Alberto Mattioli, quasi milleottocento recite all’attivo, torna in libreria con “Pazzo per l’opera – Istruzioni per l’abuso del melodramma” e ne ha per tutti: il melomane medio, i custodi della Tradizione, le “povere zie” e i “soprano coccodé”: “I loggionisti più scatenati? Alla Scala. I più ironici a Venezia, i più cafonal a Parma” – L’intervista de ilLibraio.it

Quando apre bocca fa incazzare il Melomane medio (MM) e tutto “quel pubblico dalle facce di mele rancide, quelle sciure della borghesia milanese, quei loggionisti bercianti, quei patiti dell’Avanguardia, di Abbado e Luigi Nono…” (copyright Paolo Isotta).

Alberto Mattioli, giornalista de La Stampa, esperto d’opera, ha coniato un vero e proprio linguaggio, il “mattiolese”, irresistibile per tutti, tranne che per i destinatari delle sue staffilate: “care salme”, “MM”, “povere zie”, “soprano coccodè”, il “Topone” (Placido Domingo), la “Baudova” (Katia Ricciarelli) a cui bisogna aggiungere “operoinomane” e la variante “operoinomade in calore”, ossia il pazzo d’opera versione estiva che va per Festival a vedere tizi in calzamaglia che anziché parlare cantano e rimpinzarsi di leccornie locali come se non ci fosse un domani, anzi un’altra recita.

Nelle sue cinquantuno primavere il nostro ne ha viste millesettecentonovantanove, nei teatri più impensabili, a qualsiasi latitudine, dalla Cina all’Oman, dalla più remota provincia tedesca alla via Emilia. Di ognuna tiene il conto (magari entra nel Guinness, si sa mai), e le ha raccontate tutte in Pazzo per l’opera – Istruzioni per l’abuso del melodramma, il delizioso pamphlet appena pubblicato da Garzanti.

Alberto Mattioli, foto di Francesco Rinaldi

Alberto Mattioli, foto di Francesco Rinaldi

Mattioli, chi sono le care salme?
“Gli spettatori più agée e ferocemente tradizionalisti, che vanno in escandescenza quando vedono qualcosa cosa di diverso dal solito. L’ho coniato nel 2012, ora ho smesso di usarlo”.

Perché?
“Qualche anno fa durante la presentazione di un libro a Torino si avvicina una signora gentilissima, probabilmente coetanea di Cavour, e mi dice: ‘La seguo sempre, è molto bravo, però, la prego, mi faccia un favore: non mi chiami più cara salma'”.

E lei si è impietosito.
“L’ho sostituito con ‘povere zie’. Ogni tanto mi scappa ancora, ma è un’espressione affettuosa, anche se un po’ macabra”.

La cara salma è sovrapponibile all’MM?
“No, la cara salma non è aggressiva, è risentita, ma ha un’antica buona educazione, e raramente frequenta i social, il vero ring della nostra epoca. L’MM, una figura iconica come la casalinga di Voghera, non solo è risentito, ma è aggressivo e sfoga le sue ire sui social e sui blog. Le cose più spaventose che ho letto nella mia vita non sono il Mein Kampf di Hitler o le lettere del Marchese de Sade, ma i commenti dell’MM in rete”.

Faccio per un attimo il MM. Vado a teatro, vedo un allestimento sperimentale, urlo al tradimento e tiro fuori la frase di Verdi: Torniamo all’antico e sarà un progresso”.
“Caro MM medio, non mischiare capre e cavoli. La frase in questione Verdi l’ha scritta in una lettera in cui parlava dell’insegnamento nei conservatori. Peraltro, se la citasse tutta, scoprirebbe che il Maestro disse di volere studenti preparatissimi sul passato, ma che ognuno innovasse e inventasse, a seconda dei soggetti. Verdi non era un passatista, come lei crede, anzi dal punto di vista estetico non c’è stato compositore più avveniristico, coraggioso e innovatore di lui”.

opera teatro platea

Mi sta dando dell’ignorante, per caso?
“Non mi permetterei mai. Di solito, voi MM raccattate frasi sui social e le citate fuori dal contesto in cui sono state dette. Così facendo, si può far dire qualsiasi cosa a chiunque”.

