Su ilLibraio.it un capitolo dal nuovo romanzo di Joanne Harris, “La luce spezzata”, un romanzo che invita a riflettere sulla propria identità attraverso una protagonista dalla vita monotona, che prova conforto nell’osservare le vite altrui sui social. Fino a quando la morte di una donna del quartiere risveglierà vecchi ricordi…

Una donna che non ricorda più i suoi sogni, che vive giornate monotone e identiche le une alle altre. Bernie Ingram ha cinquant’anni e si sente invisibile, anche alla sua famiglia, e inadeguata.

Una sola attività sembra dare conforto a Bernie: osservare le vite degli altri sui social network. Passare ore a guardare e capire altre persone, spesso sconosciute, e magari immedesimarsi in loro. E quando una donna del suo quartiere muore, Bernie Ingram decide di ascoltare la sensazione che qualcosa non torni, e si mette a indagare.

Queste sono le premesse di La luce spezzata (Garzanti, traduzione di Laura Grandi), il nuovo romanzo di Joanne Harris, già autrice (tra gli altri) di Chocolat (Garzanti, traduzione di Laura Grandi). Un libro che racconta il risveglio di una donna di mezza età che, attraverso la sua personale indagine, riscopre doni e traumi del passato.

Harris scava nella vita della sua protagonista e della vittima, si muove tra i ricordi d’infanzia e gli indizi per scoprire il colpevole.

La luce spezzata è un romanzo di ricerca, alla scoperta di sé e della verità, che “esplora i sentimenti di una donna fraintesa” e “invita a riflettere sulla propria identità”.

Copertina la luce spezzata

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Dal LiveJournal di Bernadette Ingram (indicato come Reperto BI 1): 26 marzo 2022

I miei primi sette anni di vita sono un vuoto. Io non ricor­do nulla prima di allora. La maggior parte dei bambini ha un qualche ricordo dei suoi primi anni. Io no. Nessun gio­cattolo preferito, nessuna ninna nanna, nemmeno una caduta giù da una rampa di scale. I miei ricordi iniziano alle 18:30 del 12 settembre 1981, giorno del mio ottavo comple­anno, e mi ricordo cosa è successo con la chiarezza del cri­stallo intagliato. Era il mio compleanno e i miei genitori mi avevano porta­to a vedere un mago chiamato The Great Carovnik. Mi ricor­do ogni dettaglio di quella serata. Le lunghe scale con la pas­satoia rossa, le poltroncine di velluto rosso, diventate color pesca per l’usura del tempo, con il binocolo da teatro attac­cato dietro allo schienale. Ricordo l’odore di fumo, le luci della sala, i musicisti nella buca dell’orchestra e i cherubini sul soffitto. Ogni dettaglio è impresso nella mia memoria, tranne un elemento. Katie era lì. Di noi due c’è pure una fo­tografia, leggermente sbiadita, scattata nel foyer. Nella foto sembriamo sorelle, abbiamo gli stessi capelli scuri lunghi fi­no al mento, la stessa frangetta, lo stesso volto radioso. In­dossiamo addirittura lo stesso tipo di vestito, anche se il mio è rosa e il suo azzurro. Sebbene non ci sia dubbio che si tratti della serata dello spettacolo di magia, non ricordo affatto che lei ci fosse. Come se fosse stata eliminata dalla mia me­moria.

