A ispirare l’intenso “Una mattina di ottobre”, il romanzo di Virginia Baily, è stata la lettura di “16 ottobre 1943”, “lo splendido libro di Giacomo Debenedetti” – Su ilLibraio.it un capitolo dal caso editoriale in Inghilterra

L’alba color acciaio è fredda come la pioggia sottile che si deposita silenziosa tra i suoi capelli e le scivola lungo il collo. Chiara Ravello però ha smesso di farci caso nell’istante in cui si è inoltrata nel quartiere ebraico. Ha come la sensazione che quei vicoli siano stati svuotati di vita e non rimanga che l’eco di una sofferenza muta. Quando sbuca in una piazza, Chiara vede un camion sul quale sono ammassate diverse persone. Tra di esse, nota una madre seduta accanto al figlio. Le due donne si fissano per alcuni secondi. Non si scambiano nemmeno una parola, basta quello sguardo. Chiara capisce e, all’improvviso, incurante del pericolo, inizia a gridare che quel bambino è suo nipote. Con sua grande sorpresa, i soldati fanno scendere il piccolo e mettono in moto il camion, lasciandoli soli, mano nella mano.

Sono passati trent’anni dal rastrellamento del ghetto di Roma, e all’apparenza Chiara conduce un’esistenza felice. Abita in un bell’appartamento in centro, ha un lavoro che ama, è circondata da amici sinceri. Tuttavia su di lei grava il peso del rimpianto per quanto accaduto con Daniele, il bambino che ha cresciuto come se fosse suo e che poi, una volta adulto, è svanito nel nulla, spezzandole il cuore. E, quando si presenta alla sua porta una ragazza che sostiene di essere la figlia di Daniele, Chiara si rende conto che è arrivato il momento di fare i conti con gli errori commessi, con le scelte sbagliate, con i segreti taciuti troppo a lungo. Perché solo affrontando il proprio passato potrà finalmente trovare la forza di riannodare i fili di quel legame stretto una fredda mattina di ottobre del 1943.

Ci sono istanti che decidono il nostro destino. Istanti in cui ci dimostriamo più forti o più deboli di quanto non immaginavamo. Eppure Una mattina di ottobre (Nord), il romanzo di Virginia Baily, ci ricorda che il vero coraggio risiede nel vivere giorno dopo giorno con le conseguenze delle nostre azioni. Perché se impariamo ad accettare il passato, il futuro sarà sempre un passo davanti a noi, prodigo di sorprese.

Ma com’è nata l’idea per questa storia? La Baily cita 16 ottobre 1943, “lo splendido libro di Giacomo Debenedetti, che descrive il rastrellamento degli ebrei nel ghetto di Roma raccontando le piccole storie della gente comune. Una in particolare mi ha colpito: una donna cerca di salvare un bambino, dicendo di essere sua madre. Il bambino, però, inizia a piangere e a urlare così forte che i soldati capiscono, e lo portano via. Ma cosa sarebbe successo se, quel giorno, quel bambino non avesse pianto? Ho deciso che quella era la storia che volevo raccontare. Di come tutto può cambiare in un istante, di come a volte la differenza tra la vita e la morte è appesa a un filo”.

