Roberto Emanuelli torna in libreria con “Quando tutto sembra immobile”, una storia d’amore e di formazione ambientata nella periferia di Roma ai giorni nostri – Su ilLibraio.it proponiamo un estratto
Roberto Emanuelli torna in libreria con Quando tutto sembra immobile (Sperling & Kupfer). L’autore di Davanti agli occhi, di E allora baciami (entrambi editi Rizzoli) e di altri libri, i cui romanzi di successo sono stati tradotti anche in lingua spagnola, propone un nuova ambientazione e un nuovo stile, in una storia d’amore e di formazione al tempo stesso.
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La trama ci porta Roma, nel presente: erba appena calpestata, pini mossi dal vento e sale. È di questo che profuma il quartiere in cui Daniele è cresciuto. Un quartiere di periferia, dove tutti si conoscono e si aiutano, ma dove basta un attimo per prendere la strada sbagliata. Ed è qui che, dopo tanti anni, Daniele ha deciso di tornare per cercare conforto: Margherita, l’unica donna che ha mai amato, se ne è andata. Lui è distrutto, ma non riesce ad ammetterlo. Con nessuno, nemmeno con gli amici che pure sono sempre al suo fianco. Daniele è fatto così: ha un universo di emozioni nascosto in fondo al cuore, ma non è capace di esprimerlo.
La vita è stata dura con lui e gli ha insegnato che, per non soffrire, i sentimenti vanno celati, soffocati. È come se fosse paralizzato, in trappola, mentre una guerra silenziosa lo agita nel profondo. Una guerra che non può vincere. Contro se stesso, contro Margherita, contro il suo stesso passato. Ma è proprio la lotta con il passato che lo porta a intraprendere un lungo e doloroso viaggio. Ciò che scoprirà alla fine del cammino, però, è che la felicità è sempre stata a un passo da lui. Perché a volte, bisogna restare immobili per andare avanti.
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Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto
22 febbraio 2022
Margherita è profumo di astucci, di diari scritti di notte con la biro blu, di perle marine e di vino pregiato. Mamma è profumo di sapone di Marsiglia e passata di pomodoro.
Il quartiere dove sono tornato a vivere dopo aver chiuso con Margherita, quello dove sono nato e cresciuto, Casetta Mattei, profuma di erba, pini e sale. E qui, a Casetta Mattei, ogni angolo rivela un pezzo della mia infanzia, della mia adolescenza. Del mio odio. Della mia rabbia. Del mio amore. Della difficoltà che ho sempre avuto a esternare i miei sentimenti.
Qui ho capito che il mondo interiore che fin da piccolo mi ha sempre fatto sentire speciale, fuori posto, disallineato, ecco, qui ho capito che quel mondo di pensieri infiniti, dilanianti e profondi devo tenerlo solo per me, perché se ti mostri debole, per strada e nella vita, non vai avanti. E quel mondo lì forse è una ricchezza, sì, forse ti dà una marcia in più, come dice qualcuno, ma devi tenerlo nascosto insieme a tutta la tua imbarazzante fragilità.
Questo quartiere racconta di quanto è sempre stato difficile per me fidarmi degli altri. Qui ho imparato il legame fra la casa e la strada. Fra gli insegnamenti dei miei – le regole di una famiglia semplice, onesta, operaia, che viveva in una casa popolare – e il codice non scritto che devi imparare a decifrare per sopravvivere nei vicoli dimenticati della periferia, dove alcuni ragazzi giocano a pallone e si incazzano per un gol sbagliato, e altri si organizzano per furti e piccole rapine.
Puoi scegliere da che parte stare, ma non chi salutare. Puoi scegliere cosa diventare, ma non puoi cambiare il tuo passato. Non puoi guardare avanti senza prima voltarti indietro e fare pace con tutto quello che ti ha portato dove sei adesso. Non puoi rinnegare quello che eri, perché in fondo è un pezzo di quello che sei. E non ti basta indossare una camicia bianca inamidata per diventare tutto a un tratto un tipo a posto che guarda il mondo con finta ingenuità.
La strada ti scava dentro, ti insegna il valore della lealtà, dell’amicizia, ti spiega di chi fidarti (e una cosa è certa: le persone a cui puoi dare fiducia sono sempre meno di quante pensi, ma quelle poche diventano un tesoro inestimabile che porterai sempre con te). La strada ti osserva mentre cammini e parli e ti muovi, ti punisce se sbagli, o quando dici una parola di troppo. Ti racconta la vita con la sua poesia. Ti fa sentire il mondo con il suo profumo. Ti arricchisce se la rispetti. Ti ruba un po’ d’amore se le permetti di inghiottirti.
Chiudo il miscelatore dell’acqua e ascolto il suono delle ultime gocce che cadono sul mio corpo, sul mio viso, sulle spalle, e poi per terra, sul piatto in resina. Erano tredici. Tredici gocce. Fossero state più di quattordici, l’avrei dovuto dire ad alta voce. Sotto le quattordici, invece, è bastato dirlo una volta fra me e me. Le regole sono chiare. E come sempre le ho decise io. Un gioco? Sì, possiamo chiamarlo così.
