Maria Castellitto, esordiente classe ’97, su ilLibraio.it fa immergere completamente nella città di Londra, “in ogni angolo, tombino, stradone, aula universitaria, in ogni coltello, allarme terroristico, rissa, ubriaco che cadeva come una mela”. Una metropoli costellata da slogan pubblicitari, persino sui volantini che promuovono psicoterapia, una realtà in cui l’autrice ha imparato a vivere come “qualcosa più di una bambina, ma qualcosa meno di una donna”, e che si fa asfissiante. Alla fine il racconto si ricollega alla scrittura del suo romanzo, “menodramma”, che senza gli anni passati nella giungla della metropoli non avrebbe mai visto la luce…

Maggio, 2017. Ho diciannove anni e quando arriverà la sera andrò a una festa su un battello fluviale. Londra, l’America dell’Europa, la metropoli che non passa mai di moda. Il porto dove sono attraccata anch’io, insieme ad altri milioni d’oggetti superflui.

Sto bene. Tra la frenesia del giorno e la violenza della notte. Sto bene. Tra Harrods e il punk. Nel tubo della metro. Sto sempre bene: è un periodo assurdo.

A Roma faticavo ad entrare sola in qualunque tipo di negozio e locale. Ma da quando vivo qui, ormai, ho dimestichezza con bar e supermercati e off-licences per le sigarette, talvolta farmacie, ancora mai varcati soltanto i negozi d’abbigliamento.

So cavarmela perché devo cavarmela; à la guerre comme à la guerre. Non mi spaventa più fare colazione da sola, non mi spaventa nemmeno il tizio mezzo nudo che all’ingresso della stazione di Tottenham Court Road mi urla: “Scappa! Questa città è in mano allo sterco del diavolo! Scappa!”. Io non scappo, proseguo e percorro Tottenham Court Road, presente a me stessa, con la sensazione d’avere molto da offrire in una città di cui si dice “ha molto da offrire”.

Sto bene, e lui sta male. Sono qualcosa più di una bambina, ma qualcosa meno di una donna, non posso caricarmi sulle spalle i mali e i matti del mondo. Al diavolo la colpa, vecchio mio, io qui vedo solo scintille veloci come luce, e ci sto dentro, provvisoria e irripetibile, sono dentro il cerchio più bianco del fumo infinito. “Vecchio mio”, perché stavo leggendo Fitzgerald. Perché stavo scrivendo il mio primo romanzo incompiuto e lo cercavo in ogni angolo, tombino, stradone, aula universitaria, in ogni coltello, allarme terroristico, rissa, ubriaco che cadeva come una mela, di questa giungla.

Qualcosa di storto dentro di me già potevo cominciare a percepirlo: una spinta e un blocco, un passo in avanti e per reazione almeno tre indietro. “Perché siamo tristi?” si chiede un volantino che promuove ore di psicoterapia gratuita e che ora mi viene consegnato tra le mani distratte e remissive da un ragazzo con un sorriso esaltato, perfetto per una pubblicità di H&M. Che fosse perfetto per una pubblicità di H&M ci avrei potuto fare caso soltanto pochi mesi fa, grazie a Triangle of Sadness. Il film si apre su dei modelli che scimmiottano le facce esatte per due marchi diversi: la costosa Balenciaga e l’industriale H&M. Espressioni arrabbiate, impassibili e scontrosamente afflitte, occhi che guardano in basso per l’élite; grandi sorrisi stampati che stanno lì e vogliono dire: ci vogliamo bene, siamo felici, per gli stracci accessibili alla maggioranza. Piccoli capolavori del sistema capitalista, che quando si troverà ammassato, con tutti i suoi elementi più contraddittori, su una crociera di lusso, in quella cosa divertente da non fare mai più, navigherà fino a meritarsi sbocchi di vomito e poi il naufragio.

Torniamo a me che accartoccio il volantino nella tasca della giacca leggera e dopo lo butto nel secchio di una di quelle catene con il logo verde dove ho bevuto un caffè, ma gli adesivi sulle pareti ci tengono a dire “it’s not just coffee”. Non è solo caffè, è spesso una merda.

Io non sono triste, volantino gettato, io sono ironica e voglio riderci su, sulla vita e sul disastro. Ma per riderci dopo devi piangerci prima, tesoro. Allora d’accordo, se siamo tristi è perché ci parlano dell’estate quando stiamo gelando in pieno inverno e dell’inverno quando stiamo bruciando in piena estate; non è normale che la realtà sia qualcosa d’indifendibile, da escludere sempre. E a rimetterci sarà solo tutta la vita, a favore dell’arte o di qualche altra droga, da questo punto, in cui la giovinezza s’irrigidisce, ha già nostalgia di sé, si crepa e crepa in cinque secondi, per rinascere ci vorrà solo tutta la vita.