Su ilLibraio.it un estratto

Gli abitanti del ghetto – vecchi, giovani, neonati in braccio ai genitori, gente con le stampelle, donne e bambini – si trascinano in un corteo quasi muto. Alcuni dei più piccoli piagnucolano e si lamentano (è quello che fanno tutti i bambini), ma i più grandicelli, quelli già capaci di parlare, non aprono bocca, così come gli adulti. Ci sono anche giovani come quello appena entrato nel bar, ma non molti.
«Dove sono gli uomini?» domanda Chiara.
Gennaro le si fa accanto. «Oggi distribuiscono le razioni di tabacco. Saranno andati a ritirare le sigarette», dice.
Lei gli rivolge un’occhiata di sottecchi. «Cosa?»
Lui ha un’aria grave sul volto. Strie di fuliggine gli si attardano ancora tra le rughe delle guance, accentuandone la fiacchezza, come se si fosse truccato per sembrare afflitto. Possibile che una vita duri quanto un pacchetto di sigarette? si chiede Chiara.
«Sì. Proprio così», dice Gennaro, come se lei avesse appena espresso a voce il suo pensiero.
Alcuni indossano ancora la biancheria da notte sotto i cappotti. Quasi tutti hanno un bagaglio o un fagotto sulle spalle. I soldati li spintonano con le canne dei fucili. Più in là, due ufficiali chiacchierano e fumano appoggiati al muro.
«Che ne faranno di loro?»
«Probabilmente li portano al Nord, in un campo di lavoro», risponde Gennaro.
«Bambini e vecchiette in un campo di lavoro?» gli fa eco Chiara.
Ma adesso Gennaro sta dicendo qualcosa sul fatto che sua madre lo aveva avvertito di non aprire un bar nel ghetto, e sul fatto che in precedenza quello era un banco dei pegni, e su chi sta per arrivare, e su come finirà in rovina e poi, a metà frase, all’improvviso si zittisce e rimane lì, l’imbarazzo dipinto sul volto. Quindi farfuglia di nuovo che, davvero, non aveva notato proprio niente di strano, prima. Poi fa un’altra pausa. «Un giorno torneranno: quando la guerra sarà finita», dice alla fine.
Rimangono a guardare finché la processione non si esaurisce. Oscillando e borbottando, Nonna Torta chiude la fila. Indossa ancora le pantofole e la camicia da notte con sopra il grembiule. Non ha bagaglio con sé.
Dall’altra parte della strada, i due ufficiali nazisti stanno ancora parlando, entrambi appoggiati contro il muro di pietra, così come lo stivale sinistro, in una simmetria inquietante e al tempo stesso consolatoria.
Gennaro scoppia in lacrime.
«Lo sapevi che dentro la credenza del deposito c’è una gatta affamata coi micini?» gli chiede Chiara.
«Una gatta? Le porterò un po’ di latte.» Tornato al bancone, si abbassa per rovistare. «Ho qui dei biscottini che potrebbero piacerle», dice prima di sparire nella stanza sul retro.
Chiara esce in strada e si unisce a un gruppetto di passanti. Si mette in coda, accanto a una donna coi capelli grigi arruffati che tiene entrambe le mani sulle guance, come per evitare di coprirsi gli occhi. Anche lei vuole vedere lo spettacolo per intero. Deve esserne testimone. Solo dopo averlo fatto, forse, potrà andarsene, potrà fare ritorno alla sua vita. Prendere la sorella, qualcosa da mangiare e qualche vestito, e lasciare la città per rifugiarsi in casa della nonna, tra i monti, nell’attesa che arrivino gli Alleati.
La sua mente vola via, fino alle pecore sul pascolo dietro la casa della nonna. Da sempre le sensazioni legate a quel campo – l’odore dell’erba e dell’origano selvatico che cresce nelle siepi; l’aria limpida, più frizzante e luminosa che a valle; la vista delle altre colline, di quel loro ondeggiare senza una direzione – hanno un che di rasserenante. Il lindore e la tranquillità delle colline: ecco tutto ciò che desidera.
Gli abitanti del ghetto sono stati radunati in un avvallamento sulla strada di fronte al Teatro di Marcello, dove il suolo è stato sterrato.
Da qualche altra parte, in direzione del fiume, giungono l’eco di urla e il crepitio di colpi d’arma da fuoco, ma questa gente, in attesa tra le colonne spezzate e in rovina, non emette un fiato.
I teloni sui lati dei camion sono stati tirati su e la folla ormai senza dimora viene fatta salire a bordo. Il vuoto tra i testimoni e gli ebrei rastrellati si sta ingigantendo. È come se lei li osservasse dall’altra sponda di un fiume gonfio.
