“Lo splendore” è il progetto ciclopico di Pier Paolo Di Mino, di cui “L’infanzia di Hans” è il primo volume (di sette), che esce per Laurana nella collana curata da Giulio Mozzi (che lo introduce a lettrici e lettori del nostro sito). Il libro si colloca nella tradizione modernista, e al tempo stesso affonda le sue radici nelle grandi narrazioni bibliche e prebibliche, e nella sapienza cabalistica e alchemica nel romanzo comico e parodistico di Cervantes e Sterne… – Su ilLibraio.it un estratto

Che cosa sappiamo della realtà? La realtà dell’esperienza ci è nota: conosciamo fatti, eventi, cause, luoghi, individui. Ma nel cuore dell’esperienza è nascosta una trama simbolica: la realtà reale.

Nell’Ottocento, mentre grazie alla rivoluzione industriale la tecnica si affermava come lo strumento principe per la conoscenza e il dominio del mondo, i romanzieri – da Balzac a Flaubert – tentarono di rappresentare scientificamente la realtà dell’esperienza; ma nel passaggio al Novecento ci si accorse che il realismo non riusciva a soddisfare il bisogno di senso, che l’esperienza risultava frammentata e dispersa, che la realtà reale sfuggiva alla presa. Joyce, Proust, Döblin, Mann, Broch, Musil, Hesse, Canetti e altri tentarono un romanzo nuovo, vorace, spirituale, strabordante dalle forme canoniche…

Lo splendore di Pier Paolo Di MinoLo splendore di Pier Paolo Di Mino – pubblicato (il 5 aprile) in sette volumi da Laurana, nella collana fremen a cura di Giulio Mozzi – si colloca (ambiziosamente) in questa tradizione modernista; ma, al tempo stesso, come si spiega nella presentazione affonda le sue radici molto più nel profondo, nelle grandi narrazioni bibliche e prebibliche, nella sapienza cabalistica e alchemica – il titolo è un omaggio allo Zohar –, nel romanzo comico e parodistico di Cervantes e Sterne. E si pone anche come una “rocambolesca e talvolta granguignolesca epopea popolare, avvincente come un romanzo di Dumas”.

L’autore – nato a Roma nel 1973 – ha diretto la rivista Erre!. Fra le sue opere: Il re operaio e Visiorama (La scimmia edizioni) e Storia Aurea (Edilet). Da molti anni Pier Paolo Di Mino scrive il romanzo Lo splendore, del quale L’infanzia di Hans costituisce il primo volume, e porta avanti il progetto artistico e letterario Il libro azzurro, la cui cura iconografica, in un dialogo fra immagini, idee e parole, è affidata a Veronica Leffe.

Lo splendore è un romanzo molto bello. So che la parola ‘bello’ è oggi poco significativa. Ma io ci insisto. Prima di essere avvincente, prima di essere magneticamente scritto, prima di essere affollato di personaggi che da subito mi si sono presentati come vivi e quasi materialmente presenti davanti a me, prima di essere pieno di un pensiero che pian piano mi ha affascinato, eccetera, Lo splendore è stato per me un romanzo bello, cioè un romanzo che mi ha dato l’esperienza della bellezza. Sono trent’anni che faccio lavoro editoriale, e sono trent’anni che cerco di scovare romanzi che non siano semplicemente ben fatti – o molto ben fatti –, o originali, o innovativi nella forma, o interessanti per le soluzioni letterarie e formali che propongono. Lo splendore è tutte queste cose: è ben fatto, con una perizia narrativa veramente rara e tutte le astuzie del feuilleton; rielabora e rimescola in maniera originale immaginari antichi e moderni; rinnova la forma ormai classica del romanzo saggio con robustissime iniezioni di romance – non quello che si dice oggi romance, ma il romance arturiano, magico e mistico e sapienziale –; e nel panorama letterario attuale si propone come un’alternativa assoluta tanto al romanzo che si vergogna di essere tale – e si apparenta perciò al reportage o al memoir – quanto al romanzo di pura narratività – che si sfoga in rutilanti immaginari fantastici. Dal mio punto di vista, quindi, Lo splendore è un romanzo che dà l’esperienza della bellezza: non quella bellezza che ci fa dire ‘Oh, che bello!’, e poi passiamo ad altro; ma quella bellezza che ci inchioda, che si impossessa di noi, che ci eleva spiritualmente, che ci avvicina alla visione della realtà”, spiega a ilLibraio.it il curatore Giulio Mozzi, già editor di Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi.