I ricordi si offuscano. Non so se è Zara, non so se è Kite. Vari piani, c’è una scala mobile, forse, non sono più attendibile. Ho la nebbia negli occhi: dalla bruma ai banchi di nebbia, l’attimo è uno e inafferrabile. Senza ombra di dubbio scientifico, ho la tachicardia che precede un infarto, tra poco avrò un infarto in corso. Persone sfocate corrono in ogni dove, afferrano ogni cosa. Io rischio di inciampare sui loro piedi, di scontrarmi con le loro spalle, sussurro degli “I’m sorry” precauzionali, anche se non mi sembra di star toccando nessuno. Una dipendente del negozio vuole il mio ultimo battito cardiaco, mi sorride un sorriso meccanico, mi chiede: “Hai bisogno di qualcosa? Cosa cercavi?”. Cercavo un vestito o una maglietta per la festa di stasera. Ora ho bisogno soltanto di un’ambulanza. Non dico niente, faccio di no con la testa, mi allontano, carezzo dei pantaloni piegati come fossero i miei cani. Ma i miei cani stanno a Roma e io ho paura.

Lo strepito di una sirena fortissima si conficca oltre i vetri di Kite, facciamo che è Kite e non Zara; scegliamo il livello più basso, dato che sto scendendo all’inferno. Calmati, respira, conta i tuoi respiri, se li conti esistono, se esistono sei viva, se sei viva calmati: mi ripeto e contarli un po’ funziona. Il panico s’affievolisce, non è più un attacco frontale, ma la mia faccia non può ancora dare un’impressione sana, mi pare che tutti mi guardino come fossi un’autistica, e forse sono un’autistica, e sicuramente nessuno mi sta guardando. Trovo un top rosso che mi convince, lo tengo stretto a me. Mi accanisco nel cercare altro, non mi serve nient’altro qui dentro, mi servirebbe solo un po’ d’aria… una panchina, un’amica, un ragazzo o i miei cani.

Prendo anche una camicia verde di stoffa immettibile che non metterò mai, con disegni posticci: una tigre e non mi soffermo sugli altri perché l’intestino si contrae stressato e scosso. Vado alla cassa, non riesco a parlare, ma so che devo pagare, allora pago e svengo.

Quando, circondata da buona parte del personale che mi offre acqua e zucchero, riapro gli occhi non posso ancora pensare a quella che è la mia pubblicità preferita del 2022: una coppia viene accompagnata da un agente immobiliare a vedere una casa, lui dice a lei “Mi raccomando, non facciamoci prendere dall’entusiasmo. Entriamo, guardiamo, e ne parliamo dopo”, lei fa a lui il segno della bocca cucita. Entrano, l’agente mostra l’ampio soggiorno e lei sviene colpita dalla bellezza. La trascinano nell’altrettanto ampio terrazzo e lui sviene colpito dalla bellezza. Si ritrovano entrambi sul letto matrimoniale, lei sviene ancora per l’ampia cabina armadio. Slogan finale: Idealista, svieni a vedere la tua casa.

E non penso nemmeno al mio professore di semiotica, Mr.Geinsfein, che a ogni teoria faceva seguire due rapidissimi “però”, e che era solito fumarsi un cannone con noi studenti nel cortile della Soas quando tramontava il sole, e molti altri nel suo ufficio fin dal mattino. I suoi occhi, stranamente, non diventavano mai rossi, erano soltanto gli occhi chiari di uno psicopatico lucido e affamato di sapere. Per spiegarci Barthes, storpiava la battuta emblematica de L’Odio di Kassovitz, e gridava: “L’importante non è la caduta, ma l’ancoraggio!”. L’ancoraggio: il testo che non lascia scampo alle interpretazioni e connota le immagini. Poi ci guardava intensamente nella speranza infantile d’averci emozionati, e noi, in un tacito accordo, gli restituivamo le maschere più attente e sorprese che potessimo indossare. A quel punto ci confondeva le idee: “Però però, la semiotica contemporanea ci ha ormai insegnato che il linguaggio visivo non dipende necessariamente dal verbale, c’è un’interdipendenza, i due si prestano l’àncora a vicenda”.  Leggermente in ritardo, la ringrazio professore: se quello stesso slogan fosse stato utilizzato per la mia perdita di sensi – Kite, svieni a vedere i tuoi vestiti – avrebbe assunto un significato invendibile.

