Blake Bailey iniziò a lavorare alla biografia del Grande Scrittore Americano per eccellenza dieci anni fa, nel 2012, scelto dallo stesso Philip Roth, che gli chiese non di “riabilitarlo” – da critiche d’ogni genere – ma di renderlo interessante. Ora il libro (di oltre 1000 pagine) esce in Italia dopo che negli Usa, a seguito delle accuse di molestie al biografo, era stato oggetto di forti attacchi e ritirato dal mercato (per poi trovare un altro editore). Al di là delle polemiche, e dell’inevitabile propensione ad andare alla ricerca di particolari magari un po’ pettegoli, le centinaia di personaggi reali che incontriamo in questa biografia hanno caratteristiche sempre un po’ originali: sembrano stare in bilico, con un piede nel romanzesco…

Fu Philip Roth a scegliere Blake Bailey, chiedendogli non di “riabilitarlo” – da critiche d’ogni genere – ma di renderlo interessante. Iniziarono a lavorare alla biografia del Grande Scrittore Americano per eccellenza dieci anni fa, nel 2012. E dopo nove, nel 2021, il monumentale lavoro ebbe appena il tempo di essere pubblicato (dopo larghe anticipazioni di stampa, considerato il clima di fervente attesa), che subito venne travolto dall’ondata, diciamo così, del #metoo. Non fu Roth questa volta, benché spesso descritto come uno spietato misogino, l’obbiettivo delle accuse (del resto, era già morto) ma il suo biografo, quasi che la loro lunga coabitazione culturale avesse in qualche modo mischiato caratteri e vite: in altre parole, si assistette al fenomeno che in italiano definiamo prosaicamente del “chi si somiglia si piglia”.

biografia philip roth

La tempesta che si abbatté su Bailey, con lettere ai giornali e interviste, era impetuosa, si parlò di abusi sessuali e comportamenti inaccettabili, risalenti ovviamente a molti anni addietro e non facili, com’è ovvio, da provare. Lui protestò e negò, entrarono in campo gli avvocati. Ma come avviene spesso (si direbbe soprattutto in America) la presunzione d’innocenza, colonna portante dello stato di diritto, andò a farsi benedire. Il biografo fu subito “condannato”  dal suo editore, Norton & Company – e anche dall’agente, che lo mollò dall’oggi al domani. Le copie già stampate in quantità – se n’erano vendute intanto una decina di migliaia -, furono mandate precipitosamente al macero come qualcosa di infetto e pericoloso, e si dichiarò che un tale libro non sarebbe mai più stato proposto ai lettori. L’autore era ovviamente “libero” di rivolgersi a qualcun altro, se mai l’avesse trovato.

Il biografo, nonostante fosse stimato e celebre per i suoi lavori precedenti, era da quel momento, ufficialmente, un appestato, almeno per quanto riguardava la carta stampata e i file ebook, perché intanto continuava a circolare tranquillamente l’audiolibro, pubblicato da Skyhorse: che non solo non si accodò al boicottaggio, ma nel giro di pochi mesi propose un’edizione in paperback. Tanto rumore per nulla? Non per il Pen club America, comunque, la cui presidente si espresse con parole di fuoco, ricordando che applicando un criterio del genere, migliaia sarebbero stati i libri che potevano essere rimossi dalla circolazione per analoghi: “Pubblicare un libro dovrebbe significare che un editore crede che in quel volume ci sia qualcosa di edificante, utile o illuminante; non dovrebbe essere interpretato come un’approvazione delle idee o delle vicende raccontate, né della condotta personale dell’autore“.

Sono affermazioni condivisibili in parte, si potrebbero però discutere certi luoghi comuni da anima bella. D’accordo sul fatto che un libro si pubblica a prescindere dalla personalità dell’autore, ma perché mai non si dovrebbe invece pubblicare, come è stato fatto in tutta la storia della letteratura moderna, un libro invece urticante, negativo, formalmente cattivo o persino malvagio, in rivolta contro tutto e contro tutti? Le anime belle in genere sono scrittori abbastanza irrilevanti, e non lo erano certo per fare un esempio Henry James o Gustave Flaubert, due degli autori cui Philip Roth si è sempre sentito erede.

Ora comunque, per chi non si è precipitato in quei giorni più o meno caldi sull’originale inglese, è possibile leggersi con tutta calma la traduzione italiana, Philip Roth, La biografia, edita da Einaudi (il direttore editoriale Ernesto Franco, ai tempi della polemica, non ebbe dubbi a spiegare che lo avrebbe fatto tradurre e stampare perché era un bel libro). Con tutta calma non è in questo caso un modo di dire: perché si tratta di un tomo dalle dimensioni smisurate e sulle prime persino minacciose, più di mille pagine (tradotto da Norman Gobetti, ndr); dove c’è tutto, non solo la vita d’un uomo ma anche di un Paese, l’America, e di un pezzo considerevole di Occidente.

