“Chiedo perdono, ma a vent’anni, con le scarpe da tennis nuove e l’arroganza di chi sa che in quel punto esatto non passerà mai più, ho sognato anche io un figlio. Maschio…”. Su ilLibraio.it un estratto da “Dare la vita”, libro postumo di Michela Murgia, in cui l’autrice, nelle ultime settimane di vita, ha raccolto i suoi pensieri. La scrittrice propone “un altro modello di maternità”, e spiega come si possa dare la vita senza generare biologicamente, come i “legami d’anima” possano sommarsi ai legami di sangue…

Il nuovo anno editoriale si apre con la voce di Michela Murgia, venuta a mancare, a soli 51 anni, lo scorso 10 agosto. Rizzoli porta infatti in libreria Dare la vita, il suo libro postumo (a cura di Alessandro Giammei), di cui pubblichiamo un estratto.

Un’opera inevitabilmente attesa, di 128 pagine, che permette di “entrare nelle infinite sfaccettature degli affetti e di comprendere come aprire all’altrə non riduce ma amplifica l’amore”.

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L’autrice (tra gli altri, di Accabadora, romanzo con cui ha vinto il premio Campiello) e attivista sarda nelle ultime settimane di vita ha raccolto i suoi pensieri, e il risultato è un pamphlet in cui ci racconta – partendo dall’esperienza personale – un altro modello di maternità, come si possa dare la vita senza generare biologicamente, come i “legami d’anima” possano sommarsi ai legami di sangue.

Si può essere madri di figlie e figli che si scelgono, e che a loro volta ci hanno scelte? Si può costruire una famiglia senza vincoli di sangue? La risposta, per la scrittrice, è sì. La “queerness familiare” è ormai una realtà, “e affrontarla una necessità politica, come lo è quella di un dialogo lucido e aperto sulla gestazione per altrə, un tema che mette in crisi la presunta radice dell’essere donne”.

Murgia, che come autrice ha esordito nel 2006 per Isbn edizioni con Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria (che ha ispirato il film Tutta la vita davanti di Paolo Virzì), negli anni è stata protagonista in tv, sui social, a teatro e in radio, ed stata è anche autrice, insieme a Chiara Tagliaferri, del podcast Morgana, con cui ha scritto due libri: Storie di ragazze che tua madre non approverebbe (Mondadori, 2019) e Morgana. L’uomo ricco sono io (Mondadori, 2021).

Tra le sue opere, anche, Ave Mary (2011), Chirù (2015), Istruzioni per diventare fascisti (2018), Stai zitta (2021), Noi siamo tempesta (2019) e God Save the queer. Catechismo femminista (2022) e l’ultimo libro, Tre ciotole – Rituali per un anno di crisi (2023).

Dare la vita di Michela Murgia, libri da leggere 2024

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo in esclusiva un brano:

Chiedo perdono, ma a vent’anni, con le scarpe da tennis nuove e l’arroganza di chi sa che in quel punto esatto non passerà mai più, ho sognato anche io un figlio. Maschio.

Nel sogno era scuro di capelli, aveva un nome di tre sillabe e lo davo alla luce faticosamente, ché a vent’anni i drammi sono tutti desiderabili, il dolore è un belletto vitale che regala fascino, e le lacrime lo spalmano sulle guance rendendoti fatale come una Turandot. Nella mia testa quel parto scenografico è avvenuto mille volte, e la sofferenza era una forma di eleganza, la sfumatura più elevata di una maternità verace. Non c’era un uomo a far da padre, non ne serve uno per partorire con dolore. Nel mondo in frantumi dei miei vent’anni l’unico padre pronunciabile era il Padre Nostro, pregato con la fiducia incosciente di chi ancora non si è sentito chiedere niente da sacrificare. Nel mondo in frantumi dei miei vent’anni, io credevo di essere nata con una sola cosa intera per le mani: l’istinto materno, la vocazione all’essere ventre, come le brocche d’olio in magazzino, o come le tombe spezzate di Tharros, gravidanze interrotte in attesa di un giudizio universale. Nel mondo in frantumi dei miei vent’anni non dovevo cercare alcun perché all’esistere, mi sarebbe bastato trovare un per chi. Sposa di qualcuno, madre di chiunque, io non sapevo cosa fosse la vocazione a essere me.

Quando i vent’anni passano un figlio smette di essere materiale da sogno e diventa un atto sovversivo. Dopo i trent’anni siamo tutti dei sopravvissuti, e i figli dei sopravvissuti sono gravidanze a rischio anche quando non li fai, anche quando li pensi e basta, perché non c’è pensiero che possa ancora dirsi innocente. Quando si comprende che orizzonte è solo un altro nome per chiamare il limite, ogni possibilità diventa una rischiosa tensione all’utopia. A quello stadio, se ancora figlio deve essere, non può più essere maschio. Sarà femmina, e non avrà occhi facili. Vorrà sapere. Seduta sulle mie ginocchia mi chiederà chi è e chi siamo, e le mie risposte non uccideranno le sue domande. (…)

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