“La parola ‘detransizione’ riguarda tutto ciò che comporta impegnarsi per cambiare se stessi, e io stessa, in quanto donna trans, imparo tanto da tutte le altre donne che si impegnano in qualsiasi aspetto della vita, quanto da circostanze strettamente trans…”. Maternità, famiglia e, soprattutto, femminilità: “Detransition, baby”, romanzo di Torrey Peters, mette al centro le donne, transgender e non, alla ricerca della loro realizzazione, sullo sfondo di una New York in declino – L’intervista

Reese ha quasi 35 anni e sente sempre più forte il richiamo della maternità, l’unico modo che pensa possa permetterle realizzarsi come donna.

Reese è una donna transgender e la sua ultima relazione con la compagna Amy, anch’essa transgender, si è conclusa qualche anno prima con la sua detransizione, cioè l’inversione del processo di transizione di genere che aveva inizialmente intrapreso. Amy, ora Ames, nel frattempo ha messo incinta la sua capa Katherine, da poco divorziata. Sarà possibile mettere d’accordo i desideri di tutti e tre, dando avvio a una famiglia non-tradizionale per crescere insieme un figlio?

Quella innescata dalla scrittrice statunitense Torrey Peters (classe 1981) è una potente rivoluzione letteraria, che ha costretto gli Stati Uniti e il resto del mondo a scardinare le proprie convinzioni in fatto di maternità, famiglia, e soprattutto femminilità: Detransition, baby, vincitore del PEN/Hemingway Award 2021 per il miglior romanzo d’esordio e finalista al National Book Critics Circle Award, è stato tradotto per Mondadori Oscar Vault da Chiara Reali, con la consulenza di Antonia Caruso.

L’autrice ha spiegato in un alcune interviste di aver iniziato a scrivere il romanzo qualche anno fa, in un periodo di insoddisfazione dei suoi 30 anni, distante da dove si immaginava di arrivare. ilLibraio.it l’ha intervistata per approfondire i temi del suo romanzo.

In un mondo che spesso non accetta e capisce la transizione di genere, il concetto di detransizione non rischia di essere controverso? Perché proprio questo titolo?
“Il concetto di ‘detransizione’ è controverso solo perché i bigotti lo hanno strumentalizzato, e perché dovrei fargliela passare liscia? Per poter fare una detransizione, bisogna aver fatto una transizione prima, perciò non appartiene a nessuno che non abbia prima transizionato. Dovremmo riuscire a rimuovere lo stigma, e parlarne apertamente. Dato che gran parte delle persone che detransizionano lo fanno perché la vita da persona trans è difficile, e non perché hanno fatto errori in merito al proprio genere. E, in secondo luogo, anche se una persona si fosse sbagliata, che problema c’è? Le persone rimpiangono qualsiasi cosa e non le mettiamo al bando! Le persone si arruolano e vengono uccise. Si spostano per il mondo per lavori che non funzionano. Non mettiamo al bando nessuna di quelle cose che possono rovinare la tua vita (o addirittura ucciderti), anche più che fare una transizione. Allora perché le persone diventano così pretenziose e sciocche in merito a pentirsi sul proprio genere? Questo è un libro per adulti. Trattatelo da adulti”. 

Le protagoniste, tutte tra i trentacinque e i quarant’anni, tornano ad affrontare le proprie aspettative sulla vita, come ha fatto per esempio Katherine, in quanto esempio di donna cis divorziata, categoria a cui lei dedica il libro. Si può usare la parola “detransizione” anche con questo significato?
“Sì, mi fa piacere che lei veda che le transizioni di tutti i tipi hanno molto in comune, che sia divorziare, diventare genitori, o sposarsi. La parola ‘detransizione’ riguarda tutto ciò che comporta impegnarsi per cambiare se stessi, e io stessa, in quanto donna trans, imparo tanto da tutte le altre donne che si impegnano in qualsiasi aspetto della vita, quanto da circostanze strettamente trans”.

Come Sex and the city e Girls (entrambi riferimenti nel libro) negli scorsi decenni, le sue protagoniste aiutano a capire meglio le vite delle donne, soprattutto la maternità e il sesso. Entrambe le serie hanno ricevuto critiche in merito al privilegio bianco e privilegio in generale. Pensa possa essere il caso anche del suo libro?
“Certo, essere trans non mi esonera dal privilegio, ma ritengo anche che il concetto di privilegio non sia più interessante o utile per contestualizzare queste domande. La parola stessa è stata svuotata. Il punto, per me, è come segnalare che esistono altre storie oltre alla mia. Per me è necessario essere specifici – non credo di avere la posizione per parlare di vite nere o latine, perciò possiamo riconoscerne l’assenza e decidere di leggere un altro libro. Potrebbe risultare sconvolgente, ma si può leggere più di un libro scritto da persone trans. Se cerchi una storia trans nera, leggi una storia trans nera”.

Cosa rende la città di New York ancora così importante per queste narrazioni?
“Non sono sicura che lo sia. New York attraversa periodi di ascesa e declino e, onestamente, vivendo qui ora, mi chiedo se sia una città in declino”.

Gli uomini non trovano molto spazio nel libro. Che cosa pensa del ruolo della mascolinità? È  ancora rilevante?
“Sì. Mi interessa molto la mascolinità, ma, ecco, io scrivo un libro alla volta, e questo riguardava la maternità”. 

La sua lingua comprende molti termini di psicologia. Parole come trauma, dissociazione, risposta e così via, ricorrono molto spesso per caratterizzare i personaggi. Questo occhio “clinico” è voluto?
“Penso che sia proprio come le persone parlano oggi. Non usare parole come ‘gaslighting’ o trauma significherebbe scrivere dei personaggi che parlano in modo diverso dalla vita reale. Perché essere artificiali e fingere che le persone non parlino in modo fastidioso o artificiale, o appunto in modo clinico, quando ovviamente il milieu di cui scrivo parla effettivamente in quel modo?”.

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