“La crisi arrivò con il tg delle otto. La crisi di tutti i record, così avrebbero detto se solo si fosse trattato di un kolossal hollywoodiano; più che un kolossal, una serie televisiva scritta da creatori spumeg­gianti intenzionati a saturare gli schermi per lunghi anni. A differenza di quelle che l’avevano preceduta, que­sta crisi qua arrivò senza un perché, come un attacco di B52 (c’è da dire che arrivava dall’America)…” – Su ilLibraio.it un capitolo da “La crisi colpisce anche di sabato”, il nuovo romanzo dello scrittore Christophe Palomar, che racconta l’Italia di oggi attraverso il fil rouge della crisi – una crisi morale e materiale, individuale e collettiva…

Sabato sera. A Roma, dalla finestra dell’appartamento di famiglia, il pensionato Adriano Pasciuti, nato, cresciuto e vissuto a Testaccio, assiste al tramonto dell’estate e della vita, trascorsa fra gli ideali di una rivoluzione mancata, le promesse sfumate del benessere e un matrimonio che ha lasciato solo rimpianti.

A Milano, Gioia Airaghi, manager in una multinazionale, moglie e madre trascurata, approfitta della momentanea solitudine per recuperare il lavoro arretrato. Le fanno compagnia la vodka e la memoria di amori perduti: ma il passato è pronto a riaffacciarsi.

Intanto, a Ferrara, un gruppo di ragazzi alle soglie della vita adulta si trova per una pizza dopo il cinema. Una manciata di esistenze già indirizzate lungo i binari della vita di provincia: speranze e disillusioni, accoppiamenti e solitudini, tutto sembra già deciso. Ma da quel sabato per nessuno la vita sarà più la stessa.

Da questi tre momenti simultanei – tre città, tre generazioni, tre condizioni sociali, la straordinaria normalità di un sabato italiano – si dipana La crisi colpisce anche di sabato (Ponte alle Grazie), romanzo-affresco dello scrittore italo-spagnolo Christophe Palomar, che dal 2017 divide il suo tempo fra la consulenza per le aziende e la letteratura.

Il suo nuovo libro, preceduto nel 2020 dai consensi di Frieda (Ponte alle Grazie), racconta l’Italia di oggi attraverso il fil rouge della crisi – una crisi morale e materiale, individuale e collettiva, forse eterna e senza soluzione – fino agli inattesi e deflagranti colori finali. Un’Italia sofferente e ferita, di fronte alla quale Palomar tiene lo sguardo ironico e crudo.

Copertina del libro La crisi colpisce anche di sabato

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto:

«Ecco, pensa Adriano con una certa malizia, ci siamo».

Prima o poi tutti vengono a chiedergli cosa fare, spe­cialmente quando i soldi cominciano a scemare.

Se da ragazzo gli avessero detto come sarebbero an­date le cose, si sarebbe sicuramente vergognato, lui che combatteva il capitale con una convinzione che oggi fa­rebbe fatica a ricordare. Invece non c’è nulla di cui vergognarsi, perché trentaquattro anni passati ad accudire il popolo delle poste non sono una baggianata.

Lo sportello è una trincea marcia che ti vomita ad­dosso il mondo. E mentre ti impegni a sorridere e a fare, mentre ti becchi gli insulti e le lacrime di chi ha appena scoperto di essere ancora più povero, mentre ti arriva in faccia l’alito dei vecchi e lo sguardo diffidente delle vedo­ve, mentre cerchi la carta che non c’è, mentre te la prendi con il modulo che è cambiato o con la penna che non va, senti alle spalle il fetore minaccioso del fuoco amico che non si dà pace: capetti, funzionari che lavorano all’arma bianca e sghignazzano aspettando che tu cada.

C’è chi non ci fa caso, chi si arrende e chi no. Adriano, il fuoco amico se lo sognava di notte, fino a quando decise di chiudere con lo sportello. Accadde una mattina gelata di dicembre che trasformava la pioggia in nevischio. Sta­va camminando sul Lungotevere guardando la poltiglia malva del fiume. A un tratto ebbe l’impressione che stesse nevicando sulla sua mano e allora pensò, anzi decise che era giunto il momento di voltare pagina.

