Vicktor Kravčenko, addetto alla missione commerciale sovietica negli Stati Uniti, ruppe con il suo Paese e decise di passare all’Occidente. Scrisse quindi un libro, pubblicato in America nel 1946, in cui spiegava le cause di questa rottura e raccontava la vita in Unione Sovietica sotto il regime staliniano. Dopo la campagna diffamatoria a suo carico, portata avanti dalla rivista francese Les lettres françaises, si arriva a un processo, che Nina Berberova segue e del quale fa un resoconto nel libro “Il caso Kravčenko”. Su ilLibraio.it l’introduzione di Marco Belpoliti alla nuova edizione del volume

Il libro di Nina Berberova, Il caso Kravčenko, (Guanda, con la traduzione di Francesco Bruno) torna in libreria in una nuova edizione, con una nuova prefazione del critico letterario e saggista Marco Belpoliti.

Berberova (1901-1993) oltre a essere stata scrittrice di saggi, romanzi e poesie, ha lavorato anche come redattrice per una rivista che si occupava di emigrazione russa (sua nazionalità d’origine). Proprio durante il suo lavoro come giornalista si è imbattuta nel caso Kravčenko, di cui ha seguito tutto il processo e di cui poi ha scritto un resoconto completo e credibile di quanto accadde in aula, ma con gli occhi di chi non può rimanere neutrale.

Nina Berberova

Nell’aprile 1944 Vicktor Kravčenko, addetto alla missione commerciale sovietica negli Stati Uniti, ruppe con il suo Paese e decise di passare all’Occidente. Scrisse quindi un libro, pubblicato in America nel 1946, in cui spiegava le cause di questa rottura e raccontava la vita in Unione Sovietica sotto il regime staliniano. Era, per i contenuti e la novità, un documento senza precedenti e si trasformò in un successo, che si ripeté man mano che il libro usciva negli altri paesi.

L’edizione francese, che precedette di un anno quella italiana pubblicata da Longanesi, apparve nel 1947. Un settimanale politico-letterario, Les lettres françaises, iniziò a questo punto una campagna diffamatoria contro Kravčenko, e questi intentò causa al periodico. Il processo ebbe luogo tra il gennaio e il marzo del 1949.

Nina Berberova segue tutto il dibattimento, ne dipinge i volti con brevi tratti e netti chiaroscuri. Giorno dopo giorno annota punto per punto le deposizioni, gli interventi degli avvocati, i contraddittori, i colpi di scena di uno spettacolo in cui si confrontano verità e intimidazione.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it l’introduzione di Marco Belpoliti

Nell’estate del 1947 Nina Berberova è a Parigi dove vive da molti anni. Non ha più né una casa né una stanza in affitto, e neppure i soldi per cercare entrambe. Si sistema da un’amica che sta ristrutturando la sua abitazione. L’appartamento non ha il tetto. Alla mattina arrivano gli operai per i lavori, e lei se ne va. La notte invece si addormenta guardando le stelle nel cielo sopra di lei. Quando tutto è finito, Nina se ne va altrove in un minuscolo appartamento vicino al Trocadéro, come racconta in Il corsivo è mio, la sua autobiografia.

Comincia a vendere poco a poco i propri libri per mantenersi. Nel contempo inizia a scrivere per Russkaja Mysl’, un settimanale russo, che esce proprio quell’anno, quando i comunisti vengono esclusi dal governo francese e gli emigrati ottengono il permesso di pubblicare un loro giornale. Nina Berberova ne è di fatto la redattrice letteraria.

Nel clima di quel secondo dopoguerra la situazione di coloro che sono usciti dall’URSS negli anni Venti, rifugiandosi in Germania e Francia, non è ancora molto chiara; la guerra ha mescolato le carte e dirottato molte vite. Berberova cerca di mettersi in contatto con gli emigrati che non sono tornati nella Russia di Stalin; sono rimasti in Germania, a Berlino, dove lei stessa ha sostato, e dove ha conosciuto Vladimir Nabokov, prima che questi andasse a Parigi e da lì in America. La giovane poetessa, protetta da Aleksandr Blok e Anna Achmatova, ha lasciato la Russia post-rivoluzionaria nel 1922 insieme al poeta Vladislav Chodasevič, suo compagno. Ora sono trascorsi ventitré anni ed è una scrittrice, per quanto non ancora pienamente rivelata al mondo. Ha già scritto in Francia i romanzi brevi e i racconti che la renderanno celebre più di trent’anni dopo: L’accompagnatrice (1934), Roquenval (1936), Il lacche´ e la puttana (1937), la raccolta Le feste di Billancourt (1925-1940), dal nome del quartiere dove vivono i fuoriusciti russi.

