Al centro di “Selenide”, raccolta di racconti d’esordio di Marta Cristofanini, c’è Luna, una ragazza impalpabile ed enigmatica – Su ilLibraio.it un estratto
Nata a Genova, metà ligure e metà sarda, Marta Cristofanini è al debutto con la raccolta di racconti Selenide (Racconti edizioni): al centro del libro, una ragazza impalpabile ed enigmatica, Luna. Coraggiosa, comprensiva, curiosa, la protagonista è sempre fuggevole: più la guardiamo e meno sapremmo dire dove si trovi o dove sia diretta. Quello che sappiamo di lei arriva per rifrazione, attraverso le vite passate e future, possibili e impossibili, delle persone che per desiderio, caso o necessità le hanno gravitato attorno: la famiglia, costretta a contemplare i suoi enigmi e ad accettarne le fughe e la scomparsa. Le amiche di infanzia, che ritualmente si ritrovano a ricordare il suo sottrarsi. Le compagne d’università, che fugacemente ne hanno osservato la scia e lo scintillio, come di una cometa destinata a tornare solo in una prossima vita.
L’autrice, laureata in Filosofia e Scienze Cognitive, ha pubblicato racconti per diverse riviste. Oggi si occupa di comunicazione e design conversazionale. Scrivendo su L’Oca e partecipando a un laboratorio autogestito di teatrodanza continua a coltivare la sua passione per il teatro e le arti performative.
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Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
La prima cosa a cui ho pensato dopo averla vista è stata la lampada.
Ero riuscita a piazzarla nella stanza degli ospiti, sopra un mobile di legno laccato di rosso a doppia scaffalatura. Con Zeno ci avevamo sistemato tutte le videocassette e i dvd accumulati durante gli anni del liceo e dell’università. Raramente li guardavamo: nella casa nuova non avevamo neanche più un videoregistratore o un lettore dvd, a dirla tutta, ma ci dispiaceva lo stesso buttarli via o provare a rivenderli. Rappresentavano qualcosa, anche se cosa esattamente non lo ricordavamo più.
La sua postazione, della lampada intendo, in realtà avrebbe dovuto essere all’ingresso o al massimo nel salotto di un appartamento con due camere da letto confinanti. Le porte delle camere sarebbero state una accanto all’altra, due porte gemelle, come quelle degli studentati; appoggiato al muro che le avrebbe divise ci sarebbe stato un comò, e sopra il comò la lampada. L’essenziale, avevamo deciso, era che l’avremmo lasciata accesa nel caso in cui una delle due non fosse stata in casa al rientro o al risveglio dell’altra. Un modo per dire Hey, anche se non ci sono, la lanterna magica fa le sue fantasmagorie e ti tiene compagnia come se ci fossi. Sarebbe stato un segnale. Ce l’eravamo proprio immaginata bene, quella storia della lampada accesa che ci avvisava se eravamo sole e che ci avrebbe dato comunque l’impressione di non esserlo. Su questo non avevamo nulla da obiettare, e al diavolo le bollette.
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Ora però la lampada era in un’altra casa, una casa reale, quella mia e di Zeno, ed era come se fosse stata rubata. Non avevo pensato di metterla all’ingresso, anche se l’idea mi era balenata in mente, a un certo punto, quando durante il trasloco mi ero fermata proprio lì sulla soglia, circondata dagli scatoloni autografati dalle nostre iniziali puntate e bagno e cucina e libri. L’odore di pittura nuova alle pareti mi bruciava le narici. Ho fissato l’angolo tra la parete e la mensola in muratura: avremmo potuto metterci un tavolino dove appoggiare al volo cose inutili ed essenziali, come le chiavi di casa, il tabacco, i fazzoletti, la borsa della spesa, il foglietto con su scritto la password del wi-fi. Dove appoggiare la lampada, insomma. Ma il pensiero si era smaterializzato nel momento stesso in cui Zeno, inciampando su Pascià, aveva rovesciato un’intera scatola di stoviglie per terra. Si erano sparpagliate come pugnali da ninja scivolando in ogni direzione sul pavimento e Pascià dallo spavento aveva emesso un miagolio lungo e lugubre da far drizzare i capelli, sparendo in un balzo lungo la tromba delle scale.