Ce ne volle di strada e sempre in salita per diventare responsabile Bancoposta dell’ufficio di via Marmorata: corsi, esami, orari prolungati persino di sabato ma alla fine ci riuscì! Anche se Angelica non era del tutto d’accor­do su quando, cosa, chi e forse anche sul perché, ci fu una festicciola a casa con un po’ di gente, qualche bottiglia e i bomboloni di Barberini che sono i migliori di Testaccio.

Adriano si rivede a trenta, a quaranta, a cinquant’anni.

Ce n’era sempre una.

Farsi entrare in testa regole e procedure che cambia­vano di continuo. Incassare l’arroganza degli uni e l’inconsistenza degli altri. Seguire a fatica i mutamenti della tecnologia. Spiegare le cose a chi non poteva capirle. E soprattutto prendersi cura della gente.

Ecco il punto: per chi stava sopra di lui, si trattava di moduli, modulini e numeri, non di gente. Eppure arri­vavano a flusso continuo. Forse avrebbe dovuto trattarli come materia prima, come materiale di scarto? No, no e no! L’ufficio postale era il suo ospedale di campo, e tutte quelle persone erano feriti da medicare.

Soltanto chi aveva affrontato il nemico poteva capire. E Adriano, il nemico lo aveva visto per anni negli occhi della gente del quartiere: occhi di tutti i tipi come i botto­ni nelle mercerie, occhi d’altri tempi, occhi progettati per non farsi notare, occhi sconfitti dalla crisi.

Un mestiere duro il suo, con tante anime da salvare ogni giorno.

Di Adriano ci si poteva fidare perché quello che suggeriva di fare, lo faceva in prima persona. Era stato cresciuto così, con l’idea che il fornaio dovesse mangiare il proprio pane e il pecoraro il proprio formaggio.

«Guardati intorno, te pare che i colleghi investono come fai tu sulle stronzate che vi chiedono di piazzare?» ripeteva Angelica mentre Adriano chiedeva che abbassas­se la voce per non svegliare mamma. Diceva che prima o poi lo avrebbe portato dallo psichiatra perché la gente normale non si comporta in questo modo. Per lo meno non la gente sposata.

Come sempre Angelica aveva ragione. Si trattava tut­tavia di cifre modeste che Adriano investiva per capire. Fuori da via Bodoni c’era un contesto finanziario e geopolitico che procedeva spedito verso nuovi orizzonti e bisognava stargli dietro. Non per guadagnare ma per im­parare. Non per speculare ma per sentirsi utile a questo mondo. Utile e vivo.

Certe cose non le spiegava mai nessuno.

Scandali, tangenti, scalate innaturali, crolli pilotati, leggi scellerate, privatizzazioni assassine: erano i vagoni di un treno dalle tendine chiuse. E stranamente, più cre­sceva il numero dei vagoni e più il treno andava veloce. Per coloro i quali non avevano avuto un’infanzia segna­ta dall’infamia dell’azzardo, tutto ciò era eccitante come una partita a poker. Con la scusa che una manciata di ra­gazzi con i jeans bucati metteva su patrimoni pazzeschi (ovviamente non in Italia), i giornali ne deducevano che l’economia era entrata nell’era delle scommesse. A sentire loro, l’Italia era diventata il paese delle scommesse ed era drammaticamente vero.

La scommessa delle privatizzazioni, maledette priva­tizzazioni.

La scommessa delle fusioni bancarie, maledette fusio­ni bancarie.

La scommessa delle nuove matricole, maledette ma­tricole.

Tiscali su tutte.

Una bella storia quella di Tiscali, uno scatto tutto italiano invidiato da mezza Europa, quindi tutti a comprare per­ché tutti avrebbero guadagnato. In fondo alla fiammata iniziale iniziò il saliscendi, normale, tipico dicevano, poi lo scivolone e anche qui la spiegazione c’era, salutare dice­vano, anzi era il momento di entrare perché così si usava dire, entrare, e lo dicevano tutti, persino Antonio mentre ti faceva la barba, insomma tutti nuovamente in fila per comprare mentre l’alta finanza spiegava compatta che ri­spetto al prezzo di collocamento il guadagno era in ogni caso consistente e che gli scivoloni erano comunque fisio­logici, tipici delle dinamiche azionarie, che tutto dipende­va dal proprio profilo di rischio e anche questo si intuiva, «chi non risica non rosica» diceva Antonio che su Tiscali aveva puntato i quattro soldi del padre, solo che il calo non si fermò e alla fine non rimase più nulla, i più fortunati avevano perso molto, altri come Adriano quasi tutto e for­se era meglio così altrimenti lui sarebbe finito nei cubi di cemento di Roma 70 che tanto piacevano ad Angelica per via del posto auto e del doppio bagno ma quella è un’altra storia, tutte storie diverse in fondo, tutte finite nello stesso modo però: interi patrimoni prosciugati da un’entità che non si sapeva bene cosa fosse e ciò rendeva inappropriata qualunque forma di condanna o di ribellione.