Continuo. Le regie avveniristiche che piacciono tanto a lei sono un’offesa alla Tradizione, con la T maiuscola.
“La tradizione, come diceva Mahler, è mantenere acceso il fuoco, non adorare le ceneri. Deriva dal verbo ‘tradere’, che implica andare avanti, il movimento, non l’immobilismo”.

E comunque le regie tradizionali sono migliori di quelle moderne.
“Le regie d’opera non si dividono in moderne e tradizionali, ma tra belle e brutte. In Italia si commette l’errore di scambiare la scenografia e il costume per la regia. Possono esserci regie assolutamente rispettose del libretto che sono modernissime, e regie eversive dal punto di vista del libretto, ma che, in realtà, sono tradizionalissime. L’interprete deve capire quel che c’è di presente nei capolavori del passato, se riesce a farlo è bravo, se non ci riesce è inutile”.

Adesso faccio la sciura milanese che ha l’abbonamento da quando era vivo Toscanini. Alla Scala, caro Mattioli, non si sentono più le voci di una volta.
“Cara sciura, sa chi è stato il primo a dire questa frase? Metastasio a Farinelli nella prima metà del Settecento. Nulla di nuovo sotto il sole”.

Però non può negare che la Scala osi un po’ poco, ultimamente.
“Rappresenta il tempio, l’istituzione, non è un teatro d’avanguardia, perché non è questo il suo compito, ma deve essere un teatro all’avanguardia. In passato la Scala dava la linea, innovava, apriva prospettive e il resto del mondo la seguiva”.

Vede che è un po’ passatista anche lei? Le stagioni scaligere migliori?
“Gli anni di Toscanini del primo Novecento, l’epoca dell’ente autonomo degli anni Venti, gli anni cinquanta della Callas. L’ultima grande epoca è stata quella di Abbado – Grassi quando la Scala riscopriva Rossini comico e dava la linea su come metterlo in scena in tutto il mondo. O quando ridisegnava la classifica estetica di Verdi con il Macbeth e il Simon Boccanegra di Abbado-Strehler, cambiando in tutto il mondo la percezione del teatro verdiano. Da trent’anni la Scala fa cose egregie, buone e bruttine, ma non dà più la linea al resto del mondo. Negli ultimi decenni quello che d’importante è accaduto nella lirica non è stato a Milano, è un dato di fatto”.

Dove resiste il rito della Prima di Sant’Ambroeus, quest’anno cancellata a causa della pandemia.
“Mi piace da matti anche perché, da giornalista, ci vado gratis. È una cerimonia che nasconde tanti significati e valori. E poi c’è questo legame fortissimo, quasi esoterico, tra la città e il suo teatro. Il rapporto tra Milano e la Scala è come quello tra Vienna e la Staatsoper, questa è la grandezza della Scala. La Prima è quello che resta della lirica come rito nazionalpopolare, identificazione collettiva, che è una delle glorie della civiltà italiana”.

Il melodramma nazionalpopolare?
“Le origini no, il prosieguo sì. È un paradosso tutto italiano”.

Spieghi meglio.
“L’opera nasce nelle corti come una raffinatissima speculazione di un gruppo d’intellettuali rinascimentali che volevano rifare l’antico, la tragedia greca, e inventano qualcosa di completamente nuovo. La prima opera viene rappresenta nel 1600 a Palazzo Vecchio a Firenze in occasione del matrimonio per procura tra Enrico IV, re di Francia e Maria de’ Medici. Nel 1637 a Venezia apre il primo teatro lirico pubblico a pagamento. Misteriosamente uno spettacolo così assurdo, perché si basa sulla convenzione che la gente comunichi cantando anziché parlare, in un italiano letterario che non esiste nella realtà perché nessuno l’hai mai parlato, che presenta forme musicali molto complesse, insomma qualcosa di raffinatissimo diventa un patrimonio nazionalpopolare, un fenomeno che coinvolge tutti gli strati sociali e sfonda ogni barriera di censo e cultura. Il teatro all’italiana è una geografia sociale dove ogni classe ha il suo posto: la nobiltà nei palchi, la borghesia in platea e il popolo nel loggione”.