Lo sguardo le cade su una famigliola sul retro di uno dei camion: sono riusciti a rimanere insieme. Con addosso camicia e cravatta, giacca e cappotto, il padre è bellissimo nella sua espressione assorta e severa. Ha la fronte alta, coperta però dai ricci ormai fradici. È il tipo d’uomo che potrebbe fumare la pipa, si dice Chiara: proprio come faceva suo padre. Ha tutta l’aria di potersela cacciare in bocca e aspirarla un po’, mentre soppesa una questione importante, per poi proferire sentenza. Il tipo d’uomo che non esprime valutazioni affrettate. Ora sta cercando il modo di essere il punto di riferimento della famiglia, di mantenere una certa dignità. Tiene in braccio una piccolina dai capelli ricci, paffuta in viso, con piccoli polsi grassocci che sporgono dal cappottino su cui spiccano grandi bottoni; gli occhi le brillano come se stesse vivendo un’avventura. Tra il marito e la moglie c’è un figlio più grande: avrà sette anni, forse otto. Stringe la manica del cappotto di sua madre.
È la donna a richiamare l’attenzione di Chiara. Regge a sua volta un frugoletto col muso imbronciato, quasi a imitare l’espressione degli adulti intorno a sé. La donna è vestita meglio di molti altri, lì, e dà l’impressione di aver scelto i suoi abiti con cura, e non di essersi messa la prima cosa capitatale sottomano subito prima di dover abbandonare in fretta e furia casa sua. Indossa orecchini di perle e un cappellino verde scuro. Il cappotto, dello stesso colore, è allacciato in vita. È vestita come per un addio.
Forse, quando alle quattro del mattino era scoppiato quel frastuono tremendo, invece di rifugiarsi impaurita nell’andito più isolato di casa sua, o di tirarsi il lenzuolo sulla testa, aveva avuto il coraggio di guardare fuori e aveva visto la furia scatenata dei nazisti. Quando il caos era sembrato cessare, piuttosto che tornarsene a letto pensando che fosse finita, aveva fatto sì che i suoi si alzassero e si vestissero. Aveva dato loro un po’ di pane e qualcosa di caldo da bere. Poi aveva preparato le valigie, una per ciascuno. Stavano per scappare, si dice Chiara, ma non sono stati abbastanza veloci.
Gli occhi della donna guizzano da un lato all’altro, scrutando la folla. Se il vuoto tra i curiosi e gli ebrei è ormai come un torrente, lei è ancora alla ricerca di un ponte, di una zattera, di un relitto cui appigliarsi.
Chiara la sta fissando, e lo sguardo inquieto della donna la trova. Senza distogliere gli occhi da quelli di Chiara, si china e stacca le dita del figlio dalla manica del suo cappotto, spingendolo via. Chiara guarda il bambino, poi di nuovo la donna, che non ha smesso di fissarla un attimo, e quindi ancora il bambino, che nel frattempo ha afferrato un altro lembo di stoffa. Chiara si concentra sulle dita della madre che allentano nuovamente la presa del figlio. Gli occhi di Chiara fanno la spola tra i due, ma la donna non lascia mai i suoi. Afferra il bambino per la spalla e gli dice qualcosa. Lui si discosta, le mani penzoloni lungo i fianchi. È ben vestito: pantaloncini grigi, calzettoni tirati su. Ha un ginocchio ricoperto di croste. È l’unico della famiglia coi capelli lisci.
Poi ecco che Chiara si fa strada verso il piccolo assembramento, ignorando una mano allungata fugacemente sul suo braccio per trattenerla. «Mio nipote! Quello è mio nipote!» grida, indicando il bambino.
«Questo bambino è tuo?» le chiede con un pesante accento tedesco il soldato che dirige le operazioni davanti al camion.
«Sì. È il figlio di mia sorella», risponde lei.
Il bambino barcolla sul bordo del camion, il volto tirato, lo sguardo intenso ma perso nel vuoto. È come uno scolaro esposto su uno sgabello al ludibrio dei compagni di classe.
«Aiutatelo a scendere. Vieni dalla zia, piccolo!» grida Chiara.
Incoraggiata dal suono della propria voce – stridula, materna, indignata – tiene testa al baccano che la attornia, tende le braccia per accogliere il bambino. Alcuni dei presenti s’inseriscono. «Datele il bambino!» e «Quella è sua zia!» e poi, da qualche parte, la voce di un uomo: «Quel bambino non è ebreo!»
Arriva un superiore del soldato e chiede a Chiara di mostrargli i documenti. Lei lo riconosce, è uno dei due che stavano contro il muro di fronte al bar di Gennaro. Mentre lui esamina i documenti, il bambino viene fatto scendere. È rigido, pesante. Lei lo mette a terra accanto a sé, lo avvicina di più, gli stringe la mano. Avverte tutta la sua tensione.
Chiara non guarda più la madre. Non vuole cogliere il minimo dubbio. Fissa invece il volto dell’ufficiale, magro e rasato, poi la visiera del suo berretto, la bocca della rivoltella, la mostrina sul colletto col teschio e con le ossa incrociate. Osserva il filo dorato sulla spallina, le cuciture che in certi punti hanno ceduto per essere goffamente rammendate con un filo di colore diverso. L’angolo di pelle bagnata tra le scapole ha un sobbalzo, come se si aspettasse un proiettile. Di sicuro la colpirà al cuore.
Fissando lo sguardo su un filo in particolare, dice: «Mia sorella è una sarta. Se l’avesse rammendata lei, non si vedrebbero nemmeno i punti».
