“Il primo giorno d’autunno al mondo è una fiaba, una favola: niente di meno scorrevole, bambino e crudele…”. Stefano Costa racconta su ilLibraio.it il suo primo romanzo

L’immaginario che sta dietro a Il primo giorno d’autunno al mondo nasce da uno “scarto semantico”. Se voglio metter paura a mia mia figlia (di tre anni) non posso dirle che dietro la porta è nascosto suo fratello (di sei): devo dirle che là è nascosto il lupo nero. Se mia figlia e io fossimo due lupi, o due uomini-lupo, dovrei dirle che dietro quella porta c’è un diavolo.

Devo uscire io, e far uscire lei, dalla semantica che perimetra la sua vita di bambina.

Nella profondità di questo scarto c’è il mondo che indago.

Dunque sono sempre stato influenzato da opere che trovano in questo scarto semantico almeno uno dei loro centri. E lo scarto semantico è anche, prima di tutto, per me, immaginifico.

Penso a Visconte, Barone e Cavaliere di Calvino ma anche alle sue Città; all’opera sudamericana quando piegata al viaggio di un Adán Buenosayres o al Paradiso di Lezama Lima o al Kafka che viaggia insieme a Cortázar ne Il viaggio premio: ma sempre controllato dall’abisso che mi deriva dal fronte-Lukács. Un fronte che combatte dentro di me, nel suo irrimediabile salto sull’orizzonte dell’inconoscibile, nella sua sconfitta, contro la gratuità dell’idea e dell’immagine fine a se stessa.

È il medesimo scarto che agisce in fiabe e favole (penso a Baum, alle Macchiette di Collodi, a B. Potter e ai suoi animali, ad Andersen e ai Grimm, e alle italiane einaudiane: per dire delle prime che mi vengono in mente); persino nelle Scritture, là dove il dispiegarsi degli eventi scorre su un nastro che non ammette neppure contestualizzazioni: che esula dalla sua stessa contestualizzazione. È il medesimo scarto dei Vangeli, anche apocrifi: così se leggo di Maria ragazzina che viene nutrita nel Tempio, ecco che a me rimane l’immagine di Lei che viene nutrita dalla mano di un angelo.

In questo gesto – che è in un colpo dare e ricevere – c’è la solitudine del mio romanzo: l’ultimo respiro (non necessariamente la morte) di cui fa esperienza chi è comunque attorniato da amore, prima che la vita prenda una direzione differente da quella che ha avuto sino a quel momento. In questa solitudine, contornata da persone, da vita, sta la radice in me di opere come Barnabo delle montagne: la solitudine del gesto avulso da un orizzonte sociale. Del Tamburo di latta mi restano le anguille sulla sabbia e quel senso di errore che non sarebbe dato, come esperienza al lettore, se il tamburino fosse stato un “essere umano” non paragonabile al Boine de Il peccato – per solitudine e capacità a catalizzare immagini che stanno già in esso e non in ciò che esso compie.

Stefano Costa

Stefano Costa

La solitudine è quella che si respira in mezzo a chi ci ama, l’ultimo respiro è quello di chi dopo un attimo vede il suo orizzonte mutare: esistono esseri viventi che in questo momento in cui scrivo potrebbero essere sul punto di dare la vita per noi (per me e per te che stai leggendo), ed entrambi potremmo non sapere nulla di questo sacrificio, o addirittura soffrirlo secondo un significato distorto, malevolo. È, per me, la collettività dei cavallereschi e del loro tempo dilatato.

È un immaginario tripartito, quello di questo romanzo. La prima parte è costruita su un “io”, appunto, collettivo: due gruppi di animali si scontrano per salvare o sprofondare l’umanità. La seconda narra dell’ultimo periodo di vita di un uomo, che ne fa esperienza a ritroso. La terza torna a un “io” collettivo: ma sono uomini e donne e streghe e diavoli a narrare la loro vicinanza a quell’uomo, di nome Driano. È la stessa storia narrata da tre punti di vista differenti.

Sono tre mondi che si incastrano solo sfiorandosi, nell’incomunicabilità di un certo filone ligure, che da Sbarbaro va Roccatagliata Ceccardi, per esempio, e a quella forma di sconfitta che è nella Visione di Giuseppe: quando lui, secondo il Protovangelo di Giacomo, esce dalla grotta e va a cercare una levatrice che aiuti Maria, e tutto si ferma, e gli animali si fermano e in quell’attimo sta il significato della sua esistenza.

Tutto, in questo immaginario, è conchiuso. Ogni immagine scorre tanto più in velocità quanto più si procede nella lettura senza soffermarsi su ogni singola parola, ma vivendo ogni parola senza chiedersi se essa ritornerà.

In quest’ottica, il mio immaginario, si sarà capito, non nasce dal presente e dall’attualità – ai quali resto impermeabile, per quanto mi sia dato poterlo fare – ma va a lavorare su un bestiario solo nel momento in cui i suoi mostri sono i miei, e dicono e non sono sostituibili da altre soluzioni.

Il primo giorno d’autunno al mondo è una fiaba, una favola: niente di meno scorrevole, bambino e crudele.

il primo giorno di autunno al mondo stefano costa

IL LIBRO E L’AUTORE – Nella sua abitazione sulle colline dell’Oltrepò pavese, assediato dalla preoccupazione per la vendita della casa natìa, Driano è relegato su una sedia a rotelle in attesa di esalare l’ultimo respiro. Driano è un uomo da anni chiuso in un male oscuro, incomunicabile. Quando ancora riusciva a muoversi ha salvato dalla morte una talpa e, nel culmine della propria disperazione, le ha chiesto di estinguere la razza umana. Ora nell’ombra della terra, tra le fronde degli alberi, nell’azzurro del cielo, la talpa ha radunato un esercito – volpe, barbagianni, capra, pipistrello, pavone – e si leva per combattere quella battaglia. Ma altri animali hanno scelto di unirsi per fronteggiare le orde degli sterminatori e salvare gli umani – gabbiano, gallo, lupo, gatto, gazza, riccio. Ne verrà uno scontro epico che potrà avere termine solo con la morte degli uni e la vittoria degli altri.

Stefano Costa, classe ’82, editor e redattore, al suo esordio letteraio con Il primo giorno d’autunno al mondo, dà vita a una favola inquietante di uomini e bestie, in cui la magia e la violenza della natura convivono con la dolorosa solitudine dell’esistenza, un romanzo che ci racconta un microcosmo di incomprensione e isolamento, a un passo dalla distruzione.

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