Oggi andare a vedere l’opera è proibitivo per le tasche di molti.
“Perché è uno spettacolo antieconomico. O viene sovvenzionato dallo Stato o non si fa, chi dice il contrario mente. Anche negli Stati Uniti è così, anche se il contributo pubblico è ‘mascherato’ sotto forma di detrazioni sulle tasse. Allestire un’opera lirica è costosissimo, ci vuole una quantità di persone con le più svariate competenze e specializzazioni. Neanche il cinema ne mobilita così tante”.

Perché la Callas è la Callas?
“Come tutti i geni, si nasce così. Lei era un eccellente cantante e un eccellente musicista, cosa che non si ricorda quasi mai. Pur non essendo sicuramente una donna colta o intellettuale, si rese conto con un istinto formidabile che era nata e cantava in un’epoca in cui le opere che appassionavano di più il pubblico erano quelle del passato, e trasformò se stessa in una specie di macchina del tempo, capace non di ricostruire archeologicamente, ma di rievocare i fasti di un passato che si credeva perduto. Il paradosso era che per definire il suo timbro vocale ci s’inventò un neologismo, ‘soprano drammatico d’agilità’, che non era mai esistito prima di allora per una cantante. Sembrava uscita da un romanzo di Stendhal”.

Big Luciano Pavarotti.
“Non era quello che vi hanno fatto credere, ossia quel signore truccato da barbablù che duettava con Bono Vox in concerti posticci, ma è stato un fenomeno fisico e carnale travolgente, capace di regalare momenti di stupore estetico. La prima volta lo vidi a 17 anni in una Bohème a Modena. Aveva l’effetto di una bomba di velluto che ti esplodeva nella testa. Per la bellezza del suono un’esperienza così l’ho vissuta poche altre volte”.

Mi dà una definizione di operoinomane?
“Un uomo che se sente una donna cantare sotto la doccia appoggia al buco della serratura l’orecchio e non l’occhio”.

Ma non si stanca ad andare a vedere tante volte spettacoli di cui si sa già come vanno a finire?
“L’operoinomane non va a sentire la Traviata, ma a come la dirige Gatti, come la canta Maria Callas, quando c’era, come la mette in scena il tal regista, e così via. L’interesse non è sul cosa, ma sul come. È chiaro che in gran parte sono titoli già conosciuti, specie in Italia dove il repertorio si sta restringendo sempre di più”.

I suoi registi preferiti.
“Damiano Michieletto, Robert Carsen che ormai è un super classico anche se le care salme lo vedono come un pericolosissimo avanguardista. E poi Davide Livermore, Claus Guth, Dmitrij Černjakov”.

La recita più brutta che ha visto?
“Anche quelle più catastrofiche hanno un senso, anche dal letame spuntano i fiori, come diceva De André. Io preferisco uno spettacolo non completamente risolto, ma stimolante, a uno, magari bellissimo, ma inutile, come sono gran parte di quelli con le cosiddette regie tradizionali”.

Mettiamola così: quella più fischiata?
“Un’Anna Bolena di Donizetti che vidi a Modena da ragazzino. Il teatro aveva fatto una nuova produzione per Katia Ricciarelli, all’epoca maritata Baudo, e quindi chiamata la ‘Baudova’. Alla terza recita arrivò a sostituirla un soprano portoghese semisconosciuto e terribile da ascoltare. Lo spettacolo era talmente insulso che non fu neanche fischiato dai loggionisti. Una serata di pura noia se non fosse che alla fine, la divastra, dopo aver perso la testa in scena, la perse per la seconda volta e comparve sul proscenio con le mani sui fianchi in segno di sfida. Ci fu un momento di silenzio, tipo nuvoletta dei fumetti, e poi si sentì urlare un insulto dal loggione: “p…”. E cominciarono a tirarle le monetine”.