Nel 1949 accade un fatto imprevisto: l’affare Kravčenko. Si tratta dell’autore di Ho scelto la libertà. Pubblicato in America nel 1947 e subito tradotto in numerosi paesi, il libro racconta per la prima volta al pubblico occidentale la condizione dei campi di concentramento, le purghe staliniane e l’assenza di libertà in Unione Sovietica. Si scatena immediatamente un attacco contro di lui. Kravčenko è un addetto ai rifornimenti di materie prime e tecnologie per conto del governo sovietico distaccato a New York. Ha abbandonato il suo incarico e chiesto asilo al paese dove si trova nell’aprile del 1944. Nei due anni seguenti scrive il suo libro e lo dà alle stampe. Viene accusato di essere un impostore, di essere al soldo dei nemici dell’Unione Sovietica, colluso coi fascisti e anche con i servizi segreti americani, manovrato dai menscevichi rifugiati in quel paese. Una rivista d’area comunista, redatta da intellettuali e scrittori francesi, Les lettres françaises, è particolarmente dura nel denigrarlo. Kravčenko gli fa causa per diffamazione e il processo ha inizio nell’aula del tribunale di Parigi nel gennaio 1949.

Nina Berberova segue tutte le udienze per conto di Russkaja Mysl’. Così la scrittrice e poetessa, che all’epoca ha quarantotto anni, si trova nel gruppo dei giornalisti che affollano l’aula. Siede, come racconterà con dovizia di dettagli in seguito, tra il corrispondente del Times e quello della Izvestija, vicino ai rappresentanti d’importanti giornali canadesi e francesi. Quando ha lasciato l’URSS, all’inizio del decennio decisivo per la fine del sogno rivoluzionario, non ha sicuramente immaginato che le sarebbe accaduto d’ascoltare il racconto delle persecuzioni e deportazioni di massa attuate da Stalin nella sua Russia in un’aula di tribunale straniero e che ogni giorno avrebbe raccontato l’andamento di quel processo sulle pagine di un settimanale, che per merito dei suoi resoconti è diventato un quotidiano.

Ogni giorno Nina Berberova, che conosce il russo e il francese, e che non ha bisogno delle traduzioni degli interpreti, redige un articolo sul dibattimento durante la notte, prima che alle sette del mattino arrivi il fattorino del giornale per ritirarlo e portarlo in redazione.

Sino a quel momento l’esistenza degli immensi campi di lavoro russi non è nota al grande pubblico. Le notizie sono trapelate, ma in modo generico, poi la guerra contro la Germania ha di fatto messo a tacere quanto era occorso negli anni Trenta nel paese. L’URSS è alleato degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Ne parla Kravčenko nel suo libro. Nell’aula del tribunale francese sfilano gli ex prigionieri di Kolyma e Karaganda. La medesima cosa è accaduta per le vicende dei lager nazisti, la cui esistenza era nota sulla stampa internazionale; c’erano state pubblicazioni, ma sino all’arrivo degli Alleati e dei sovietici in Germania nel 1945 si era trattato di poche e inascoltate persone, scampati e testimoni.

Dodici anni dopo, in un altro processo, che si può considerare parallelo di questo francese, svoltosi in un altro clima politico, verrà alla luce in modo eclatante lo sterminio degli ebrei d’Europa. Si tratta del processo ad Adolf Eichmann, il principale organizzatore della macchina di smistamento dei deportati ebrei nell’Europa occupata dalle truppe naziste. Il dibattimento contro il criminale nazista si tiene a Gerusalemme, e curiosamente è un’altra donna, una filosofa, a suo modo una scrittrice, Hannah Arendt, a rendere conto del processo del gerarca, sequestrato in Argentina dai servizi segreti dello Stato di Israele per processarlo nel 1961.