Questo primo libro è il racconto dell’infanzia di Hans Doré, nato nel 1911 in un sobborgo di Berlino e destinato a diventare il “vero re“, colui che – senza saperlo – potrà salvare il mondo dalla macchina della necessità; ma è soprattutto il racconto della sua genealogia diretta e indiretta, nella quale si affollano personaggi memorabili – la curatrice ambulante Hermine, la piissima Clea, il brutale Gustav, il fervente socialista Joseph –, ciascuno con il proprio compito all’interno della sottile trama che regge le sorti dell’umanità.

Le loro vite sono contese da due fazioni contrapposte, che sembrano muoversi con agilità nello spazio e nel tempo: da una parte l’abeliano Hubel e il cainita Ginzburg, dall’altra il prete Kircher e un misterioso libraio. Saranno questi ultimi che, per mezzo di un visionario libro azzurro fatto di sole immagini, tenteranno di guidare Hermine, Clea, Gustav, Joseph e lo stesso Hans verso lo splendore.

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Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto del libro, preceduto da una breve presentazione del contesto:

Il romanzo di Pier Paolo Di Mino Lo splendore racconta la vita di Hans Doré, che nasce nel 1911 in un sobborgo di Berlino ed è destinato, forse, a diventare un «vero re» – uno tzadik, secondo la tradizione ebraica, ovvero un essere capace di mettere gli umani in contatto con la presenza divina nel mondo. Il primo volume, in uscita il 5 aprile 2024, si intitola L’infanzia di Hans, e incastona nei primi cinque anni di vita di Hans la sua genealogia, ovvero la storia di tutti i personaggi che, ciascuno a suo modo, hanno contribuito sia alla nascita di Hans sia alla nascita di colui che sarà il suo maestro, Joseph Idel. Joseph è figlio della piissima Clea Schurman e di Gustav Idel: un uomo perfettamente cattivo, un diavolo, un assassino, che tuttavia, a un certo punto della sua vita sceglie, per amore, non il partito della macchina della necessità e della distruzione ma quello dello splendore. 

In questo estratto leggiamo come Hermine – che, nata nell’ultimo quarto del Settecento, sarà la tata di Clea – comincia a trasformarsi da venditrice ambulante – il mestiere del suo defunto marito, Reiter – a curatrice: grazie ai libri. 

