Quattro aerei di linea si sono schiantati al suolo, in quattro continenti diversi e quasi nello stesso istante. Nessun atto di terrorismo, solo un’assurda, tragica fatalità: ma ci sono tre superstiti, tutti bambini… Su ilLibraio.it un capitolo da un thriller inquietante, “Il segno” di Sarah Lotz

12 gennaio 2012, il giorno che ha cambiato la Storia. Il giorno in cui quattro aerei di linea si sono schiantati al suolo: in quattro continenti diversi e quasi nello stesso istante. Nessun atto di terrorismo, solo un’assurda, tragica fatalità. O forse no. Perché, contro ogni logica, in tre casi ci sono stati dei superstiti. Tre bambini, usciti senza nemmeno un graffio dai rottami. E ben presto quei bambini sono diventati prima un mistero inspiegabile, poi un enigma inquietante. Nel disastro aereo in Giappone, infatti, un altro passeggero è sopravvissuto all’impatto, sebbene solo per pochi istanti, riuscendo a registrare un messaggio vocale sul cellulare: «Eccoli… Il bambino… Il bambino guarda i morti, ossignore quanti sono… Presto ce ne andremo tutti quanti… Il bambino non deve…».
Sono passati anni da quel maledetto giorno, eppure i Tre – come sono stati chiamati i bambini superstiti – sono ancora al centro del dibattito mondiale. Per fare luce sul mistero, alla giornalista Elspeth Martins non rimane che raccogliere tutte le informazioni disponibili…

E’ la trama di un thriller inquietante, Il segno (Nord) di Sarah Lotz: ecco un estratto…

Yomijuri Miyajima, geologo e volontario della prevenzione suicidi presso la celebre foresta di Aokigahara, in Giappone, un luogo popolare fra le persone depresse che desiderano porre fine alla propria esistenza, era di turno la notte in cui un Boeing 747-400D della compagnia aerea giapponese Sun Air è precipitato ai piedi del monte Fuji. (Traduzione dal giapponese di Eric Kushan.)

Quella notte mi aspettavo di trovare un cadavere. Non centinaia.

Di solito i volontari non pattugliano di notte, ma proprio mentre stava per fare buio la nostra stazione aveva ricevuto la telefonata di un padre molto preoccupato per il figlio adolescente. Aveva intercettato delle e-mail che non lasciavano presagire niente di buono, e sotto il materasso del ragazzo aveva trovato una copia del manuale per suicidi di Wataru Tsurumi. Insieme con il famoso romanzo di Matsumoto è un testo popolare fra chi programma di togliersi la vita nella foresta; non so più quante copie ne ho trovate abbandonate in giro nei miei anni di lavoro qui.

Ci sono alcune telecamere per controllare le attività sospette nei punti di accesso più gettonati, ma non avevo trovato conferma che il ragazzo fosse entrato e, pur avendo una descrizione dell’automobile che guidava, non ne avevo trovato traccia lungo la strada e neppure nelle piccole aree di parcheggio più vicine alla foresta. Non voleva dire nulla. Spesso guidavano fino a qualche angolo lontano o nascosto, per uccidersi. Qualcuno ci provava con i gas di scarico; altri inalavano i fumi tossici di barbecue portatili a carbone. Ma il metodo in assoluto più diffuso era l’impiccagione. Molti aspiranti suicidi arrivavano con tende e provviste, come se avessero bisogno di una notte o due per contemplare quello che stavano per fare, prima di metterlo in atto. Ogni anno la polizia locale e molti volontari passano al setaccio la foresta per recuperare i corpi di chi ha deciso di venirci a morire. L’ultima volta – a fine novembre – abbiamo trovato i resti di venti persone. La maggior parte di loro non è mai stata identificata.

