Come siamo diventati questo prodotto perpetuamente in vetrina? Come si può uscire da questo commercio delle nostre radiografie, da questa illusione che conoscerci significhi amarci, da questo terrore che, se non ci raccontiamo abbastanza, niente di ciò che facciamo o sappiamo conti? Dopo “L’era della suscettibilità”, Guia Soncini torna con “L’economia del sé – Breve storia dei nuovi esibizionismi” – Su ilLibraio.it un estratto dal capitolo “Battute argute di architetti postmoderni”

Da quando il proprio ombelico è diventato il punto di osservazione privilegiato per guardare il mondo e perché ci illudiamo che il nostro penzierino sul tema del giorno sia davvero rilevante per qualcuno? Da quando la nostra principale occupazione è vendere sui social merci assortite, la più importante delle quali siamo noi stessi? Tra narcisismi quotidiani, paradossi e varie mitomanie, Guia Soncini, dopo aver fatto molto parlare l’anno scorso con L’era della suscettibilità, torna in libreria sempre per Marsilio con “un viaggio nella fiera della vanità dei nuovi esibizionismi, dove la vera tragedia è non essere instagrammabile”.

Anche L’economia del sé – Breve storia dei nuovi esibizionismi è un libro attuale, e ricco di esempi: sposarsi, ammalarsi, violare gli arresti domiciliari, litigare con le amiche, sono solo alcune delle cose che una volta si facevano in privato e che oggi persone comuni e personaggi noti preferiscono fare in mondovisione. Del resto basta un telefono. “Come siamo diventati questo prodotto perpetuamente in vetrina? Come si può uscire da questo commercio delle nostre radiografie, da questa illusione che conoscerci significhi amarci, da questo terrore che, se non ci raccontiamo abbastanza, niente di ciò che facciamo o sappiamo conti? Come può il nostro equilibrio sopravvivere a psicologhe che si autoscattano in bikini; e il nostro rispetto per l’autorevolezza degli intellettuali restare integro di fronte a professionisti che ci invitano a mettere like alla loro analisi geopolitica ma anche alle loro foto delle vacanze?”.

Sono solo alcune delle domande da cui parte Soncini per la sua nuova indagine, individuando alcuni punti chiave di questa religione ombelicale, a cominciare dal momento in cui Chiara Ferragni ha inventato l’economia del sé e risalendo fino a Monica Lewinsky, colei che sarebbe potuta diventare la vittima e l’eroina, tutto nella stessa storia, raccontata da sé stessa coi nuovi mezzi che il mondo le metteva a disposizione.

Tra le ingenuità della militanza su internet e l’esibizionismo bipartisan che annulla ogni differenza anche in politica, un viaggio nella livella social che rende uguali il calciatore e l’intellettuale, la influencer e la deputata, dove “la merce siamo noi, nessuno si senta escluso”. L’alternativa sarebbe spegnere la telecamera. Decidere che non stiamo più in vetrina, che non ci interessa metterci in commercio, che vogliamo tornare a quell’anticaglia che è la vita privata. Ma possiamo permettercelo?

Guia Soncini L’economia del sé Breve storia dei nuovi esibizionismi

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto dal capitolo Battute argute di architetti postmoderni:

Battute argute di architetti postmoderni

Purtroppo sarò morta di vecchiaia per allora, ma in futuro i neurologi scopriranno che le sinapsi di chi è cresciuto guardandosi in uno schermo sono diverse da quelle che era fin lì normale gli esseri umani avessero.

Tra le bottegaie di Instagram si porta molto la campagna contro i filtri fotografici: non bisogna usarli, è diseducativo, bisogna dire alle ragazzine che sono belle al naturale, altrimenti si abituano a vedere una loro versione migliorata sullo schermo e poi si vergognano di mostrarsi dal vero al fidanzatino (mi stupisco che una qualche destra non s’approfitti di questa tendenza, ammesso esista davvero, per riconquistare il territorio della verginità prematrimoniale: fino alla maggiore età ci s’incontra solo coi filtri).

Temo che la verità sia meno rassicurante: il filtro è un’illusione che serve alle normali, mica alle belle. Ai miei tempi, tempi in cui le belle facevano le modelle su giornali patinati sulle cui pagine non potevamo apporre cuoricini ma che strappavamo per appenderle in cameretta, c’illudevamo fossero le luci, e il trucco, e la bravura del fotografo: senza, sarei così anch’io.

Adesso, la bella che usa il filtro lascia che tu t’illuda che senza sarebbe una qualunque (macché: la genetica è quanto di più iniquo). E tu, che non sei un granché, usando il filtro puoi divenire caruccetta. Dirti che non devi usarlo è come dirti che non devi truccarti: cosa siamo, mormoni?

Il punto è che il problema non sono i filtri. Il problema è rimirarsi per così tanto tempo ogni giorno. È diventato un problema collettivo durante la pandemia, quando eravamo tutti in riunione su Zoom o affini – e ci siamo rimasti: chi mai più prenderà un treno per andare a fare a cinquecento chilometri una riunione che ha scoperto di poter fare dal divano.

