“Le stazioni della luna” di Ubah Cristina Ali Farah è una potente dimostrazione di come la letteratura sia uno ponte fondamentale verso la convivenza civile. L’autrice, nata a Verona da padre somalo e madre italiana e cresciuta a Mogadiscio, nel romanzo racconta un pezzo di storia complesso, quando l’Italia negli anni Cinquanta è stata incaricata di amministrare il territorio somalo in vista dell’indipendenza… – L’approfondimento

Non è solo il bianco fulgido di Mogadiscio ad accogliere Clara al suo arrivo: scendendo dalla nave ritrova l’odore di salsedine, la confusione colorata, il piacere un po’ infantile di mettere i piedi nudi nella sabbia, e il volto di Haajiya, la suora con cui è cresciuta nel convento del Sacro Cuore. Quello di Clara in realtà non è un arrivo, è un ritorno a casa: dieci anni prima, l’entrata in guerra dell’Italia e l’invasione inglese avevano costretto la sua famiglia a scappare su una nave ospedale, lasciando tutto, i loro beni, i loro amici, la loro vita.

Copertina del libro Le stazioni della luna

Le stazioni della luna di Ubah Cristina Ali Farah (66thand2nd) racconta un pezzo di storia complesso, quando l’Italia negli anni Cinquanta è stata incaricata di amministrare il territorio somalo in vista dell’indipendenza. Uno scenario storico che l’autrice, nata a Verona da padre somalo e madre italiana e cresciuta a Mogadiscio, fa vivere con efficacia e senza ideologie in una storia viva che parla di relazioni più che di politica.

Mogadiscio è la città natale di Clara e ritornarci per insegnare come maestra è un’emozione mista di orgoglio e amore, che si unisce alla sensazione di non essere mai partita. L’ha preceduta il fratello Enrico, agronomo a Genale, che ha costruito una sua rete di contatti e frequentazioni, italiane e fasciste.

Clara è diversa dai suoi connazionali, parla benissimo il somalo, e il suo cuore batte in sintonia con quello della sua mamma di latte, Ebla, una donna forte sfuggita a un destino di sottomissione, moglie per amore del camionista poeta Gacaliye. Ebla se l’è attaccata al seno, insieme alla sua Sagal, con la semplicità di una madre e costruendo con quel contatto naturale e compassionevole un’unione eterna.

“Non tutti i bambini sono uguali. Io ho visto Clara, sin da piccola, come una pozza d’acqua limpida dove si bagnano rami carichi di frutta e fringuelli smeraldo scendono per abbeverarsi. Come un albero rigoglioso di foglie e fiori in una valle prospera attraversata da un ruscello che mai si prosciuga, un albero che non perde i suoi colori vividi durante la siccità.”

È così, con il cuore e non con i documenti, che Clara, la pelle diafana e i capelli rossi, riconosce nella Somalia la sua patria, perché la sua affezione si è piantata come un seme nella terra di quel paese, mentre lei si attaccava al seno di Ebla. Nel ritorno a Mogadiscio, Clara sente per istinto di aver ritrovato una parte di sé, quella più intima e preziosa, costruita sugli affetti e sul rispetto.

Clara si sente lontana dal mondo del fratello, così orgoglioso del suo contributo da italiano, e vicina alla sua Ebla, e al ricordo di un aquilone nell’aria, il segnale per incontrarsi di nascosto con i figli di lei, Sagal e Kaahiye. Nel suo ruolo di maestra si chiede se i bambini somali e italiani riusciranno finalmente a giocare insieme, come a lei dieci anni prima non era concesso.

“Tempo ed esperienza le avevano insegnato a riconoscere l’ingiustizia ed era tornata nella sua città per porvi riparo. Avrebbe insegnato ai bambini somali a leggere e scrivere, perché anche loro avessero le stesse opportunità di quelli italiani.”

L’Italia in Somalia che negli anni Cinquanta non è diversa da quella di prima. Non tutti i somali sono a favore dell’amministrazione fiduciaria della quale è incaricata: c’è diffidenza e separazione, sono due società diverse, che non sanno tradurre i propri vocabolari, dove i processi di integrazione impongono nomi italiani alle strade, e creano solo frattura. In questo clima instabile la Lega dei Giovani Somali mira a ristabilire l’autonomia, firmando una stagione di tumulti e insurrezione, nella quale anche Clara si troverà coinvolta.

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Ebla e Clara sono personaggi potenti, donne fiere, capaci di rivendicare la loro indipendenza: con gli assoli di Ebla, e la vicenda di Clara, l’autrice racconta donne che sono a loro modo metafore di un paese che non ha mai accettato la sottomissione e ha lottato per la sua libertà.

Ebla, che ha imparato dal padre il linguaggio delle stelle, sa che i corpi celesti non fanno distinzioni tra uomini e donne, e con la saggezza che guarda il cielo ma conosce anche la virtù della terra, segue il destino dei suoi figli. La sua è una storia di affermazione e di dignità, è la storia di una guerriera che rivendica per sé un ruolo da protagonista, che non si esaurisce nei suoi compiti ma tiene conto anche dei suoi desideri, e afferma che “una lotta di soli uomini è una lotta destinata a fallire”.

La scrittura di Ubah Cristina Ali Farah tradisce il suo animo di poetessa: la sua è una penna seducente, che regala descrizioni che incantano e immagini vibranti di luci, ombre e colori. L’autrice attinge anche ai racconti tradizionali, mai con intento folcloristico, ma come mezzo di conoscenza e di comprensione che superi il presente e stabilisca un dialogo. Alla fine quello che conta è la relazione, il riconoscimento dell’altro, che solo la narrazione e il linguaggio possono costruire: per questo Le stazioni della luna è una potente dimostrazione di come la letteratura sia uno ponte fondamentale verso la convivenza civile.

“Nelle pozzanghere d’acqua si danno convegno nugoli di piccole farfalle verde chiaro: sembrano enormi boccioli dai petali palpitanti. Tutti sorridono e le ragazze indossano abiti nuovi, rossi, blu e oro, mentre gli uomini portano disinvolti le loro toghe di un bianco brillante”.

 

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