Su ilLibraio.it un estratto dal nuovo romanzo “La parte di Malvasia” di Gilda Policastro, scrittrice e critica letteraria

Chi è Malvasia? Una donna che arriva non si sa da dove e che vive in paese da “straniera”: colta, anticonformista, eccentrica, la si è vista fare una lunga passeggiata e da quel momento di lei si sono perse le tracce. Quando viene ritrovata morta, si pensa all’omicidio passionale e scattano le indagini, affidate al maresciallo Arena e al suo assistente Gippo.

Nel susseguirsi di testimonianze e di ipotesi de La parte di Malvasia (La Nave di Teseo), nuovo romanzo di Gilda Policastro, indagatori e indagati prendono a confondersi, in una girandola di voci che sfuma e consegna alla stessa identità mutevole tutti i protagonisti.

Il giallo della morte diventa il grigio delle esistenze di individui mortificati nelle loro ambizioni e svelati nelle loro nature contraddittorie ed elastiche, nella capacità comune di provare sentimenti opposti e di compiere azioni impensabili. Come nella tragedia greca, l’umano supera sé stesso nell’estremo, ma nella tragedia moderna si muore senza un motivo e senza un colpevole.

In questo nuovo romanzo di Policastro, scrittrice e critica letteraria che cura la “Bottega della poesia” per la Repubblica, è redattrice del sito Le parole e le cose, insegna Poesia presso la scuola di scrittura Molly Bloom e Letteratura e Diritto presso l’Università Luiss-Guido Carli di Roma, la domanda sull’assassino diventa così l’indagine compiuta all’interno della stanza più segreta della coscienza, dove immaginazione e crudeltà, violenza e tenerezza sono parte della stessa radice.

Dal principio di generazione a quello di de-generazione, le storie che ruotano attorno alla vite che è Malvasia somigliano a un puzzle scomposto, le cui tessere non vanno a posto. Come nella vita.

Gilda Policastro ha pubblicato i romanzi Il farmaco (Fandango 2010), Sotto (Fandango, 2013), Cella (Marsilio 2015), libri di poesia tra cui Non come vita (Aragno 2013) e Inattuali (Transeuropa 2016), e diversi saggi di teoria e critica, tra cui Sanguineti (Palumbo 2009) e Polemiche letterarie dai Novissimi ai lit-blog (Carocci, 2012).

gilda policastro libro

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto:

È la prima volta che lo vede dall’interno, ci è sempre passato di straforo, per sopralluoghi. Un posto silenzioso, soleggiato: lo diresti ideale per una casa di cura, invece è lì che è finita, tra gli altri, Malvasia, tra le lastre smosse e le cappelle coi cognomi sul frontone. Chi sono quelle donne che la circondano, chi sono gli altri. Malvasia non era figlia di nessun padre e la madre pur essendo proverbialmente certa, nessuno ne voleva parlare. Non sa quel che si fa di preciso in quel posto, prova a dare una spazzata col rastrello che trova appoggiato a un bidone del vialetto comune, toglie due ragnatele dalla porta, le foglie secche dal pavimento, sposta il cuscino da una sedia all’altra, a coprire qualche sbeccatura. Cosa si fa, in quei posti dove nessuno viene mai.

Forse qualcuno dei suoi amanti, ma nemmeno: non ci sono fiori nei vasi, come ha visto altrove, sotto le immagini di altri defunti, che lì hai voglia a trovarne. Si ripromette di portarne un mazzo lui, la prossima volta. Ma di più vorrebbe andarsene, è quel desiderio solito, di non essere lì dove stai, cercare scampo dove la sorpresa massima che ti riserva la giornata possa non essere una donna morta. Forse suicida, più probabilmente assassinata.

Non potersela più immaginare viva se non dai racconti degli altri e alla fine il più interessante è quello che manca, come nella serie tivù di quand’era piccolo. Passiamo le nostre giornate a inseguire un fantasma. Ecco che a Gippo sale quel desiderio forte di schiaffeggiarlo, dovrebbe andare a boxe per scaricarsi, come faceva nella città di prima. Era tutto diverso lì, non aveva i casi difficili come questo, tutt’al più bisognava girare per parchi a cercare siringhe, ma ne avrà trovate due o tre in quindici mesi, a dir tanto. I morti hanno bisogno d’acqua. Chissà se galleggiano, o se davvero dormono, se prima o dopo risorgono come nel canto delle beghine. Al funerale ce n’erano due che volevano rendere testimonianza, si avvicinarono. Il prete aveva parlato, qualche indizio c’era, Malvasia non era il suo vero nome, Malvasia vuol dire malvagia. Ma no, correggeva Gippo, è una pianta, o forse un vino, qualcosa. Nossignore, insistevano, era una stria, una strega. Una? Possibile? Io credo risorgerò e poi ecce i demoni infestargli le case con le parabole e la fibra ottica. La televisione sarà peccato con quelle donne. Aveva bisogno di una pompa: i dolori lo fanno. La foto era ingrigita, il sorriso spento, qualche capello volato via. In macchina si sistemò il cappotto sulle gambe, stringeva forte, durò pochissimo, il tempo di imbrattarsi come un adolescente pantaloni e mutande. La prima volta nemmeno lo sgridarono, fecero finta di niente: usava così.