Per i disperati che vengono qui è ormai diventata pratica comune portarsi appresso del nastro da usare come segnalazione per ritrovare la strada del ritorno nel caso cambiassero idea oppure, com’è più frequente, per indicare la posizione del loro futuro cadavere. Altri lo usano per scopi più nefandi: turisti dell’orrore che sperano di incappare in qualche cadavere ma non vogliono correre il rischio di perdersi.

Mi offrii volontario per avventurarmi nella foresta a piedi, e con quello in mente cercai prima di tutto eventuali segni di nastro adesivo nuovo attorno ai tronchi degli alberi. Non temevo di perdermi. Conoscevo il bosco e non mi ero mai smarrito. Mi spiace se può sembrare stravagante, ma dopo aver fatto questo lavoro per venticinque anni è diventato parte di me. Però la foresta è una calamita per storie e leggende, e la gente crede a quello cui vuole credere.

Quando ti ci inoltri, la foresta ti accoglie. Le cime degli alberi formano una volta che ondeggia dolcemente ed esclude il mondo esterno. Ad alcuni il silenzio e l’immobilità della foresta appaiono minacciosi, ma non a me. Non ho niente da temere dagli spiriti dei morti. Circola la voce che questo fosse un luogo deputato per l’ubasute, la pratica di abbandonare gli anziani o i malati a morire, in tempi di carestia. Ma è priva di fondamento. Un’altra delle innumerevoli leggende che circondano la foresta. In molti sono convinti che gli spiriti si sentano soli e cerchino di attirare a sé le persone. Credono che sia per questo che la foresta attira tanta gente.

Non vidi cadere l’aereo: come dicevo, la volta di rami della foresta nasconde il cielo, però lo sentii. Una serie di esplosioni soffocate, come gigantesche porte che sbattevano. Cosa avevo pensato che fossero? Credo di averle scambiate per tuoni lontani, anche se non era stagione di temporali o tifoni. Ero troppo concentrato a scrutare fra le ombre, gli avvallamenti e i rilievi della foresta alla ricerca di tracce del passaggio del ragazzo, per preoccuparmene più di tanto.

Ero sul punto di arrendermi quando la mia radio crepitò e Sato-san, uno dei miei colleghi, mi avvertì che un aereo aveva deviato dalla sua rotta e si era schiantato da qualche parte vicino alla foresta, probabilmente nella zona di Narusawa. A quel punto capii che doveva essere quella l’origine delle esplosioni di prima.

Sato mi disse che i soccorsi erano per strada e che lui stava organizzando una spedizione di ricerca. Sembrava affannato, profondamente scosso. Sapeva bene quanto me quali difficoltà avrebbero incontrato i soccorsi per raggiungere il luogo dell’incidente. In certe zone della foresta il terreno è quasi impossibile da percorrere, con profondi crepacci invisibili che lo rendono molto pericoloso.

Decisi di andare a nord, nella direzione da cui erano venute le esplosioni. Nel giro di un’ora cominciai a sentire il rombo degli elicotteri che sorvolavano gli alberi. Sapevo che non avrebbero trovato spiazzi per l’atterraggio, così proseguii con rinnovata lena. Se c’erano dei superstiti, andavano raggiunti con la massima urgenza. Dopo due ore di marcia cominciai a sentire l’odore di fumo: gli alberi avevano preso fuoco in diversi punti, ma per fortuna l’incendio non si era propagato e i rami mandavano gli ultimi bagliori mentre le fiamme si spegnevano da sole. Qualcosa mi spinse a dirigere verso l’alto il fascio della mia torcia, che illuminò una piccola sagoma che penzolava da un ramo. Sulle prime pensai alla carcassa carbonizzata di una scimmia.

Non lo era.

Ce n’erano altre, ovviamente. La notte era animata dai rumori dei soccorsi e degli elicotteri della stampa che, sorvolandomi in cerchio, illuminavano con i loro riflettori innumerevoli forme immobili imprigionate fra i rami. Di alcune riuscii a distinguere i minimi dettagli; non sembravano neppure malridotte, quasi come se dormissero. Altri… Altri non erano stati altrettanto fortunati. Tutti erano coperti solo parzialmente da brandelli di vestito, o addirittura nudi.

