Ne “La meccanica dei corpi” Paolo Zardi elegge la letteratura quale disciplina che meglio racconta la complessità delle scelte che definiscono ogni vita. Cosa regola i corpi che siamo? Qual è la sostanza delle nostre emozioni? Cinque storie che, in un misto di garbo e sfrontatezza, colgono il rumore che gli esseri umani fanno nel loro incessante esistere. – Su ilLibraio.it un estratto da uno dei racconti

Cosa regola i corpi che siamo? Le spinte che esercitiamo gli uni sugli altri, le attrazioni o le prevaricazioni? Qual è la sostanza delle nostre emozioni?

Parte da queste domande Paolo Zardi nella realizzazione de La meccanica dei corpi (Neo Edizioni), eleggendo la letteratura quale disciplina che meglio racconta la complessità delle scelte che definiscono ogni vita. Una materia capace di indagarne le dinamiche nascoste e imprevedibili…

L’autore, nato a Padova nel 1970, ha esordito nel 2008 con un racconto nell’antologia Giovani cosmetici (Sartorio). Ha poi pubblicato il romanzo breve Il Signor Bovary (Intermezzi, 2014) e La felicità esiste (Alet, 2012), oltre ad Antropometria (2010), Il giorno che diventammo umani (2013) e XXI Secolo (2015, con cui è stato finalista al Premio Strega del 2015) e La passione secondo Matteo (2017), tutti pubblicati con Neo Edizioni.

Per Feltrinelli sono poi usciti, nella collana digitale Zoom Flash, Il principe piccolo (2015), La nuova bellezza (2016), Le città divise (2018) e il romanzo Tutto male finché dura (2018). Nel 2019 ha invece pubblicato per Chiarelettere L’ invenzione degli animali, romanzo che ruota attorno ai temi della coscienza degli esseri umani.

Tra le pagine de La meccanica dei corpi si possono invece ritrovare i più disparati tipi umani: una ragazza che lavora nella grande città, decisa a smarcarsi dalle origini di provincia; un uomo che ha raggiunto lo status agognato, e decide che alla sua vita manca qualcosa; un vecchio che alla fine dei suoi giorni è visitato dai fantasmi del passato, ricevendo fax in bianco e telefonate anonime; una donna che vede suo marito trasformarsi in uno sconosciuto; due amici che, durante una cena casalinga, attraversano il tempo.

Cinque storie che, in un misto di garbo e sfrontatezza, colgono il rumore che gli esseri umani fanno nel loro incessante esistere: una sinfonia di desideri, speranze, attese, di inneschi improvvisi che riscrivono la partitura iniziale.

La meccanica dei corpi di Paolo Zardi

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto da uno dei racconti:

Fantasmi

«Mi abituerò a sentirti o a decifrarti
nel ticchettio della telescrivente,
nel volubile fumo dei miei sigari di Brissago.»
Eugenio Montale

A pranzo non aveva mangiato nulla. Era rimasto sul divano, con gli occhi chiusi, sospirando leggermente. Il pomeriggio aveva vagato per casa, trascinandosi da una stanza all’altra, come se cercasse qualcosa. Infine, dopo aver saltato anche la cena, si era steso su una coperta vicino al camino e si era accucciato, poggiando il muso sulle zampe davanti. Armando non aveva dato peso a quei gesti, l’aveva coperto con un plaid e si era accasciato sulla poltrona davanti; la stessa sulla quale, più di una volta, si era addormentato senza volerlo. Si assopì anche quella sera – aveva fissato le fiamme mentre consumavano due grossi ceppi di faggio con un crepitio tenue, finché era scivolato nei sogni confusi che, da qualche tempo, accompagnavano le sue notti. Il cane, Zeno, respirava regolarmente. Almeno così gli era sembrato.

Quando si svegliò, resisteva solo un mucchietto di braci coperte da un sottile strato di cenere. Aveva dimenticato di lasciare accesa la luce in cucina e dagli scuri non veniva alcun conforto: il cielo doveva essere nero sopra il mondo sprofondato nel silenzio. Si alzò facendo forza su un braccio. In bocca aveva un sapore di ferro. Una volta in piedi, sentì che gli girava la testa (ne aveva parlato col dottore che l’aveva ascoltato con scarsa attenzione. Era un uomo sovrappeso che stava divorziando dalla moglie. Gliel’aveva confessato in un attimo di debolezza, durante una visita di routine; ma il motivo della superficialità sempre maggiore con la quale prendeva nota dei suoi sintomi dipendeva dalla convinzione che, a una certa età, tutto può essere ricondotto a una malattia chiamata “vecchiaia”, per la quale – aveva aggiunto pensando di essere spiritoso – l’unica cura è la morte). Cercando di rimanere in equilibrio, fece un passo avanti. Il pavimento era bagnato. Si spostò di lato e iniziò a barcollare verso la parete dove ricordava un interruttore. Costeggiò la credenza, toccandone la struttura, e poi sfiorò la libreria ormai vuota. Trovò qualcosa di umido su uno degli scaffali: avvicinò le dita al naso e sentì l’odore di una mela marcia. Per quanto si impegnasse, la casa era sfuggita al suo controllo: non aveva più la forza per stare dietro a tutto.

La luce non si accese. Seguendo il perimetro della stanza, arrivò alla porta a vetri che dava sulla veranda. La aprì, sbloccò la maniglia delle imposte di legno e uscì in quello spazio indistinto (con gli anni, aveva rinunciato a sistemarlo). I lampioni davanti casa erano spenti. Doveva esserci un salto di elettricità nella zona. In lontananza si sentivano latrare i cuccioli del canile. In giardino, il fruscio degli alberi che un vento freddo agitava nervosamente. Notò che dall’autostrada non arriva alcun rumore e concluse che era notte fonda.

Tornò in salotto. Le braci erano spente. Andò verso il camino, lentamente. Chiamò Zeno. Con il piede sentì ancora il pavimento bagnato. C’era odore di urina; si toccò i pantaloni ma era asciutto. Chiamò di nuovo Zeno. La stanza era diventata enorme. Si portò le mani al petto mentre qualcuno sussurrava il suo nome. Finalmente arrivò al cane. Era sulla coperta, come lo aveva lasciato. Gli accarezzò la testa, gli passò una mano sulla schiena. Non si era accorto di quanto fosse diventato magro. La consuetudine di averlo intorno gli impediva di scorgere i cambiamenti impercettibili. Ma era invecchiato anche lui, un giorno alla volta. Tuttavia, nonostante gli acciacchi, non aveva smesso di andargli incontro trotterellando quando rientrava. Scodinzolava con un tale entusiasmo che tutto il corpo oscillava da una parte all’altra: non si risparmiava mai quando c’era da dimostrarsi felice e riconoscente. Era un botolo, un meticcio basso e colorato che sua moglie aveva trovato davanti casa una mattina piovosa di fine ottobre. Era fradicio, affamato, tremante. L’aveva portato dentro, lo aveva asciugato e gli aveva dato da mangiare. Poi si era seduta con lui in braccio davanti al camino e quel cucciolo, con la pancia piena, immerso nel tepore materno, si era addormentato. Erano passati diciotto anni. L’intero arco della vita di un cane. Avrebbe dovuto aspettarselo ma sentiva di non essere pronto, di non avere la forza di accettare anche quello. Accarezzò di nuovo la schiena di Zeno. Tirò su il plaid per coprirlo interamente. Si sedette per terra e iniziò a piangere.

(continua in libreria…)

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Fotografia header: Paolo Zardi, nella foto di Christian Baldin

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