«Senza teste da tagliare, niente rivoluzione» disse una sera uno in tv. E in effetti dov’erano le teste?

Dopo ogni incendio, tornavano da Adriano con musi neri da sconfitta. Altrove sarebbero entrati armati in banca, in posta, in edicola e persino in chiesa a chiedere non lumi ma conti, non spiegazioni ma sangue. Ma a Roma chi l’ha mai fatta la rivoluzione? Nemmeno per i cavalli di Caligo­la. Nemmeno per le verginelle di Mussolini. Figurarsi per qualche trucco in bilancio!

Questione di poco dicevano i capi, prima o poi la gen­te dimenticherà. Arriverà l’estate e la gente dimenticherà. Fra il pubblico, c’era chi alzava la voce e chi abbassava lo sguardo; chi frignava in solitudine e chi esigeva di par­lare con i vertici. In ogni caso, nessuno se la prendeva con Adriano dal momento che anche lui aveva perso la guerra. Altro che certi bancari che dicevano una cosa e ne facevano un’altra, o che giravano i soldi come la frittata sapendo benissimo che una sola frittata non poteva basta­re per tutta quella gente!

Dopo Tiscali ci furono i bond argentini e prima ancora la scommessa degli emergenti: Russia, Brasile, Corea, tutte belle opportunità di crescita per chi avrebbe saputo tene­re i nervi saldi.

«Rimanere sulla posizione»: ecco la linea dopo il botto della Corea, 1997.

«Rimanere sulla posizione»: ecco la linea dopo il botto della Russia, 1998.

La finanza, le banche potevano permettersi di rischia­re mentre le poste, che per statuto non potevano investire direttamente pur puntando a far beneficiare anche i più umili delle belle opportunità che offriva il vasto mercato mondiale, si limitavano a raccogliere i fondi e a parcheg­giarli su soluzioni gestite. In poche parole: affidarli alle banche. Solo che di banche non si parlava mai. E nem­meno di rischi si parlava, se non in piccolo sui foglietti illustrativi che bisognava far firmare alla gente perché così diceva una norma escogitata dal governo. A proposito: quale governo?

I colleghi avevano ragione perché ogni anno con l’arrivo della bella stagione, la gente si tranquillizzava. Saltava sempre qualche paese o qualche conglomerato ma si an­dava al mare lo stesso. La platea dei bar si affievoliva e il mercato si riduceva a pochi banchetti assopiti. «Staremo a vedè» dicevano i pochi centurioni che non erano an­dati via.

Dal momento che si era tenuto alla larga dalla bor­sa e che i prezzi degli immobili continuavano a salire, il popolo di Testaccio non era messo malissimo. Non se ne intendeva di finanza ma di storia sì. Sapeva benissimo che a Roma chi si muove finisce male, mentre chi rimane immobile vince sempre. Se Caligola e Mussolini avevano fatto una brutta fine e tanti altri no, un motivo c’era.

Come da previsione, gli investitori fecero ritorno. Fra il tracollo della Russia e il crac dell’Argentina, il mercato si riprese e gli investitori fecero ritorno. Tutto merito delle storie. Perché la finanza è un teatrino che punta al cuo­re fingendo di rivolgersi alla testa. Perché prima ancora di comprare un bene, si compra una storia. La finanza è come l’azzardo ma senza i sensi di colpa dell’azzardo.

Geniale.

Nuova economia, nuove matricole, nuove obbligazio­ni, belle le obbligazioni che obbligavano solo chi le com­prava! Per non parlare della deliziosa consuetudine tutta italiana di buttarsi nella bocca fumante degli investimenti in ecu, in marchi, in franchi svizzeri, in dollari quando le paghe erano sempre in lire. Poi arrivò l’euro che, come un ascensore, tirò su i prezzi mentre gli stipendi erano gentil­mente pregati di aspettare al piano terra. Eppure la gente non parlava male dell’euro, forse perché si comportava come le valute che l’avevano preceduto: rinforzava i forti e affossava ulteriormente i deboli che come sempre non reagivano. C’è da dire che i deboli avevano un bel daffare con l’ondata di caldo del 2003 che aveva riportato le me­duse lungo il litorale romano.