Mi arrangiai come potevo per raggiungere quello che ormai è noto come il luogo dello schianto, dove sono state rinvenute la coda e l’ala spezzata. I soccorritori venivano calati dagli elicotteri, impossibilitati ad atterrare sul terreno irregolare e infido.

Mi sembrò stranissimo avvicinarmi alla coda dell’aereo. Torreggiava su di me, l’orgoglioso logo rosso innaturalmente intatto. Corsi a raggiungere una coppia di paramedici aviotrasportati impegnati a soccorrere una donna distesa a terra che gemeva; non riuscivo a vedere la gravità delle sue ferite, ma non ho mai sentito un lamento come quello provenire da un essere umano. Fu allora che con la coda dell’occhio colsi il lampo di un movimento. C’erano alcuni alberi ancora in fiamme e alla luce del fuoco vidi una minuscola sagoma rannicchiata, parzialmente nascosta da un ammasso contorto di roccia vulcanica. Corsi in quella direzione e il fascio della mia torcia illuminò per un attimo un paio d’occhi. Lasciai cadere lo zaino e corsi più in fretta di quanto avessi mai fatto prima o abbia più fatto in seguito.

Avvicinandomi mi resi conto di avere davanti una sagoma infantile. Un bambino.

Era accoccolato, tremava violentemente, e notai che una delle spalle sporgeva con un’angolazione innaturale. Gridai ai paramedici di venire subito, ma non riuscirono a sentirmi per via del rombo degli elicotteri.

Cosa gli dissi? Difficile ricordarlo con precisione, ma dev’essere stato qualcosa come: « Stai bene? Sono qui per aiutarti ».

Lo strato di sangue e fango che lo ricopriva era così spesso che all’inizio non mi accorsi neppure che era nudo, solo in seguito mi dissero che la forza dell’esplosione gli aveva strappato di dosso i vestiti. Allungai la mano per toccarlo. Era gelato, ma che altro ci si poteva aspettare? La temperatura era sottozero.

Non mi vergogno ad ammettere di avere pianto.

Gli avvolsi attorno la mia giacca e, con tutta la cura possibile, lo presi in braccio. Lui mi posò la testa sulla spalla e sussurrò: « Tre ». O almeno così mi sembrò di sentire. Gli chiesi di ripetere quello che aveva detto, ma a quel punto aveva già chiuso gli occhi, la bocca allentata come se dormisse profondamente, e comunque la mia preoccupazione principale era portarlo in salvo e tenerlo caldo prima che sopravvenisse l’ipotermia.

Naturalmente adesso tutti mi chiedono: ti sembrava che quel bambino avesse qualcosa di strano? Certo che no! Aveva appena subito un’esperienza terribile, e quelli che vedevo erano i segni dello shock.

E non sono d’accordo con quello che alcuni dicono di lui. Che è posseduto dagli spiriti maligni, forse quelli dei passeggeri morti, invidiosi di lui perché è sopravvissuto. C’è chi dice che custodisca nel cuore i loro spiriti rabbiosi. E neppure do credito ad altre storie che circondano la tragedia: che il pilota aveva istinti suicidi, che è stata la foresta ad attirarlo a sé, altrimenti perché schiantarsi proprio a Jukei? Storie del genere non fanno che accumulare altro dolore dove ce n’è più che a sufficienza. A me sembra ovvio che il comandante abbia cercato di dirigere l’aereo che stava precipitando in una zona non popolata. Aveva pochi minuti per agire, e ha fatto la scelta più nobile.

E com’è possibile che un bambino giapponese sia ciò che dicono quegli americani? È un miracolo, quel bambino. Lo ricorderò per il resto dei miei giorni.

(continua in libreria…)

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