Durante il lockdown, in un’Italia immobile e sospesa, la scrittrice Fuani Marino esce con un tweet che deflagra nel silenzio: “Stiamo sacrificando cose imprescindibili come il diritto all’istruzione, la socialità, infine l’economia di un paese in nome degli over 75”. È lo shitstorm, si parla di delirio social, si scatena un inferno. Da questo evento nasce “Vecchiaccia”, una riflessione orgogliosa e profonda, dove l’autrice – proseguendo un discorso già avviato con il precedente (e discusso) “Svegliami a mezzanotte” – rivendica il suo diritto a non contenersi, a non fermarsi ai luoghi comuni, al pensiero condiviso e conforme. Perché parlare di vecchiaia e di morte è sicuramente impopolare: viviamo in una società che rifugge questi pensieri, spesso privandosi anche delle parole stesse, edulcorandole e finendo per rinnegarle…

Una landa deserta, le giornate di lockdown: per tutti sono state una fatica, uno sforzo a reinventare la quotidianità, un fare i conti con l’incertezza e l’isolamento, con lo stress ulteriore delle famiglie alle prese con la DAD. Disperatamente soli, separati dal mondo esterno, tutti allo stesso modo. Ancora più sopraffatti coloro che combattevano già con l’ansia, con i malesseri più intimi.

In quelle ore vuote, abbandonate alla monotonia, e alla riflessione, in un’Italia immobile e sospesa, Fuani Marino esce con un tweet che deflagra nel silenzio:

“Stiamo sacrificando cose imprescindibili come il diritto all’istruzione, la socialità, infine l’economia di un paese in nome degli over 75”.

È lo shitstorm, si parla di delirio social, Fuani Marino ha scatenato un inferno. 

Se per molti il suo Svegliami a mezzanotte (Einaudi) era sembrato irrispettoso, per la franchezza lucida con cui, neomamma, parlava del suo tentativo di suicidio e della sua malattia bipolare, con una sincerità così devastante da essere considerata inopportuna, questo tweet viene punito senza appello, e Fuani bollata come ageista.

Lungi dal fare un passo indietro, Fuani decide di usare questo episodio come un punto di partenza per una nuova autoindagine, indietro alle radici della sua intolleranza, per decodificarla.

Vecchiaccia (Einaudi) è una riflessione orgogliosa e profonda, dove Fuani Marino ancora una volta rivendica il suo diritto a non contenersi, a non fermarsi ai luoghi comuni, al pensiero condiviso e conforme. E approfondisce con lo strumento che le è alleato, la scrittura come mezzo di comprensione.

Vecchiaccia Fuani Marino

Non ha mezzi termini quando parla dell’ostinazione dei vecchi a voler prolungare la propria vita, complici il progresso e la ricerca medica. Ingombranti, addirittura, decisi a mantenere un ruolo centrale nella società, nel mondo del lavoro, a voler essere sempre attivi, a non farsi da parte. Lo fa riferendosi alle ripercussioni sociali, alle ricadute economiche di un mondo che non offre più posto e opportunità per tutti.

“A chi sa cedere il passo”: la dedica di Fuani Marino ha in sé una considerazione sul desiderio di allungare un periodo della vita. È davvero una buona idea vivere così a lungo? È una domanda piena di sfumature e significati, per chi ha desiderato la morte, e si trova di fronte la fermezza di una vecchiaia che ha rinunciato a se stessa.

Credo, semplicemente, di odiare i vecchi perché già mi ci sento, vecchia. Lo sono diventata di colpo. Di fatto sono qui, ma non dovrei esserci. Se solo il mio cuore avesse smesso di battere. E invece no”.