Mamma, eccomi, sì, sto arrivando. Era venuta a trovarlo in pullman, voleva sistemargli casa, vedere come stava, cenare al ristorante. Non ne conosceva, Gippo, e finirono in un self-service

ospedaliero. Mi sembri pallido, dormi. Ecco che risfoga quella solita preoccupazione nasale, non vuole sapere se ho una donna, non so se lo tema o lo voglia ignorare. Mi piacciono gli uomini, sì, mamma. Le donne le penso come fossero sedie, divani.

Un luogo in cui mettersi un momento comodi, ma gli uomini mi prendono alla gola, il commissario sarebbe un bottom ideale. Che cosa ne sai, come che cosa ne so, mi pensi ancora a leggere la Pimpa, i Barbapapà. E poi c’è l’internet, e prima ancora le scuole, i compagni, impari tutto quello che serve, e che i vestiti sono di pelle, sempre neri. Ci sono corde, bretelle, sfollagente che pendono dalle cinture. Ci sono uomini rasati, con gilet aderenti. Uno potrebbe essere il commissario. Torna a casa, saluta la moglie, bacia i bambini e va a farsi frustare la pelle a sangue.

Poi dice basta, a un certo punto dice basta con una parola che gli hanno indicato per fermarli. Sono due, possono essere molti.

Mamma. Mi tocchi la faccia, mi chiami tesoro. Ho solo voglia di prendermi un sacco di botte o di darne, non ho ancora deciso. Vorrei prima darne, poi prenderne. Non è così che succede.

Twisted rope, hand cuffs, blindfold, silk scarf, catene, maschere, candele, non capisco quali sono le parti, non capisco se sono assegnate una volta per tutte o si può cambiare. Tu saresti capace di stringermi una corda attorno al collo, e tirare. Avresti dovuto farlo quand’ero molto piccolo, quando ti pendevo dal seno, quando mi lasciavi, come racconti, appeso tutto il tempo che dormivo. Una madre. Due giorni dopo il parto e s’intuisceil boia. Facevi solo quello, nemmeno ti alzavi o vestivi, eravamo sempre lì, io che succhiavo e te che dormivi io che dormivo te che mi guardavi, avresti potuto scaraventarmi contro un mobile e forse l’hai fatto, cosa sono quei segni, le cicatrici. Che madre.

Hai bisogno di qualcuno, sei solo. Ecco che lo dice, ecco che arranca nel tiepidissimo interesse materno che è riuscita a sviluppare da quando sono nato. Solo. Resterai solo. Cosa pensi, che ci sia uno statuto speciale per gli accompagnati? Morire in catene aggirati gli anni, fiaccati i pesi, come va. No, mamma, non va tutto bene, ma è bene per me avere tempo, posso organizzarmi le giornate. E cosa fai, sentiamo. Ecco che è diventata aggressiva, ecco che la corda attorno al collo potrei stringerla io, e raccontare che mi soffocava lei da sempre, a mia difesa.

Questa donna di cui ci stiamo occupando era sola. Ho sentito che era una puttana. Mamma. Aveva trentanove anni. E che non ce ne sono di puttane a trentanov… le donne di quell’età ai miei tempi erano vecchie. Ai tempi di tua nonna morivano già. Ti riporto al pullman? Vorrei restare fino a domani, prepararti il pranzo. Mi fermo in caserma, c’è da fare il punto prima che cominci l’assedio dei giornali. Si sa già qualcosa. Qualcuno si è fatto avanti. Perché gliene parlava. Da quando la riteneva in grado di capire quello che faceva, perché non si staccava. Aveva già in mente la sequenza, doveva solo spegnere la luce e sarebbe salita al primo fotogramma. Quella del cane.

(continua in libreria…)

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