Insomma, si andava avanti. Fra promesse di cambia­menti e talk show cialtroni. Fra le spese folli di qualcuno e i tagli alla spesa pubblica per tutti gli altri.

Per dirla come la portinaia: si campicchiava.

E così finì l’epoca delle vacche grasse, 2008.

Anche in quel caso accadde d’estate. Una bella gior­nata d’estate né calda né umida persino per chi era rima­sto a Testaccio. Nella maggior parte dei paesi cautamente prosperi dell’emisfero nord la gente era in ferie, e coloro i quali erano rimasti in città sonnecchiavano circondati da gatti e ricordi.

La crisi arrivò con il tg delle otto.

La crisi di tutti i record, così avrebbero detto se solo si fosse trattato di un kolossal hollywoodiano; più che un kolossal, una serie televisiva scritta da creatori spumeg­gianti intenzionati a saturare gli schermi per lunghi anni.

A differenza di quelle che l’avevano preceduta, que­sta crisi qua arrivò senza un perché, come un attacco di B52 (c’è da dire che arrivava dall’America). Ben presto, tutti quanti a Roma pensarono qualcosa della Lehman Brothers, mentre alcuni ministri tornarono in tutta fretta dall’Argentario. «Liman cosa?» chiedevano le sentinelle di Testaccio dopo aver visto le immagini di ragazzi anche simpatici finiti per strada con una scatola di cartone fra le braccia.

Avevano sganciato una bomba su Wall Street.

Da lì a poco, avrebbero sganciato altre bombe su altre città ricche o indebitate.

Bombe anche su Itaca e Testaccio.

Per settimane e per mesi la gente non parlò d’altro. E più parlava peggio andavano le cose.

Non siamo l’Irlanda dicevano.

Non siamo la Grecia dicevano.

Poi qualcuno cominciò a dire: non siamo l’Italia.

Colpa degli altri dicevano.

Un po’ ovunque la colpa era degli altri.

Anzi: di nessuno.

Anzi: del sistema.

Adriano se lo ricorda molto bene quel periodo: niente ressa agli sportelli perché il crollo del mercato immobilia­re non riguardava il sistema bancario e men che meno la posta. Era come se non stesse accadendo nulla e per certi versi era così. «Finché non si vende non si perde» ripete­vano ad oltranza e anche quello era vero.

Tanto a Testaccio nessuno aveva mai venduto.

Nel 2011 ci fu la crisi del debito sovrano che si tramutò in nuove tasse (per chi le pagava chiaramente) e nel sorge­re di una nuova parola dal suono inquietante: spread (da pronunciare senza la «a»).

Adriano lesse sui giornali che le vacche grasse erano finite e lì capì che la situazione si era fatta bruttina, roba da lasciarci le penne. E così andò.

Passarono alcuni mesi e lo chiamarono per dirgli che quello era. Alle domande poco convinte di Antonio susseguirono le risposte altrettanto poco convincenti di tre trentenni, tra cui una ragazza che doveva essere quella che comandava visto che usava più termini inglesi degli altri due.

C’era da allineare i «chippiay» ai «benchmark» di rife­rimento in vista del «listing» delle Poste («con la «P» maiuscola, mi raccomando»). Pertanto si apriva uno «slot» per fare «replacement» con chi aveva raggiunto l’età pensionabile o prepensionabile a beneficio di chi, non aven­do ancora raggiunto nessuna età utile, doveva continuare a lavorare. Era il cosiddetto «patto generazionale» previ­sto dalla carta etica di quella che si accingeva a diventare un’azienda a tutti gli effetti.

Adriano organizzò una festicciola di addio a base di bomboloni di Barberini che sono i migliori di Testaccio. Andò via con un assegno che lasciò sul conto postale al 2,5%, e di quei tempi già non era male. Andò via senza sapere cosa avrebbe fatto dopo, le stesse cose di prima probabilmente ma con otto ore in più al giorno, le ore centrali della giornata. Quelle più problematiche.

(continua in libreria…)

 

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