Il racconto di formazione dell’Italia e degli italiani – dall’Unità agli anni Sessanta del Novecento – attraverso le aule scolastiche che diventano luogo universale e individuale di autoaffermazione, di rivalsa ma anche di sconfitta. Su ilLibraio.it un estratto da “Autobiografia della Scuola – Da De Sanctis a Don Milani” dello storico Mario Isnenghi

Giovani maestri e insegnanti medi di prima nomina sono andati per generazioni a imparare e professare il mestiere lontano da casa, nella propria regione o anche, spesso, più lontano, da Nord a Sud e da Sud a Nord. A partire dai diari, dai documenti ufficiali, dai romanzi e dalle lettere, in Autobiografia della Scuola – Da De Sanctis a Don Milani (Il Mulino), Mario Isnenghi ricostruisce queste vicende di uomini e donne, maestre e maestri con la valigia.

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Ne scaturisce il racconto di formazione dell’Italia e degli italiani – dall’Unità agli anni Sessanta del Novecento – attraverso le aule scolastiche che diventano luogo universale e individuale di autoaffermazione, di rivalsa ma anche di sconfitta.

L’autore, che ha insegnato Storia contemporanea nelle Università di Padova, Torino e Venezia, firma una dichiarazione d’amore per la scuola.

autobiografia della scuola

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo l’incipit:

Giovani maestri e insegnanti medi di prima nomina sono andati per generazioni a imparare e professare il mestiere lontano da casa, nella propria regione o anche, spesso, più lontano, da Nord a Sud e da Sud a Nord. Anche gli esami di maturità, con la doppia sessione estiva e autunnale, alimentavano la dimensione non localista del lavoro scolastico, quando erano ancora un rituale rispettabile di messa in relazione degli standard e di autocontrollo nazionale.

Professione, mestiere o missione che fosse, l’assegnazione a una cattedra più o meno lontana da casa, comunque venga sentita dal singolo – circostanza cercata o subita –, lo scegliere, l’indicare e il raggiungere la propria sede di insegnamento e poi restarci, stanziarvisi, per scelta o per condanna, è il modo di funzionare della macchina. Un meccanismo connettivo, un motore della alfabetizzazione, di più, di una nazionalizzazione fatta di osmosi e di dissonanze. In un reticolo di sedi, i docenti, per anni o per decenni, insegnano italiano o matematica, e – anche per differenza – imparano la cosa-Italia. E ne parlano, soprattutto ne scrivono, diventando così una nostra fonte. Il trasferimento, la ragnatela personale e collettiva dei trasferimenti, è un altro pilastro costitutivo nella vita delle persone e degli apparati; ma se il trasferimento tarda o non arriva, l’andare a vivere altrove diventa per l’‘esercito’ degli insegnanti un evento separatore che scatena bisogno e occasione di scrittura1: come, notoriamente, – nei più grandi e classici eventi separatori, generatori di corrispondenza – l’emigrazione e la guerra.

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Cercando e ricomponendo i viaggi in Italia di cui è rimasta traccia, riaffiorano una storia autoriflessa di diverse generazioni di docenti, dinamiche soggettive dentro una rete precostituita di luoghi, di tradizioni e di obblighi, una costellazione di esploratori e testimoni d’epoca, manoscritti nella bottiglia che risalgono e ridiscendono la penisola; e alla fine, una storia molecolare d’Italia attraverso le vite e le relazioni dei docenti, le amicizie che si creano, i riflessi delle memorie.

Le lettere private sono in genere andate disperse, salvandosi e diventando documento nel caso di estensori di particolare rinomanza; ma ogni tanto lontananza e sradicamento figliano Lettere dalla provincia, come in un piccolo classico del genere (Teramo, 1891).

Si può essere partiti per la propria nuova vita di adulti da Bologna o da Padova, come in questo caso, subito dopo la laurea, puntando sulle orme di Gabriele D’Annunzio a fare gli scrittori e i giornalisti nelle redazioni e nei salotti romani, e ritrovarsi a tirare la carretta nel liceo di Senigallia, magari per diretto intervento del ministro della Pubblica Istruzione, lui stesso insegnante e scrittore, il toscano Ferdinando Martini. Ma anche a Bosa – che più Sardegna, e cioè, vista dal ‘continente’, relegazione di così non v’era – e bisognava sublimare quella remota ubicazione in missione sociale e culturale, per reggere a una assegnazione considerata metaforicamente come punitiva, l’ultima delle sedi possibili, a meno di non abitare nell’isola. Così riesce a fare un campione del nomadismo accettato, che poi racconterà come – prima di arrivare ad essere il docente e il cantore del liceo D’Azeglio di Torino, con i suoi mitici allievi, da Pavese a Foa, da Ginzburg a Bobbio, da Pajetta a Mila – ha battuto la penisola ricostruendo un ideal-tipo di mappa scolastica.