Io non so niente di nessuna riunione fatta su Zoom cui abbia partecipato, o di nessun programma televisivo con cui mi sia collegata da casa: non sono in grado, se mi metti davanti a un monitor che mi rimandi la mia immagine, di ascoltare nessuno dei dibattenti, giacché sono troppo impegnata a pensare «ma com’è possibile che i capelli mi stiano così male, ho fatto la messinpiega un’ora fa, capelli del genere meriterebbero una pensione d’invalidità».

«Abbiamo facce che non conosciamo», cantava Ligabue nel 1997, dieci anni prima che si diffondessero i telefoni con le telecamere e finissimo tutti sui social e ci fosse impedito d’ignorare ogni dettaglio della nostra faccia in ogni istante. Lo cantava in una canzone che parlava di quelli che stanno sul palco, prima che stare sul palco diventasse il secondo lavoro di tutti quanti: se citofona il portiere fingete di non essere in casa perché sapete che sì, deve darvi la posta, ma con l’occasione vi chiederà anche se potete mettere un like alla buca che ha fotografato taggando il sindaco da cui vuole farsi notare. «Le canzoni hanno tenuto compagnia alla gente che lavorava con la schiena piegata, o hanno aiutato i soldati a morire, o hanno deciso le ragazze a innamorarsi», scriveva Ettore Sottsass1, ignaro che avessero anche avvertito gli studiosi di come sarebbe andata la deriva esibizionista, senza che gli studiosi lo capissero.

Avere la propria faccia davanti per ore non è normale, non è naturale, non è sano.

Prima dei telefoni con la telecamera – i veri responsabili di questo disastro, altro che i social – era una cosa che capitava solo a chi viveva in una casa foderata di specchi, o a chi faceva il conduttore televisivo e aveva sempre un monitor all’angolo della visuale periferica: due categorie non esattamente note per l’equilibrio psichico.

Non vorrei eccedere nell’assoluzione dei social. Diciamo allora che loro sono responsabili dell’urgenza di esprimerci sempre, su tutto, istantaneamente, senza freni, senza ritegno, senza rete. Una specie di Tourette collettiva. L’opinionismo come disturbo neurologico. Chissà come faceva Guccini, quando nel 1987 incise Signora Bovary, a sapere che vent’anni dopo sarebbe arrivato Twitter, e a sintetizzarlo così precisamente nel verso che dà il titolo a questo capitolo.

Precedenti a quelle dei social sono le colpe di Radio Radicale, e dei suoi microfoni aperti che facevano sembrare Gianfranco Funari un raffinato politologo. Ma, a parte chi era abbastanza disturbato da chiamare una radio quando i telefoni erano attaccati al muro e le telefonate si pagavano, c’era un filtro alla nostra smania di dir la nostra, e quel filtro era fatto di ostacoli pratici. Per dire a qualcuno che il suo articolo ci faceva schifo dovevamo scrivere una lettera, andare a comprare un francobollo, trovare una buca. Adesso, nel tragitto in metrò da casa all’ufficio, possiamo criticare il sindaco che è sicuramente colpevole del nostro non trovare mai parcheggio sotto casa, un editorialista di cui abbiamo letto solo il titolo, e il conduttore televisivo che abbiamo guardato la sera prima già spiegandogli come si fa il suo mestiere, incapace che non è altro, ma è il caso di rincarare, dobbiamo proprio ribadirgli che quello sull’altra rete è molto meglio. E tutto questo gratis. Non si può dire che quello delle compagnie telefoniche non sia welfare, e che non contribuisca alla normalizzazione di comportamenti che una volta erano prerogativa dei picchiatelli che facevano volontariato degli spot urlando «Italia 1» o salutavano dietro l’inviato del tg.

Nel 2021 una delle più brave giornaliste americane, Caitlin Flanagan, ha scritto sull’Atlantic un articolo sul suo tentativo di disintossicarsi da Twitter. Con tutti i sintomi di quella che, quando da piccola leggevo I ragazzi dello zoo di Berlino, si chiamava ròta: la crisi d’astinenza. C’era tutto, riconoscevo tutto. Il sospirare nostalgico che, se aveva letto per intero La fiera delle vanità (tra le settecento e le novecento pagine, a seconda delle edizioni), era solo perché era un libro capitatole sott’occhio quando Mark Zuckerberg era ancora un bambino. Il pensare: ce la posso fare, è l’impegno al novantanove per cento che è faticoso, ma il mio impegno a star lontana da Twitter è al cento per cento; e subito dopo pensare: questa frase sarebbe un tweet perfetto. Il figlio luddista che le suggerisce di leggere Simone Weil sostituendo «Twitter» a «partiti politici» in tutte le frasi in cui la Weil invoca l’abolizione dei partiti. (Le poche persone che si astengono dai social guardano a queste nostre smanie come io guardo ai giocatori di golf: poverino, sembrava normodotato).

C’era tutto, annuivo fortissimo, epperò a un certo punto ho avuto una certa qual sensazione di déjà-vu. Sono andata a cercare in tre angoli di casa diversi, e alla fine ho trovato il libro di cui mi ricordavo vagamente. Con tutte le sue brave sottolineature. L’aveva scritto una delle più brave giornaliste inglesi, Grace Dent. L’avevo letto nel 2011. How to leave Twitter. Già dieci anni prima. La disintossicazione della marmotta.

[1] Ettore Sottsass, Di chi sono le case vuote?, Milano, Adelphi, 2021, p. 172.

(continua in libreria…)

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