Mentre esco dalla doccia squilla il cellulare che è sul letto, in camera. Ma non batto ciglio. Come se non suonasse. Fisso l’immagine nel riflesso dello specchio un po’ appannato e vedo un corpo maschile completamente nudo e bagnato che qualcuno potrebbe trovare affascinante e abbastanza atletico nonostante un filo di pancia, conseguenza di un leggero ma costante abuso di alcol. A trentotto anni, mi dico mentre guardo ogni dettaglio di quel riflesso, il mio aspetto è ancora passabile, nonostante le cicatrici e i segni sul viso, nonostante le occhiaie e la barba incolta.
Ma non ne sono poi così convinto. O forse la verità è che non è poi così importante…
Passo lentamente l’asciugamano su tutto il corpo, osservo una lunga e grossa cicatrice sul quadricipite, mi asciugo e mi accarezzo, mi avvolgo, mi scaldo, in questo freddo martedì sera di febbraio. Poi faccio lo stesso con i capelli neri, lisci e spessi.
Ho gli occhi rossi, ma mi convinco che sia colpa della doccia. Tanto nessuno può vedermi, e questa è l’unica cosa che conta.
Mentre mi guardo, ripenso a quando mi prendevi in giro per la vertigine sulla nuca. E per la pancetta. E io facevo lo stesso con te per quella palpebra che iniziava a battere ogni volta che eri un po’ agitata. Non riuscivi a dissimularla, la tua emotività. Cosa che invece ho sempre fatto io, in un modo goffo, deludente, autolesionistico. Io, che nella mia emotività sono affogato come se fosse il mio stesso veleno.
Vorrei semplicemente ignorarti. Come fingo di fronte al mondo, da quando è successo. Come fanno quelli che da un momento all’altro si voltano, guardano verso nuovi orizzonti e smettono di correre in quei luoghi del passato dove erano felici. E smettono di starci male. E smettono di provare rabbia e sconforto. E smettono di pensarci.
Vorrei essere uno di quelli, intelligenti, che prendono atto con sereno distacco di come ti sei comportata, del male che mi hai fatto, e ne traggono una conclusione. Vorrei essere uno di quelli che una volta toccato il fondo iniziano ad amarsi, a volersi bene, e che ricominciano da se stessi. Come in quelle storie positive di rinascita. Come consigliano quei manuali di psicologia motivazionale che ho accumulato di nascosto in questi mesi.
Invece comprimo tutta questa roba in un angolo della mia testa, la nascondo sotto i detriti, e i segni, e le cicatrici. Sotto lo schifo che ho nel cuore.
Mi dico che se non la vedo, quella roba che minaccia il mio equilibrio, che mi provoca e mi aggredisce, pronta a farmi esplodere come dinamite, ecco, mi dico che se la metto sotto un tappeto di logica e razionalità, di regole autoimposte, di piccoli riti maniacali e patti con me stesso, di mura invisibili fra me e il resto del mondo, fra me e te, ecco, se faccio questo e mi difendo, quella roba lì che mi minaccia sembra meno radicata, meno pericolosa. Più la incido e la nascondo nella mia stessa carne, più è superficiale, mi racconto ironicamente. E ci credo, cazzo. Riesco sempre a raccontarmi che è vero. Ed è così assurdo che non posso che ridere di me stesso.
Perché invece io ti penso. Anche se fingo di non farlo. Anche se mi sforzo di apparire freddo e indifferente. Anche se mi dico che in fondo è stato meglio così. E invece io ti odio, Margherita. Ti odio profondamente. E vorrei piangere, ma non ne sono capace. Vorrei urlare, ma poi mi freno. Ci siamo lasciati un anno e mezzo fa, e il vino rosso ha ancora il tuo sapore. Scopare con chiunque ha il tuo sapore, ed è come fare l’amore sempre e solo con te, ma con quella sensazione amara nel finale, e un po’ dolciastra, che sa di sangue in bocca dopo un colpo duro, uno dei tanti della vita, che mi arriva addosso all’improvviso e mi ricorda che quella pelle non è la tua pelle, perché nessuna pelle è la tua pelle, perché nessuno sguardo su di me diventa il nostro sguardo.
Il mio profumo ha il tuo profumo. Quando lo metto, quando si posa sul mio collo, e prima ancora sui miei polsi, per poi propagarsi nell’aria con la sua fragranza, mi ricorda l’attimo prima di passare a prenderti sotto casa, l’attimo in cui ci specchiavamo nel bagno del nostro appartamento prima di uscire per andare a cena, l’attimo in cui mi chiedevi di dirtelo, che ti amavo, perché ne avevi bisogno, perché non te lo dicevo mai.
Milioni di momenti perfetti che sembravano destinati a ripetersi all’infinito e invece adesso sono avvolti nel buio, nell’oblio. Il mio profumo, quello che uso da sempre, sa della tua vita, per quest’osmosi che combatto ma contro cui non posso nulla, e quando lo metto, adesso, quando me lo metto addosso, non è più come prima. Quando lo faccio, poi inspiro e chiudo gli occhi, mi guardo intorno e ti cerco. E mi cerco.
(continua in libreria…)
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