*  *  * 

Quando ci ripensava, Hermine mica si ricordava come erano entrati i libri nella sua vita, ma da quel momento tutto era cambiato ancora di più. Davvero la vita, per chi sa vederla così, è una continua sorpresa. Forse i libri entrarono nella sua vita semplicemente perché, grazie a Reiter, sapeva leggere e aveva i soldi. E perciò aveva preso l’abitudine, e, ogni volta che capitava in una città un po’ più grande, dove c’era un negozio di libri, o quando alla fiera c’era un banchetto che vendeva vecchi volumi usati, lei comprava a più non posso tutto quello che capitava: memorie, almanacchi, libri di poesie, romanzi, vocabolari, manuali di botanica, opuscoli religiosi: qualsiasi cosa. Quasi non importa quello che leggi, avrebbe predicato Hermine da vecchia. È ovvio che ci sono i libri di valore e i libri che è meglio perdere che trovare. È ovvio che c’è libro e libro, e che ognuno è diverso. Davanti a un libro, diceva Hermine, sei come davanti a una persona: non sai mai cosa ti aspetta. Vedi quello vestito elegante, e pensi che da lui imparerai tanto; e invece no, non impari niente. Ma altre volte può essere che quello elegante è proprio il meglio per te. Poi ci sono i libri belli, che sono i migliori; e ci sono i libri onesti, che non ti deludono e ti insegnano di cuore molte cose. Spesso un libro è bello e onesto insieme, e allora sei proprio felice di averlo incontrato. Ma bisogna essere cauti, perché ci sono i libri che sono ladri, e ci sono i libri che sono assassini. Però anche da loro si può imparare, non dobbiamo evitarli a qualunque costo; solo, bisogna fare attenzione. Il punto, diceva Hermine, è che da tutti i libri, se ci sai fare e li conosci, puoi imparare. Se cerchi una cosa, sui libri, prima o dopo, la trovi. Anzi, è appunto a forza di leggere i libri, libri di ogni tipo, che puoi capire cosa cerchi di sapere nella vita. Per esempio Hermine, all’inizio, leggeva quello che veniva, finché, a forza di leggere, non capì cos’era che le piaceva, e cioè tre tipi di libri: i libri in cui si raccontano le storie, i libri di poesie e i libri di medicina e guarigione. Perché, si disse a un certo punto, dalle storie si impara facilmente a vivere; mentre le poesie, che forse sono perfino meglio del racconto delle storie, ti danno che con poche parole puoi vedere cose che ti rimangono impresse nell’immaginazione; e quanto ai libri di guarigione e medicina, ecco, forse quelli le piacevano perché fin da piccola le era piaciuto riparare le cose e fare stare meglio [suo fratello] Hugo, o forse era che gli uomini ne hanno bisogno davvero, di stare bene, di essere sani e felici. I primi tempi aveva visto solo che, per un motivo o per l’altro, le piacevano quei tre tipi di libri. Ma, a forza di leggere e leggere e rileggere, aveva visto di più: aveva visto che i tre tipi di libri, i libri che raccontano storie, i libri di poesie, e i libri per guarire, se non sono proprio la stessa cosa sono almeno legati tra di loro, perché alla fin fine leggere una storia o una poesia ci fa stare meglio e capire di più della vita, e quindi ci fa guarire dai nostri malanni. E così gli scrittori di storie e di poesie dovrebbero sempre leggere i libri di medicina e guarigione, e i medici dovrebbero sempre leggere le poesie e le storie. Insomma, Hermine, a forza di leggere e leggere e rileggere, aveva visto che a lei interessava capire come guarire la gente, e che non poteva imparare a farlo se non leggendo i libri di medicina e guarigione, i libri di poesie e i libri di storie. 

Il libro fondamentale della vita di Hermine venne quando, di libri, ne aveva già letti a casse intere. Fu il primo che lesse capendo cosa le succedeva. Era un libro piccolo, piccolo ma molto grosso, come una persona tozza, forse sgraziata, ma pratica e alla mano, in cui venivano elencate tutte le malattie e tutti i rimedi. Era fatto a rubriche, e ognuna finiva con un detto di Ippocrate, che sarebbe il padre della medicina, come amava ripetere Hermine, con reverenza e un certo sentimento filiale. I detti di Ippocrate, che Hermine a forza di leggerli e leggerli e rileggerli sapeva a memoria, erano secondo lei la dimostrazione che le storie, le poesie e la medicina sono la stessa cosa. I detti di Ippocrate, ragionava mentre leggeva, sono insieme un suo parere sui modi di curare un male e una poesia di quelle profonde che ti fanno pensare, come il detto che dice che l’uomo saggio considera la salute la più grande delle gioie, e impara a trarre, con il suo stesso pensiero, beneficio dalle malattie: che è un detto dove c’è tutto, c’è l’importanza che si deve dare alla salute, c’è che la salute sta nell’essere felici, e che l’essere felici è una questione di pensiero: dove c’è che solo pensare bene ti può rendere felice e solo l’essere felice ti può dare la salute, e dove è rivelato un segreto di quelli che sono davanti agli occhi di chiunque, ossia che le malattie, in verità, stanno lì perché ne ricaviamo un beneficio. Oppure c’era l’altro detto, che dice che se stai male di stomaco è perché nel tuo paese non c’è la libertà, che è come il verso di una poesia che parla agli uomini e alle donne per fargli venire voglia di essere felici. Quel libro Hermine lo lesse e lesse e rilesse, e cominciò pure a sognare Ippocrate. Ippocrate nei sogni era identico spiccicato a Reiter, ma non era Reiter, era Ippocrate, e Ippocrate le diceva: ma non vedi che sei sempre più felice, Hermine? Non è un lavoro bellissimo, il nostro? 