Per strada sono indebolita e riarsa, non come se avessi corso per due giorni di fila, ma come se avessi scoperto un mio limite enorme e adesso tutto quello che sono ruotasse attorno a quel limite enorme, io sono un limite enorme: io ho la morte dentro. Metto le cuffiette, musica classica, no, rap: non crollo / mi stringono per il collo / stanno strangolandomi impedendomi il decollo. Arrivata a sedermi sulla panchina di Virginia Woolf nel Bloomsbury Square Garden, separato dalla casa in cui viveva Keynes da un altro rettangolo di verde, sono costretta a togliermi le cuffiette che ora gridano: visto che io sono un pazzo / mi punto una pistola questa sera mi ammazzo, perché un uomo turbato mi si avvicina sostenendo d’essere un filosofo. “Ah, io sto al primo anno di filosofia.” “Lo immaginavo, ragazzina, vuoi sentire un mio aforisma?” “Okay, certo.” “Alla tragedia è da preferire la statistica: devi ucciderli tutti, non devi ucciderti mai.” “Grazie.”.

L’uomo se ne va e non so dire se è reale o un mio fantasma. Non so neanche scrivere con precisione la differenza che c’è tra un aforisma filosofico e uno slogan pubblicitario. In fondo, entrambi toccano; il primo il cuore, il secondo il portafoglio. E non sono questi i tempi per interessarci della differenza che c’è tra il cuore e il portafoglio. In fondo, entrambi contano; come per legge divina, l’ultimo è diventato il primo.

“Fai una scelta consapevole”, “Fai la scelta migliore”, “Scegli la semplicità”: famosi slogan pubblicitari non rispettati da me e dai personaggi di menodramma. Si corregge il sentimentalismo, diceva il poeta, non diventando cinici ma diventando seri. Si corregge la L con la N, dico io, che non iniziavo a scrivere questo libro in quegli anni, che senza quegli anni non lo avrei mai scritto.

Le coscienze pure sanno che è più giusto soffrire invece di compiere il male, eppure lì dove né il bene né il male riescono ad essere scelti, non vincono gli uomini, ma il loro destino. Nella tragedia e nella statistica il silenzio, spostato altrove dalla techno.

Indosso il top rosso, dal battello guardo il Tamigi e per un istante ci penso. Scomparire dentro questo petrolio che non vale un cazzo, scomparire dentro lo sterco liquido del diavolo. In cambio dell’estate quando è estate, dell’inverno quando è inverno. Un po’ di verità da non riferire. Come se di una persona fossero sincere solo le parole che non ci dice, e di un romanzo solo ciò che non c’è scritto, quindi quanto avete appena letto.

Menodramma Maria Castellitto

IL LIBRO E L’AUTRICEMaria Castellitto, classe ’97, figlia dell’attore e regista Sergio Castellitto e della scrittrice Margaret Mazzantini, è al suo debutto narrativo con menodramma (Marsilio). La trama del suo primo libro conduce a Londra, città dove Maria Castellitto si è diplomata, una miniera di notte e un cantiere di giorno. Duna, la protagonista, si è laureata in Filosofia nell’università più illuminata d’Inghilterra, e ora legge sceneggiature. Nonostante sia molto giovane, ha già una vita di prima. Tra la vita di adesso, seduta a una scrivania davanti a un collega più grande che le si rivolge in modo gentile e che di certo la ama, e la vita di prima a Roma, seduta in un’aula scolastica o su un motorino in compagnia di Veronica, c’è un proiettile la cui vittima non è ancora decisa. Duna voleva scrivere un romanzo, ma ha smesso. Il protagonista era un ragazzo vestito da pagliaccio armato di mannaia. Forse non era uno sconosciuto. Duna gioca con Alexander, un amico geniale e lunatico ricoverato in una clinica psichiatrica: si parlano attraverso gli slogan pubblicitari. Duna incontra un giovane e famoso cantante. Si innamorano, solo che il lieto fine, nelle favole come nella vita, dipende sempre da dove smetti di raccontare la storia, e qui non si sono fermati in tempo. Se non fosse che, tornando da una festa alla quale era andata con lui, nella notte in cui più intensamente di altre medita il suicidio, Duna incontra un uomo. E l’uomo ha una pistola…

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