La differenza tra il resoconto di Nina Berberova e quello di Hannah Arendt è palese dal punto di vista stilistico, ma anche la prospettiva entro cui le due donne seguono i due dibattimenti è ben diversa. Per quanto entrambe scrivano per una rivista, nonostante il coinvolgimento diretto nei fatti – Berberova è uscita dall’URSS prima delle purghe staliniane che avrebbero potuto travolgerla, così come l’ebrea tedesca Arendt è scampata per un soffio all’internamento nel lager fuggendo in Francia e poi negli Stati Uniti d’America –, il loro resoconto ha una forma e un contenuto differente.

Hannah Arendt cerca di ricostruire il contesto entro cui è avvenuto lo sterminio degli ebrei, e per questo si inoltra in questioni complesse come la responsabilità dei Consigli ebraici delle zone occupate dai tedeschi, suscitando con i suoi resoconti, e poi con la pubblicazione del volume La banalità del male (titolo originale Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil), un dibattito feroce in seno al mondo ebraico americano, e non solo.

Nina Berberova non racconta cosa è accaduto in URSS, non cerca di spiegare la trasformazione della Rivoluzione d’ottobre in una sanguinaria dittatura personale; racconta piuttosto il processo nudo e crudo. Di sicuro anche lei ha degli avversari: la sinistra francese, gli antifascisti, gli ex-resistenti al nazismo, molti dei quali legati al Partito comunista francese, che non credono all’esistenza dei campi di concentramento e di lavoro, o almeno così dichiarano. Nell’aula del tribunale sono presenti Sartre, Mauriac, Aragon e altri illustri intellettuali dell’epoca. Alcuni di loro testimonieranno contro Kravčenko.

La scelta stilistica che Nina Berberova compie è quella del resoconto quasi stenografico. Trascrive e deposizioni, i dibattiti, le discussioni, i furibondi scontri che avvengono in aula. Non ricostruisce dunque la storia delle deportazioni nei gulag, ma dà voce ai testimoni a favore di Kravčenko, e anche ai suoi denigratori. La sua posizione è precisa; si capisce da come rende i toni e descrive le persone che si siedono sul banco dei testimoni. Usa l’ironia nel raccontare gli avversari di Kravčenko, cita le risate del pubblico, gli applausi, il vociare e le richieste di autografo rivolte all’autore di Ho scelto la libertà. La sua partecipazione non è distante, bensì contenuta, resa sul filo di quella saggezza che è anche uno dei caratteri principali di Il corsivo è mio. Saggezza che è intelligenza delle cose, sottigliezza, capacità di non farsi travolgere dal partito preso delle proprie idee o dalla malinconia, peggio ancora dal rancore. Le sue frasi sono secche e dirette, lontane dal risentimento.

Nina Berberova non è stata in un campo di concentramento sovietico, è una scampata alla strage degli intellettuali e scrittori sancita da Stalin. La chiave di volta del suo reportage – perché di questo si tratta, di un testo giornalistico al limite dell’asciuttezza – è la domanda di giustizia. Non per sé, ma per Kravčenko prima di tutto, e anche per gli ex deportati nei gulag. Si tratta della medesima asciuttezza ricca di sfumature che c’é nei suoi libri degli anni Trenta, della sua sottigliezza psicologica, per cui basta un piccolo accenno, uno spostamento di tono, l’uso di un aggettivo o di un sostantivo, per far capire tutto. Economia di stile e di attenzione rivolta ai personaggi di questo processo. Lo stesso sguardo che permea le sue novelle o anche i libri biografici che scriverà successivamente.

