“Nina e Macchia e altre storie di alberi e giardini” di Pia Pera, autrice venuta a mancare nel 2016, è un libro che trasforma in letteratura – come pochi hanno saputo fare – i temi della natura, del paesaggio e della cura del giardino. Su ilLibraio.it proponiamo la prefazione di Cristina Palomba, l’editor che ha lavorato al suo ultimo commovente libro “Al giardino ancora non l’ho detto”, e che ricorda: “Ci siamo incontrate quando eravamo già due signore, siamo diventate amiche, abbiamo lavorato insieme per molti anni, frequentato giardini, spiagge, orti, librerie, festival letterari, ristoranti. Questo mi ha permesso di capire un po’ chi era…”

“Pia era incantevole”, dice lo scrittore romano Emanuele Trevi dell’amica Pia Pera, venuta a mancare nel luglio del 2016. Lo stesso autore ha raccontato una parte della sua vita e dell’amicizia con Pia Pera e Rocco Carbone, anch’egli morto prematuramente, nel romanzo Due vite (Neri Pozza), vincitore del Premio Strega nel 2021.

Dell’autrice e traduttrice ora Salani propone Nina e Macchia e altre storie di alberi e giardini, un libro che trasforma in letteratura – come pochi hanno saputo fare – i temi della natura, del paesaggio e della cura del giardino.

Nell’ora sospesa fra la notte e l’alba, il protagonista, Marco, lascia casa sua in direzione di una baia inesplorata. Lì non ci sono bare neanche negozi, ma c’è un orto, con pomodori lucidi e dolci, tenere lattughe e fragole così succose da macchiare le dita. A occuparsene è la saggia Caterina, insieme alla cagnolina Macchia e all’intelligentissima asina Nina. Grazie a loro, Marco scoprirà che tutte le cose più buone che la terra regala hanno bisogno di un piccolo aiuto per crescere…

Nina e Macchia e altre storie di alberi e giardini è un libro che presenta un ritratto di Pia Pera bambina ad opera di Cristina Palomba, l’editor di Ponte alle Grazie che ha lavorato al commovente Al giardino ancora non l’ho detto (Ponte alle Grazie, 2016), e gli esperimenti botanici di Nadia Nicoletti. Le illustrazioni sono realizzate da Sofia Paravicini.

Nina e Macchia e altre storie di alberi e giardini di Pia Pera

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo la prefazione di Cristina Palomba:

Vita, frutti e fiori di Pia Pera

di Cristina Palomba

Azzurrissimo e calmo. È così il mare in cui io e Pia abbiamo nuotato e ci siamo tuffate in un pomeriggio di luglio. Appollaiate felici sulle lunari rocce dei Balzi Rossi di Ventimiglia, abbiamo giocato come due bambine. Forse per recuperare il tempo perduto, perché noi due da piccole non ci conoscevamo: io sono nata a Milano nel 1964 e lei a Lucca nel 1956, e per molto tempo siamo vissute senza sapere nulla l’una dell’altra.

Ci siamo incontrate quando eravamo già due signore, siamo diventate amiche, abbiamo lavorato insieme per molti anni, frequentato giardini, spiagge, orti, librerie, festival letterari, ristoranti. Questo mi ha permesso di capire un po’ chi era. Non l’ho conosciuta da bambina, come dicevo, ma penso sia stata una piccola monella, come avrebbe detto la mia maestra delle elementari – da grande era ribelle, a volte impertinente e non tollerava imposizioni, tutte qualità dal mio punto di vista, perché rendono una persona indipendente nelle azioni e nelle parole. Mi immagino che anche da piccola fosse molto appassionata, come lo era da grande: amava già i giardini e gli orti, la terra, l’aria aperta, gli animali – soprattutto i cani – il mare, la musica e la letteratura. Mi ha raccontato che non le interessavano le bambole o altri giochi, ma desiderava un giardino. Quattro metri quadrati di terra recintata tutta per sé. Forse questo desiderio era nato il giorno in cui l’avevano portata in campagna in un podere che era appartenuto a sua nonna. Pia si ritrovò accanto a un vitellino appena nato. ‘Il suo fiato umido e caldo, nella penombra della stalla: una sensazione come di toccare con mano la vita nella sua dimensione più struggente e indifesa’.