Fuani Marino ha attraversato la notte, intrappolata nelle ombre della depressione. C’è un prima e dopo nella sua vita, la piega è il volo dal quarto piano, poco dopo essere diventata madre. Il dopo è una sopravvivenza con il peso del gesto, con i sensi di colpa, con il corpo rimasto offeso, con la consapevolezza di una malattia che non abbandona. Impossibile scappare, dopo un episodio depressivo il richiamo della morte è sempre presente, ed è una convivenza che libera da qualsiasi ipocrisia e conformismo.

Nella sua analisi Fuani attraversa tanti angoli, punti di osservazione che si appoggiano alla sua cultura, in un sentiero che è anche letterario: Houellebecq, Molière, Roth, Bellocchio, la tradizione delle fiabe, Hillman. Parla di vecchiaia, di dissidi intergenerazionali, di economia e di tradizioni patriarcali.

Andando anche a toccare un concetto di discriminazione spesso taciuto dal politicamente corretto, quello verso i giovani, sottovalutati e sottostimati, relegati al silenzio, non ascoltati dai vecchi che non hanno più gli strumenti per capire il mondo che cambia, e rimangono ancorati alle loro certezze. Il paradosso dei nostri tempi è che oggi in declino e senza speranze spesso sono i giovani, e non i vecchi.

C’è chi la morte cerca di evitarla, a qualunque costo, personale e sociale, e chi la desidera, come fine della sua sofferenza, un nulla seducente: ma in un mondo che ambisce all’immortalità, non è concesso a chi soffre di andarsene. È un punto cardine, questo, del ragionamento di Fuani Marino, e investe la riflessione sul libero arbitrio e sul fine vita, sulla necessità di legiferare, sui diritti dell’uomo, perché costringere a una vita di dolore è una violenza ingiusta.

Con un linguaggio sferzante e crudo, Fuani contrappone così chi vuole “svignarsela” e chi “non molla il colpo”. Tutti morti viventi, come l’Italia paralizzata dal virus dietro le finestre, a guardare una vita che non può vivere. E come lei, l’autrice che prosegue il racconto di Svegliami a mezzanotte, parlando della sua esistenza part time, le giornate a letto, in pigiama. Come una vecchia, dentro e fuori, giunta al capolinea, incapace di uniformarsi, di rispettare le regole di una società resa immobile e stagnante dal suo tossico perbenismo.

“Forse vedo connessioni dove non ce ne sono, e tuttavia credo che la rimozione della morte, il modo in cui quest’ultima viene continuamente omessa nella nostra società, più che in altri momenti storici, abbia molto a che fare con le misure adottate contro il virus. Abbiamo smesso di dare la morte per scontata, finché grazie al progresso e alla scienza quest’ultima è diventata inaccettabile a qualunque età, va evitata sempre e comunque, a qualunque prezzo”.

Talvolta si continua ad andare avanti, anche se si è come morti, quando non si può più rimediare. Il lockdown ci ha insegnato che la vita può essere anche sospensione. Raccontare la malattia, diventa così tanto più importante in un momento di limitazioni stressanti, di perdita di equilibrio, di confinamento estraniante.

Escono, nelle pagine di Vecchiaccia, i momenti più veri di paure, di ossessioni, di fragilità, e timore dell’abbandono, lo scivolare nell’irrazionalità: il rapporto con il marito, con un corpo che non si aggiusta più, con la figlia che cresce, e con le medicine, sempre presenti. 

Vecchiaccia è un libro fiero, lucidamente e ironicamente irrispettoso del pensiero comune, e guida a una comprensione dell’animo umano con uno stile limpido, affilato e con un’onestà sconcertante. Perché parlare di vecchiaia e di morte è sicuramente impopolare: viviamo in una società che rifugge questi pensieri, spesso privandosi anche delle parole stesse, edulcorandole. 

Abbiamo finito per rinnegare la morte: ma chi ha più paura di vivere che di morire, ci ricorda quanto sia necessario, e naturale, parlare di caducità della vita.

“Continueremo a temere la morte, illudendoci di poterla in qualche modo aggirare. Ma non sarà cosí”.

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