Quel pomeriggio per tutto il nuovo vicinato avevamo appeso dei fogli A4 con sopra stampata una sua foto. Una scritta in grassetto diceva più o meno così: « SCOMPARSO! Pascià ha un occhio azzurro e uno verde, pelo medio lungo, è bianco con macchie nere e rosse, leggermente sovrappeso, se lo vedete chiamateci al… ». Eravamo indecisi se accennare o meno a una ricompensa. Decidemmo di affidarci alla buona volontà delle persone. Alla fine ci aveva chiamato un’anziana che abitava a pochi isolati da noi: dopo tre giorni, se lo era ritrovato nel giardino di casa, che dava energiche lappate alla ciotola del suo bassotto miagolando forte per lo scontento.
Così, quando nella clinica ho visto sullo schermo della televisione la foto ingrandita di Luna che faceva da sfondo alla giornalista bionda con la piega appena rifatta, ho pensato prima alla lampada, poi alle foto di Pascià appese ai cancelli e ai pali della luce. Dopo averlo ritrovato ci eravamo dimenticati di toglierle ed era bastata una giornata di pioggia per trasformare le immagini in un’irriconoscibile poltiglia.
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Di fianco a me mio padre ha fatto all’improvviso un rantolo strano, una specie di risucchio di gola a metà strada tra un’esclamazione e un singhiozzo, mentre tremando sulla sedia a rotelle fissata a terra splancava gli occhi su quelli di Luna senza sbattere le ciglia, forse inconsciamente per somigliare all’espressione pietrificata della foto. Non ricordavo di avergliela mai presentata; ma quel barlume di riconoscimento nei confronti di qualcuno o qualcosa non glielo vedevo in faccia da un pezzo. Rimasi imbambolata più a lungo del necessario, con lo yogurt in una mano e il cucchiaino nell’altra. Papà aveva la bocca mezza aperta e del liquido gli scendeva gocciolando dal mento al bavaglino. Un’OSS si è avvicinata e mi ha posato con delicatezza una mano sulla spalla, profumava di pesca, mi ha chiesto Continuo io? Le ho fatto di sì con la testa, poi sono tornata a guardare il telegiornale appena in tempo per vedere l’immagine segnaletica di Luna – da quando aveva cominciato a portare i capelli così corti? – sostituita in sovrimpressione da un servizio sul raduno nazionale dei barboncini. Sono creature molto intelligenti e vivaci, diceva una signora lasciandosi leccare le labbra da un barbone di taglia media color cacao. Poi gli ha detto con voce imperiosa Seduto! Lui ha eseguito e lei gli ha dato ridendo un biscotto. Quando ho riportato lo sguardo su mio padre, la testa gli ciondolava abbassata sul petto. L’OSS che profumava di pesca stava cercando di sfilargli via il bavaglino dal collo senza svegliarlo.
Avevo ancora il suo numero. Una volta tornata a casa dall’ufficio, mi sono precipitata nella camera degli ospiti e mi sono seduta sul divano davanti al mobile laccato come se stessi fronteggiando l’aula di un tribunale. Le giornate si erano fatte più corte e alle sei e mezza di sera, senza la luce accesa, la stanza sembrava immersa in una polvere grigia, cimiteriale. Scorrendo la rubrica sul telefono, mi sono ritrovata davanti il suo nome. L’ho fissato. L’ho fissato ancora. Ho provato a chiamare: spento o non raggiungibile. Ho lanciato il telefono dall’altra parte del divano, ripetendomi che ero una cretina anche solo ad averci provato.
Zeno rientrò circa un’ora dopo e affacciandosi sulla soglia della stanza mi ritrovò nella stessa posizione nella quale mi ero seduta: attorcigliata su me stessa, al buio. Quando mi ha chiesto che cosa stava succedendo, gli ho raccontato quello che avevo visto sul Tg regionale all’ora di pranzo.
(continua in libreria…)
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