Roger Garaudy, il giovane deputato comunista che diventerà noto negli anni Cinquanta e Sessanta, per poi convertirsi all’Islam – cosa che Berberova non potrà sapere – è «un uomo ancor giovane dai capelli neri, mal rasati, con occhiali di tartaruga » e parla come « un oratore di professione ». Anche lo scrittore Vercors non esce bene dalle pagine del reportage. Sono stilettate, come quelle che la voce narrante dell’Accompagnatrice infligge ai personaggi nel suo monologo. Nina Berberova possiede l’arte dell’entomologo: infilzare i suoi personaggi con pochi tocchi di penna. Resta piuttosto scandalizzata, cosa che ricorderà ai suoi interlocutori decenni dopo, davanti alla testimonianza di un uomo di scienza come Jean Frédéric Joliot-Curie, scopritore del neutrone, Premio Nobel per la chimica nel 1935, comunista fervente, che nega l’esistenza dei campi; nel 1951 lo scienziato riceverà il Premio Stalin. Gli intellettuali francesi appaiono, con rare eccezioni, ipnotizzati dalla sirena sovietica. Nessuno leva la sua voce nel processo a favore di Kravčenko. Sarà invece la gente comune, venuta da vari paesi, a testimoniare l’esistenza di campi di lavoro con centinaia di migliaia di deportati, campi lunghi ottocento chilometri, come dirà uno di loro davanti all’esterrefatto presidente della corte.

A deporre viene una donna che ha sperimentato l’orrore dei campi staliniani e di quelli nazisti, Margarete Buber-Neumann. Sposata con il figlio del filosofo ebraico Martin Buber, aderente al partito comunista tedesco, è riparata con il secondo marito, Heinz Neumann, a Mosca; scomparso lui, è stata portata in un gulag e successivamente consegnata ai nazisti nel 1940, dopo il patto Molotov-Ribbentrop tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica. I tedeschi la destinano a Ravensbrück, cui sopravvive; lì incontrerà Milena Jesenská, l’amica di Franz Kafka, la sua prima scopritrice. Un incrocio curioso che prende forma nelle pagine di questo resoconto. Nina Berberova dedica una particolare attenzione alla deposizione di questa donna, che racconta con le sue esperienze dirette l’intreccio tra i due paesi totalitari del XX secolo. Uno dei passaggi centrali del processo, segnato dalla presenza di uno straordinario avvocato difensore di Kravčenko, Georges Izard, ex deputato socialista, delegato della Resistenza all’Assemblea consultiva, Croce di Guerra della Resistenza, riguarda la discussione intorno al manoscritto del libro dell’ex ingegnere russo. Accusato di non essere il vero autore del libro, Kravčenko esibisce in aula il manoscritto. I suoi calunniatori eccepiscono dettagli delle pagine, riscritture, correzioni, interpolazioni, parti soppresse. Nina Berberova, ben esperta in manoscritti, racconta con precisione cosa significa scrivere e riscrivere un’opera e ironizza sulle obiezioni degli avvocati di Les lettres françaises: così lavorano gli scrittori del presente e del passato.

Nel clima infuocato del processo, in un’epoca in cui ancora non esistono i cosiddetti «dissidenti russi», la denuncia dei crimini staliniani è ancora un tabù per la sinistra politica. Nina Berberova racconterà in seguito di aver provato persino paura la sera tornando verso la sua casa al Trocadéro; evitava le strade buie dal momento in cui il quotidiano del grande Partito comunista francese, L’Humanité, aveva pubblicato una sua caricatura.

La raccolta dei pezzi usciti sulla rivista russa diventerà, dopo la fine del dibattimento, a sua volta un libro, con il resoconto delle arringhe finali e il ricorso contro la sentenza di condanna da parte dei calunniatori di Kravčenko, per la seconda volta stigmatizzati dal tribunale. Un libro stampato su pessima carta, dirà la Berberova, che si disfa ben presto e viene presto dimenticato. Ristampato sulla scia della notorietà internazionale raggiunta negli anni Ottanta dalla sua autrice, anche per merito della casa editrice Actes Sud di Hubert Nyssen, Il caso Kravčenko è diventato, a partire dalla ristampa del 1990 in francese, un’opera importante per raccontare cosa è stato nel dopoguerra il sonnambulismo della sinistra e del Partito comunista nei confronti del Grande Fratello sovietico.

Un volume che si legge tutto d’un fiato, scoprendo, o riscoprendo, una narratrice di grande talento, che sa raccontare la storia di sconosciuti personaggi, uomini e donne che transitano nell’aula del tribunale per narrare le loro tragiche storie. Questo è il libro di una scrittrice, prima di tutto, che parla di qualcosa che l’Occidente non vuole sentire, un resoconto redatto con la massima sobrietà, esattezza e convinzione.

(continua in libreria…)

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