Bailey non sembra aver trascurato proprio nulla, fino al minimo documento, verrebbe da dire fino al più sfuggente sospiro del suo oggetto di studio, nelle lunghe interviste preparatorie. E dall’infanzia nel quartiere ebraico di Newark al festoso ritorno nel 2002 quando Roth ottenne la Gold Medal in Fiction, non sorvola su nulla, in una sorta di affascinante bulimia documentaria. Sono meravigliose le pagine dove cerca – e trova – tutti i legami, i personaggi, le esperienze che avrebbero portato ad esempio a Il lamento di Portnoy, il romanzo più scandaloso che dette allo scrittore la fama e sul quale di tempo in tempo, nelle interviste, Roth cercò spesso di glissare. È ovvio che, anche a causa della situazione molto particolare dell’uscita americana di questo libro, viene quasi spontaneo andare a cercare i particolari magari un po’ pettegoli (Bailey non li risparmia, e del resto il suo oggetto di studio pare gli avesse chiesto esplicitamente di mettere davvero tutto, “anche le cose brutte”): come una certa e precoce frenesia sessuale lo porta a imporsi un po’ disinvoltamente sulle compagne di studi, gli atteggiamenti predatori, i molti tradimenti ai danni delle due successive mogli, e la pretesa o il desiderio inappagato che le consorti si comportassero da amanti e le amanti da consorti; senza contare qualche cattiveria di troppo, magari quando rimprovera alle sue ex di non essere state abbastanza astute anche se avevano spesso gradito costosi regali.

L’accusa di essere un fiero taccagno gli venne rivolta esplicitamente in un libro del 1996, un memoir della seconda moglie, Claire Bloom, che dava di lui un’immagine assai poco edificante: nevrotico, avaro, avido di successo, e tendenzialmente assai poco gentile (è un eufemismo) con le donne. Roth si vendicò facendo di lei il personaggio principale e mezzo matto di Ho sposato un comunista. Ora scopriamo che, con la sua grazia da killer, riusciva a essere anche più feroce: come quando scrisse una lettera a Susan Rogers, amica dai tempi dell’Università con cui però allacciò una complessa relazione solo molto più tardi (e le dedicò se pure un po’ cripticamente – “A S. F. R” – Complotto contro l’America). Tumulò così il loro rapporto: “Non hai capito che ti amavo quando ti ho offerto i soldi per estinguere il mutuo sulla tua casa? […] Non hai capito che ti amavo neanche quando ti dicevo che ti amavo? Non prenderti il disturbo di rispondermi. Non l’hai mai capito. Non ci sei mai «arrivata»”.

Le vicende di soldi, amori, cattiverie e ripicche non sono certo eccezionali, possono riguardare tutte le coppie di questo mondo – anche se la Rogers non era proprio un personaggio banale: prima di Roth aveva avuto una lunga avventura lesbica, con una compagna che a un certo punto decise però di affrontare la transizione di genere, divenendo maschio. Ma è una costante: le centinaia di personaggi reali che incontriamo in questa biografia hanno, sarà il filtro del ricordo, caratteristiche sempre un po’ originali; sembrano stare in bilico, con un piede nel romanzesco, a cominciare dagli stessi genitori. Su Philip Roth, autore sommo (veniamo però informati da Bailey che Alfred Kazin, venerato critico letterario, lo riteneva noiosissimo: è pur sempre questione di punti di vista, e anche questo lo è, se pure un poco bizzarro) si sono dette e andrebbero dette ancora moltissime cose.

Lo scrittore di una generazione che è passata dalla marginalità economica e sociale alla classe media e al benessere, lo scrittore di un’America rooseveltiana, democratica e pur nei suoi inevitabili inganni generosa, lo scrittore delle “vette shakespeariane” (secondo Coetzee), ha preso in carico la titanica responsabilità di essere tale senza titanismi romantici, sapendo che neppure la letteratura, forse, è così importante – non ci salverà però ci chiede tutto, e noi le dobbiamo dare tutto -; ed era naturalmente (anche) un uomo: per l’esattezza un maschio di origini ebraiche, bianco, nato poco prima che Hitler diventasse cancelliere e morto nel 2018, quando l’equilibrio mondiale tra le superpotenze era ormai sconvolto forse per sempre; un maschio con i pregi e i difetti delle sua generazione. Resta l’interrogativo se valga la pena di conoscerli a fondo, se non bastino per questo i suoi libri.

Cynthia Ozick scrisse sul New York Times, mentre covava lo scandaletto editoriale, che “il romanzo del XIX secolo è ancora vivo e vegeto. Il suo nome oggi è ‘biografia’; la sua natura è quella di una grandezza dostoevskiana. E la vita esaustiva di Philip Roth composta da Blake Bailey è – per dirla senza mezzi termini – un capolavoro narrativo”. La biografia è però un genere bifronte, può divenire un romanzo dei romanzi, come in certi casi memorabili – se pure dal punto di vista strettamente documentario in parte superati -, penso al Balzac di Zweig o al Joyce di Ellmann, oppure un tentativo di ridurre il “personaggio” dello scrittore, l’unico che davvero esiste, alla sua vita di essere umano. I due aspetti, se parliamo di letteratura, non coincidono mai del tutto, e a volte per nulla. Blake Bailey, cui si augura ovviamente di poter dimostrare la propria estraneità alle accuse personali, si direbbe che nel libro non corra questo rischio. È una lettura appassionante, ricca, labirintica, autonoma. E tale, beninteso, dovrebbe restare anche nel caso che l’autore venga in futuro riconosciuto, da un tribunale americano, come un pericoloso maniaco sessuale.

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