Quando lesse per la prima volta il libro di Ippocrate con le rubriche sui modi di curare ogni male, perfino il più brutto e doloroso, in fondo Hermine già lo capiva cosa le stava succedendo. Lo sentiva che c’era qualcosa che le stava premendo da dentro; e lo vedeva: poteva somigliare a un fiore, un fiore che cerca di sbucare dalla terra e che, per sbucare, pianta più a fondo nella terra le radici. Era un po’ doloroso, ma non era un dolore brutto. Era un dolore che la spingeva in alto e insieme la ficcava ancora di più nella terra, che, a pensarci bene, non c’è cosa migliore, e magari tutti i dolori fossero così; che poi, ragionava Hermine, tutti i dolori sono così, perché quando uno pensa alle creature fatte da Dio, e in particolare all’uomo, cosa vede se non una creatura che tanto più è radicata nella terra tanto più si alza e cresce verso il cielo? E quando uno riesce a stare per bene nel mezzo, fra cielo e terra, allora può dire che è diventato proprio completo, che è diventato proprio la creatura che è. Allora un fiore lo chiami fiore, e un cane lo chiami cane, e un gatto, o una gallina, o un ciliegio, o un sasso, o una goccia di rugiada, oppure una casa, un carro, ogni cosa: allora l’uomo lo chiami uomo. Quand’è così, tutto il creato lo chiami creato, e, vai a vedere se non è vero, anche Dio Creatore è Dio Creatore soltanto quando sta dritto nel mezzo del creato, con la testa in cielo e i piedi ben piantati nella terra. 

Capito questo, il resto fu naturale. A lungo, almeno a guardare da fuori, non è che fosse cambiato granché. Hermine continuava a girare per la Baviera con il carro, e a vendere le mercanzie. Però era cambiato tutto, perché, che lo volesse o meno, le stava succedendo la cosa del fiore. […] 

Quasi senza accorgersene, a furia di sentire le sue donne dire: ho avuto questo dolore, oppure ce l’ho ancora, oppure ho avuto questo malanno, o ce lo hanno avuto i miei figli e mio marito, Hermine cominciò a interessarsi, e a dare i consigli, e, siccome pareva che fossero in genere buoni, le donne le dicevano: grazie, Hermine, sei meglio del medico condotto; perciò Hermine con il tempo si spinse più in là, e, in base alle cose che andava imparando dai libri, oltre ai consigli generici cominciò a fare quella che i medici chiamano diagnosi. All’inizio domandava: come mangiate? quanto mangiate? come dormite? quanto lavorate? Ma poi fece un altro passo avanti, e cominciò a mettere le mani sulle persone che stavano male. È difficile da descrivere, si diceva Hermine, penso che lo capisce solo l’apprendista pittore o scultore quando il maestro per la prima volta gli fa prendere in mano il pennello o lo scalpello. Hermine aveva letto con cura un libro su come si indovinano le malattie osservando gli occhi, e volle provare il metodo. Vennero subito i successi. Quindi cominciò a toccare e sentire la schiena. E pure a guardare nella bocca. Ma la cosa più importante fu quando imparò a sentire il polso. 

(continua in libreria…)

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