L’epica della professione; ma neanche Augusto Monti, l’autore di I miei conti con la scuola (1965), rinuncerà un po’ imbarazzato a servirsi, anticipando gli eventi, di un altro istituto dell’impiegato pubblico, la raccomandazione – dall’alto, anzi altissimo loco; una esponente della Casa reale – per staccare il biglietto di ritorno verso il Piemonte e Torino. Le ‘Indie di quaggiù’, o quella che per il confinato antifascista Carlo Levi potrà negli anni Trenta essere Eboli, sono rappresentate soprattutto dalle Calabrie; dopo il terremoto del 1908 diventano, con Messina, una fattuale metafora dell’impegno e di una cittadinanza che vanno oltre la docenza e oltre le piccole patrie regionali. Anche perché lo stato d’eccezione – perdurante decenni nei suoi aspetti pratici: abitazioni, edifici, aule e strumenti scolastici – si viene ad aggiungere a quella che intanto ha avuto il tempo di configurarsi come una vera e propria ‘questione’ nazionale, la ‘questione meridionale’. Così, qualcuno dei protagonisti di questa variante ancora più coinvolgente del viaggio in Italia – come il meridionalista sanremese Giuseppe Isnardi – convertirà la circostanza diffusa in una personale scelta di vita, senza programmare un ‘ritorno a casa’, ma rendendola con spirito di servizio permanente, con l’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno. Nomadi e stanziali – stanziali di nascita o per subentrata scelta di restare e acclimatarsi dove c’è bisogno –, di tutt’e due le attitudini si danno esempi. Con una serie di espressioni del passaggio in un territorio di quella sorta di intellettuale diffuso che è il giovane professore, fresco ancora di libri e desideroso di restare attivo e – perché no? – socialmente utile con le sue armi specifiche, leggere, scrivere, magari parlare in pubblico, anche in provincia, dove ci sono meno o niente affatto biblioteche e librerie.

L’antica Italia delle accademie può anch’essa offrire occasioni e tribune perché lo ‘spostato’ si senta meno spostato e ancora membro di una élite che circola e mette in circolazione città e provincia, università e scuola, il professore ‘venuto da fuori’ e i luoghi e riti di una sociabilità delle élite cittadine, i padri oltre che i figli. Un illustre prototipo di questo missionario della cultura, che deborda dall’aula magna della propria scuola, verso il teatro o la sala pubblica cittadina, ampliando, differenziando, miscelando pubblici, è il Giovanni Pascoli che impara in provincia – da Matera a Massa, a Livorno – a fare scuola di cittadinanza e come, nel suo caso, si possa diventare, oltre che oratore a soggetto, un Poeta Vate. Tanto più che dietro le migrazioni interne di questo giovane poeta-professore si indovinano e agiscono la grande scuola bolognese e il gruppo di pressione – la lobby professorale – che fa capo al suo maestro accademico e predecessore come Poeta Vate: Carducci, il faro anche di un altro pilastro del nomadismo professorale accettato e narrato, il grecista romagnolo Manara Valgimigli: che, appena laureato, è appunto un compagno di studi bolognese, Giovanni Pascoli, che a Messina l’ha preceduto di poco, a avvertire per telegramma nel novembre 1898 che, se si sbriga a venire, nella città dello Stretto c’è un posto libero al ginnasio inferiore: il ginnasietto, di cui parlano affettuosamente, anche se un po’ dall’alto, esordienti e rammemoranti. Anche questo nelle Calabrie – come diversamente Bosa, in Sardegna – un avvio d’epoca ideale: con quel ‘di più’, rispetto al mero avvicendamento delle nomine burocratiche. Messina, Lucca, Massa…, alla fine ritroveremo Valgimigli collaboratore delle riviste di Piero Gobetti e di Giuseppe Lombardo Radice, autore di La mia scuola2 e per trent’anni professore di greco all’Università di Padova, al centro – materialmente e narrativamente al centro – della sua amatissima ‘scuola’, senza soverchie distinzioni fra i gradi dell’insegnamento e dove ha in gran dispetto i piccoli aspiranti filologi che si sentono disadatti e superiori alle troppo modeste incombenze scolastiche cui li adibisce il Ministero in cittaduzze povere di libri.

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Del resto, se far scuola non basta, ci si salva anche con un libro, scrivendolo, e magari tematizzando il disinganno e il tedio, esser partiti alla conquista del centro – magari come redattore del «Capitan Fracassa» – e ritrovarsi a tempo indeterminato insabbiato in periferia, come le truppe coloniali in Africa. L’autore di Lettere dalla provincia sa in un giro di anni superare il malessere degli arenati e reinventarsi come scopritore delle Confessioni d’un Italiano: né Carducci, né sostanzialmente Croce, ma – cosa più stupefacente e incongrua – neppure il grande Francesco De Sanctis si accorgono di Nievo e di quanto possa essere in sintonia con la Storia della letteratura italiana (1870-71) il suo grande romanzo di formazione dell’Italia e dell’italiano (scritto nel 1858, stampato nel 1867); lo fa Dino Mantovani, il malmostoso insegnante medio che l’itinerario professorale ha rimandato infine verso le Venezie, nei luoghi appunto di Nievo, dove elabora quella prima biografia del Poeta soldato che, arrivato alla grande sede di Torino, riesce nell’anno 1900 a far pubblicare da un grande editore come Treves. E forse nel 1900, per Emilio Treves, agisce in positivo quel patriottismo militante che aveva invece portato nel 1867 il primo editore, Felice Le Monnier, a pretendere, nel titolo delle Confessioni, la spoliticizzazione dell’Italiano in un semplice Ottuagenario. Idealmente, così, il viaggio in Italia di tanti docenti può sublimarsi e riacquistare fascino e senso per le vie narrative del grande viaggio collettivo da cui è nata l’Italia unita.

(continua in libreria…)

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