rinunciare all’impresa dei mille. Questo in teoria.

Le cose andarono diversamente. Garibaldi sbarcò a Marsala con mille uomini e conquistò tutta la Sicilia, poi attraversò lo stretto e conquistò il restante regno di Francesco I di Borbone, noto anche come il «Re Lasagna», a testimonianza delle sue priorità istituzionali.

I mille che presero parte all’impresa, male equipaggiati e male in arnese ma animati dal medesimo indomabile fervore rivoluzionario, divennero padri della patria. E Giuseppe Garibaldi passò alla storia come il Primo Grande Eroe d’Italia, dopo essere stato l’ultimo grande dittatore di Sicilia.

I quattro uomini salpati alla volta di Caprera invece non passarono alla storia. Della loro esistenza non v’è traccia da nessuna parte e non esiste un solo libro che accenni in qualche modo alla loro missione, a parte poche pagine del diario di viaggio di uno di loro, il soldato semplice Salvatore Paradiso. Eppure, ai loro tempi erano famosissimi.

Le loro gesta ispirarono una canzone che fu un grande successo in tutta la nascente nazione per quindici anni e più, prima di cadere nel dimenticatoio. Evento ancora più bizzarro: la canzone fu scritta prima ancora che i fatti raccontati fossero effettivamente avvenuti. Come se si trattasse del canto di un antico veggente.

Quella canzone l’ho scritta io. Facevo il cantastorie, poi sono morto.

Il mio nome è Nello, ma quando sei morto non ha più importanza, dunque chiamatemi come volete. Non Ottorino, però: era il mio secondo nome, e non mi va che si sappia in giro.

Quando ero vivo riuscivo a leggere la mente delle persone: le guardavo negli occhi e subito mi travolgeva il usso in nito di tutti i loro pensieri, quelli che avevano già pensato, quelli che stavano pensando, e quelli che dovevano ancora pensare, ovvero il futuro. Poi gli raccontavo quel che avevo visto cantando una canzone. Di solito non si distraevano.

C’è dell’altro: per conoscere tutti i pensieri di una persona non dovevo per forza guardarla negli occhi. Mi bastava guardarne l’immagine. Di conseguenza, quando guardavo qualcuno negli occhi, guardavo negli occhi anche le miriadi di persone presenti nei suoi pensieri e poi le migliaia di persone presenti nei pensieri delle miriadi di persone presenti nei suoi pensieri e così via. In soldoni conoscevo il passato, il presente e il futuro di un sacco di gente.

È strano guardare il mondo dai pensieri di qualcun altro. È come se ciascuno indossasse le proprie lenti personali, diverse per forma e colore da quelle di tutti gli altri. Per esempio, i pensieri delle persone molto sanguigne hanno colori tendenti all’arancione e forme piuttosto arrotondate. Viceversa le persone inclini alla spiritualità hanno pensieri tendenti al blu, spigolosi e alquanto allungati. Avrei voluto scrivere un trattato in proposito, quando ero vivo. Non l’ho fatto perché avevo già visto che non l’avrei fatto. Sì, conoscevo anche il mio futuro. Quando avevo dieci anni ho visto la mia morte, e poi l’ho sognata tutte le notti della mia vita.

Non so perché non sono ancora scomparso, come tutti quelli che muoiono. Forse perché ho scritto una canzone di successo e il successo rende immortali. Era una gran bella canzone. Ve la canterei con piacere, se avessi ancora le mani e le corde vocali, ma a quanto pare l’immortalità non valeva anche per loro. E se è per questo nemmeno per la mia chitarra.

Però una cosa la so: so cosa devo fare adesso. E so anche che sarà l’ultimo atto della mia esistenza, dunque immagino e spero che poi scomparirò, essendo la mia attuale condizione alquanto noiosa. Devo raccontarvi la storia di quei quattro uomini, così resteremo nella memoria, sia io che loro. Soprattutto loro, soprattutto Attìa & Panc, i miei due compari dalle fattezze insolite, per non dire di quelle dei loro pensieri.

La loro storia comincia a Palermo, poi prosegue in Sardegna, e a un certo punto c’è pure la Campania. Sono i tempi che altrove saranno detti del Risorgimento, ma che se permettete io preferirei definire del tramonto: è anche la storia di come sono morto.

(Continua in libreria…)

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