I loggionisti esistono solo in Italia?
“Un fenomeno cento per cento made in Italy, non esiste in nessun’altra parte del globo”.

Chi è il loggionista tipo?
“Varia da teatro a teatro. Il più combattivo è quello della Scala, che durante la recita sembra in fase Rem inoltrata, ma quando si risveglia dà vita a gazzarre meravigliose. L’ultima, memorabile, alla Gazza ladra del 2017: finito lo spettacolo s’è scatenato un rodeo tra opposte fazioni. Ad un certo punto, un tizio della prima galleria si sporgeva nel vuoto urlando in alto a un loggionista: ‘Vieni giù che ti spacco la faccia’. Ero seduto accanto a un’americana che spaventatissima mi chiese: ‘Ma qui è sempre così?’. Che serata”.

Ma è vero che alla Scala fischiarono anche la Callas?
“Metà del pubblico lo faceva sistematicamente. Lei era miope, sul palcoscenico non poteva portare gli occhiali e le lenti a contatto non le avevano ancora inventate. Alla famosa Traviata del 1955 con Luchino Visconti le tirarono un mazzo di ravanelli. Lei, non vedendo una mazza, li tirò su per annusarli pensando fossero rose. Per non parlare di Mirella Freni”.

Racconti.
“Era il famoso fiasco della Traviata di Karajan-Zeffirelli nel 1964 di cui lei, a distanza di anni, non ne parlava volentieri. Finì col pubblico che assediò letteralmente i camerini di via Filodrammatici: Karajan fu tratto in salvo da una macchina blindata inviata dall’ambasciata austriaca, Zeffirelli coperto di sputi, la Freni si salvò perché c’era Pavarotti che prese una ragazza bionda che le somigliava, la caricò in auto e fu bloccato dalla gente convinta che fosse la Freni, mentre quella vera era scappata da un’uscita secondaria”.

Il loggione più ironico?
“Alla Fenice di Venezia, quella vecchia, la più verace. Ricordo un Renato Bruson completamente svociato che durante un Ernani cantò, malissimo, la cabaletta: Vieni meco, sol di rose che di solito si canta due volte per strappare gli applausi. Lui concesse il bis che nessuno aveva reclamato, e alla fine una voce urlò dal loggione: ‘Non te l’aveva chiesto nessuno’. Poi ci sono i loggioni emiliani. Il più cafone è quello di Parma, dove c’è l’usanza di commentare  a voce alta durante lo spettacolo. I loggionisti del Regio di Torino sono i più paciosi ed educati. All’Arena di Verona trovi i più svaccati. Comunque il triangolo delle Bermuda del melodramma è Milano, Bologna e Venezia, lì ribolle la passione più sfrenata. Tempo fa ho trovato una recensione della Gazzetta di Mantova de Le Nozze in villa, un’opera buffa di Donizetti messa in scena nel 1819 e andata malissimo. I loggionisti tirarono sul palco di tutto, persino una molotov incendiaria. Io di teatri ne ho girati tantissimi, ma di ordigni non he ancora visti. Almeno finora”.

Nel libro scrive che Giuseppe Verdi è stato come Giovanni Falcone, che c’azzecca?
“Sono due padri della patria. Nel film Il traditore dedicato a Buscetta il regista Marco Bellocchio ha un colpo di genio e nella sequenza della sentenza del primo maxiprocesso alla mafia, sulle immagini dell’aula bunker di Palermo dove scorrono in sovrimpressione l’elenco interminabile dei delitti e delle pene, dei condannati e degli anni di galera, fa partire il Va’ pensiero, che è l’inno nazionale segreto degli italiani. È un dettaglio toccante, splendido e crudele: in questa sequenza c’è l’Italia migliore, fatta di persone che hanno creduto invano alla Patria, legando un personaggio molto poco italiano come Verdi con un personaggio altrettanto poco italiano come Falcone”.

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