Chiara sa bene che lui non la capisce. Sono solo parole buttate lì nel tentativo d’infrangere la bolla di silenzio calata su di loro come una cupola. Un grande senso di vuoto le riempie la testa, quasi fosse sul punto di svenire.
«Nubile», dice l’ufficiale, indicando la parola con la mano senza guanto.
«È il figlio di mia sorella», risponde lei.
Lui la guarda, poi osserva il bambino. Basterà il fatto che nei suoi documenti non figuri la dicitura di razza ebraica? Chiara non ha mai fatto il saluto fascista. Persino a scuola è riuscita a evitarlo sistematicamente, vantandosi di questo piccolo atto di tacita resistenza. Ora, però, si sta chiedendo se non sia giunto il momento, e se ciò possa in qualche maniera risolvere la questione.
Il camion viene messo in moto e il bambino al suo fianco si lascia sfuggire un grido: «Mamma!»
Chiara lo afferra premendoselo al petto.
Lui comincia a scalciare. «Mamma! Mamma!» urla senza posa.
Chiara non può far altro che trattenerlo. «Stai zitto o il soldato sparerà!» gli sibila in un orecchio, e lui si affloscia su di lei a peso morto. Poi, facendosi coraggio, domanda all’ufficiale: «Potrebbe restituirmi il documento, per favore? Devo riportarlo a casa».
Il conducente del secondo veicolo grida qualcosa. È pronto a partire. L’ufficiale delle SS rivolge un’occhiata al retro del camion. Passa in rassegna tutti gli occupanti. Poi si china e scompiglia i capelli al bambino. «Fai il bravo con la zia», dice, lasciando cadere i documenti di Chiara dentro la borsa di stoffa che le pende dalla spalla.
Con la coda dell’occhio, Chiara vede ancora la piccola valigia del bambino, lassù, in cima al camion, vicino al punto in cui si trovava lui poco prima. I suoi vestiti, qualche giocattolo, forse, o il libro della nanna. Le sue cose. E lei non può salvarle. Nemmeno una canottiera. Nemmeno una foto.
I camion si mettono in marcia.
Chiara è come stordita, con quel bambino pesante in braccio che le tiene premuto il viso contro il cappotto.
«Andate», dice l’ufficiale con uno sguardo che lei non capisce. Poi, a voce alta, rivolgendosi a tutta la gente accalcata sbraita: «Via, subito!» battendo le mani con un gesto teatrale. Lo spettacolo è finito.
Chiara si allontana più in fretta che può, il bambino avvinghiato al petto, inerte, coi piedi che a ogni passo le urtano sulle ginocchia. Chiedendosi se non lo abbia soffocato, procede verso il fiume e, al riparo dei platani, percorre con andatura incerta il Lungotevere. Una volta oltrepassato ponte Garibaldi, lo mette giù. Le ha lasciato una scia di muco sul cappotto.
«Voglio la mia mamma», dice.
Lei lo guarda. Piccolo, sprezzante. Orfano. Sentendo cedere le ginocchia, Chiara appoggia una mano sul parapetto. Per la prima volta nell’arco della mattinata il sole fa capolino, conferendo alle foglie sopra le loro teste un bagliore oro-arancio. In basso, un ramo spezzato passa ondeggiando sul fiume rigonfio. Chiara ritrova la calma. «Ti porto a casa mia», comincia a dire, ma poi s’interrompe e lo afferra per il vestito, perché lui ha appena cercato di tagliare la corda. Lei lo strattona e, accovacciandosi dietro di lui, gli immobilizza le braccia, per farlo stare zitto.
Dal bavero del suo cappotto sporge un’etichetta. Daniele Levi, legge Chiara alla rovescia. Deve sparire. Cinge forte il bambino tra le braccia, lì, sul marciapiede, tenendolo fermo. Poi stringe l’etichetta tra i denti e con uno scatto la strappa via.
Lungo tutto il tragitto fino a casa, Chiara è costretta a trascinare il ragazzino, che continua a scalciare e a gridare «Mamma», fino a rimanere senza voce. Se fosse questione di determinazione, forse riuscirebbe a fuggire: è risoluto almeno quanto lo è lei nel trattenerlo. Ma è una guerra di forza fisica, non ha scampo.
Quando arrivano in via dei Cappellari, ha smesso di urlare.

In corridoio ci sono due valigie piene. La sorella di Chiara, Cecilia, è seduta al tavolo da cucito in salotto. Non alza immediatamente lo sguardo: sta confezionando l’orlo a un ritaglio di stoffa color prugna selvatica. Le pieghe del tessuto ricadono increspandosi dal bordo del tavolo fin quasi al pavimento, catturando il bagliore acquoso del sole alla finestra. Cecilia taglia il filo con le forbici, quindi si raddrizza. «Finito», dice, rivolgendo loro uno sguardo da sopra gli occhiali da lettura rotondi. Fissa il bambino esausto, il suo volto rigato dalle lacrime. «È questa la cosa speciale?» domanda. Poi, prima che la sorella possa rispondere: «Non avevano bambine?»

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