Di quella giornata Pia ricordava anche altre cose molto piacevoli: un’aiuola di iris e rose, una merenda di uova fritte e pane cotto nel forno a legna, le mani infilate nella terra. Dunque, la campagna l’attirava. Ma anche le storie. Leggeva e rileggeva un libro che la incantava: era Il giardino segreto, raccontava le vicende di una bambina ‘egocentrica, viziata, infelice, dal colorito smunto, altezzosa, spaventosamente sola fin dall’inizio’. Si chiamava Mary Lennox e Pia trovava in quella bambina molte affinità con se stessa. Nel grande parco del castello dove abitava, Mary scoprì un giardino murato di cui si era perduta la chiave e dove era proibito entrare. Mary, bambina ribelle – proprio come Pia – trovò la chiave, entrò nel giardino che le restituì buonumore, guance rosse e appetito.

Quando Pia è cresciuta si è iscritta all’Università. Ha studiato russo e letteratura russa, ed è diventata un’eccellente traduttrice da questa lingua. Ma parlava anche l’inglese e il francese. Era molto colta, adorava studiare e aveva un’intelligenza acutissima oltre che un’eccellente memoria.

Dopo gli studi ha cominciato a lavorare in una grande casa editrice a Milano, a scrivere per i giornali. Voleva diventare una scrittrice e ci è riuscita. Nel 1992 ha pubblicato il suo primo libro, una raccolta di racconti, La bellezza dell’asino, spregiudicato, allegro, raffinato, proprio come era diventata lei. E subito dopo un romanzo, Diario di Lo. Le dissero che aveva copiato da un romanzo famoso, Lolita. In realtà si era solo ispirata a quel romanzo per mostrare questa ragazzina, Lolita, sotto una luce diversa. Tutta questa vicenda rattristò moltissimo Pia che per un po’ non scrisse più nulla.

Nel frattempo, il suo amore per la natura, la solitudine, la ricerca della pace e della semplicità le hanno fatto maturare la decisione di tornare a vivere da dove era venuta, in Lucchesia, dove i suoi zii avevano un podere abbandonato che le mettevano a disposizione – forse quello stesso dove aveva fatto l’incontro col vitellino. Così Pia ha detto addio alla città e alla sua vita frenetica, vanesia, caotica per trasferirsi alle pendici del monte Pisano, e dare inizio al nuovo corso della sua vita: quello di signora di campagna. Si disse: ‘Avrei lasciato anch’io il lavoro di città per il podere avito* . Lì avrei trovato il paradiso’.

Ci ha messo parecchi anni a sistemare il podere: una grande casa rurale circondata da un ampio terreno, che lei decise di affrontare da sola, confidando nelle sue letture, nei suoi amici e nel suo estro. E lentamente, ma con grande costanza e determinazione, lavorava nel giardino e nell’orto e raccontava questa nuova avventura nell’Orto di un perdigiorno, il libro che ci ha fatto incontrare.

Il pezzo di terra che cercava di trasformare in paradiso è diventato il centro della sua vita e coltivando la terra coltivava la felicità. Addomesticava e curava le piante, i fiori, gli ortaggi, li osservava e da loro imparava. Che cosa? La pazienza, l’umiltà, lo stare ferma in un luogo, l’autosufficienza, la serenità, il silenzio, la bellezza (non vanitosa, però). Pia scriveva i suoi pensieri sulla carta, il giardino scriveva dentro di lei. Diciamo che erano diventati come fratelli gemelli, inseparabili. O come il seme e la pianta.