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Ricordo, invece, tutto il resto. Le luci, la musica, il silenzio del pubblico. Il coniglio estratto dal cilindro nero. La scatola di vetro e le sette spade. La testa spaventosa della Sfinge den­tro la scatola. I fiori di carta e le colombe che svolazzavano. Soprattutto, ricordo il trucco di magia con il tavolo. Il trucco e il modo in cui lei mi ha guardato, e quello che mi ha sus­surrato all’orecchio. Questo è ciò che ricordo di più. È lì che è avvenuta la vera magia. Tutto è cominciato con un tavolo da pranzo apparecchiato con piatti e argenteria, candele e bicchieri da vino sopra una tovaglia damascata. The Great Carovnik ha allargato le brac­cia per mostrarne la grandezza: le ceste di frutta, i piatti con i coprivivande, i delicati piattini di bonbon. Ricordo che il fondale del palcoscenico era tutto decorato con specchi che riflettevano le luci. Riuscivo perfino a vedermi nella prima fila del pubblico, sospesa come per magia a mezz’aria, la mia piccola faccia pallida come una pallina appesa a un albero di Natale. Un rullo di tamburo, forte come un tuono. Si sono spente le luci. Silenzio, e poi lei, con un movimento secco, ha tirato la tovaglia così velocemente che a malapena lo si è notato, lasciando accesa ogni candela e gli oggetti di vetro al loro posto, tranne un solo bicchiere di vino che, non si sa come, è arrivato nella sua mano, sollevato per brindare al pubblico. E dietro di lei c’era il tavolo con ogni piatto e bicchiere al proprio posto. Ma in quell’istante era riuscita chissà come a girare il tavolo da pranzo, così che adesso era rivolto dall’al­tra parte. E i candelieri a più braccia, che prima bruciavano a un capo, ora bruciavano all’altro…

Joanne Harris

Joanne Harris (Kyte Photography)

All’epoca ero molto giovane. Eppure, ricordo perfetta­mente. La donna con il volto coperto di cerone. Il suo costu­me: cappotto argento, stivali neri, cilindro sulle ventitré, il sorriso che mi rivolgeva da sopra il bicchiere, il piccolo e delizioso sorso di vino che ha bevuto – Alla nostra – mentre i suoi occhi incontravano i miei. Devo averla fissata. Mi ha vista osservarla dalla prima fila. E mentre i macchinisti si affrettavano a rimuovere il tavolo pesantemente apparecchiato, lei si è spostata verso il prosce­nio e si è inginocchiata per sussurrarmi dolcemente all’orecchio. Si è rialzata, poi ha vuotato il bicchiere in un sorso, mi ha strizzato l’occhio, ha fatto un inchino e l’applauso è stato fragoroso. Quando siamo arrivate a casa, ho detto a mia madre che volevo fare la magia vera, proprio come la signora d’argento sul palco. Mia madre ha riso. «Oh, Bernie», ha detto, «la magia non è vera. È solo un gioco di specchi. E poi The Great Carovnik è un uomo. La si­gnora era la sua assistente. L’uomo con il completo e il man­tello nero, lui era il mago.» Ovviamente avevo visto l’uomo con il completo, mentre tirava fuori i conigli dal cappello e trasformava i fazzoletti in colombe. Ma io ricordavo la donna.

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Era lei che si meritava il nome. Era lei che contava. Anche quando sono avanzati en­trambi sotto al riflettore per fare un inchino, io avevo occhi solo per lei. Il modo in cui ha allargato le braccia come per dire: Sono stata io. Io sono formidabile. Il modo in cui ha riven­dicato la sua vittoria, sorridendo fino al loggione. Quante donne non celebrano apertamente i loro successi. Quante donne sono eclissate, vengono segate in due, pugnalate con coltelli o fatte svanire nell’aria, come se fosse una cosa inso­lita. In fin dei conti, non è certo una novità. Le donne scom­paiono ogni giorno. Ma The Great Carovnik mi aveva mo­strato questo: non dobbiamo scomparire mai. Mi aveva di­mostrato che se si vuole si può richiamare l’attenzione su di sé, anche sottraendola all’uomo in giacca e cravatta, con tut­to il suo fumo e i suoi specchi. Certo, mi ci sono voluti molti anni per capirlo pienamente. Ma lì è dove tutto è iniziato, sul palco al Malbry Lyceum, con le luci della ribalta puntate negli occhi, e la sua voce nell’orecchio che mi sussurrava: Bambina. Falli guardare.

© 2024, Garzanti S.r.l., Milano
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

(continua in libreria…)

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