Negli anni successivi, ha scritto molto di natura e giardini: diversi libri e molti articoli per una rivista di giardinaggio. Aveva una rubrica intitolata Apprendista di felicità. L’apprendista era Pia, i maestri tanti, non sempre umani. Per esempio i suoi due cani: Nino, incerto misto di labrador e rottweiler, mangiatore di lamponi e uva; Macchia, instancabile fox terrier, che gioca con le pere e le mele cadute dagli alberi. Quando veniva l’autunno e le spiagge si svuotavano, Pia guidava fino a Marina di Vecchiano n compagnia di Nino e Macchia: lei mangiava il fritto di paranza in uno dei ristorantini lungo la spiaggia e loro correvano liberi tra le dune e i gigli di mare, l’elicriso, l’euforbia. Ma il maestro per eccellenza era senza dubbio l’orto: tutti gli ortaggi che vi crescevano avevano qualche cosa da insegnarle.

Tra le ragioni per cui Pia amava tanto coltivare l’orto, certamente vi erano la golosità e il desiderio di essere autonoma, di coltivare da sola quello che mangiava. Voleva ‘la dispensa piena’. Continuava a essere la bambina che alle bambole preferiva la terra, stare all’aperto, scavare buche, innaffiare, salire sugli alberi a raccogliere i fichi, o strappare ciliegie a mazzi dagli alberi e ficcarsele in bocca sporcandosi la faccia di sugo rosso. In estate organizzava fantasiose insalate con pomodori ed erbe aromatiche; friggeva gli zucchini, addentava croccanti finocchi. Si inebriava col profumo dell’aneto. E non solo mangiava ma godeva delle forme e dei colori di queste sue creature. Il giardino e l’orto erano come un quadro ed era lei che decideva gli accostamenti mentre seminava, creava aiuole, bordure: un tocco di giallo là coi girasoli; l’esuberanza multicolore delle dalie; l’arancio acceso dei nasturzi; il viola cupo ed elegante delle melanzane.

Installata nel suo podere toscano, Pia viveva abbastanza tranquillamente – tranquillamente ma non troppo. Sì, perché predicava la serenità, la ricercava, ma non la possedeva: era una persona inquieta. Nelle giornate di scontentezza, però, era sufficiente che prendesse la via dell’orto per cambiare umore. Bastava legarsi alla cintura il fodero con le cesoie, ‘attraversare il giardino, strada facendo tagliare un rametto secco, già che ci sono passare dal frutteto a vedere se le more del gelso sono mature. Già solo a mangiare le more mi sono scordata del mio malumore. Quando arrivo nell’orto non so più nemmeno perché ci sono venuta. Traffico tra le piante e loro mi dicono perché sono qui: hai noi da accudire. Prenditi cura di noi, ricambieremo con un invito a pranzo’.

E quando Pia si è ammalata di una malattia che la stava facendo diventare, come diceva lei, un ramo secco, la sua preoccupazione più grande è stata la sua terra. Ha scritto un ultimo libro, forse il più bello, che aveva come titolo un verso di Emily Dickinson, una poetessa americana che Pia amava molto: Al giardino ancora non l’ho detto. Come poteva dire alle sue piante che non avrebbe più potuto occuparsi di loro? Chi avrebbe potato, innaffiato, zappato, vangato, seminato? Lentamente, però, a mano a mano che scriveva il libro e che si avvicinava la sua uscita di scena, ha capito che il giardino era lì per aiutarla. Le offriva soluzioni nei giorni più tristi, la consolava, le regalava colori, profumi, frutti, bellezza, saggezza. Le suggeriva in ogni momento che non si sarebbero lasciati. E aveva ragione. Un Paradiso è il luogo in cui si torna e si resta. Per sempre.

* Pia aveva letto tanti libri e dunque conosceva tante parole, anche quelle poco usate. ‘Avito’ viene dal latino avitus e significa ereditato dagli avi, ossia gli antenati, i nostri nonni e bisnonni.

(continua in libreria…)

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