“Occorre dire la verità agli italiani: non si possono salvare tutte le aziende e tutti i posti di lavoro. I lavoratori devono essere accompagnati e sorretti, ma sarebbe illusorio pensare che quelle occupazioni che non hanno più ragione di esistere nel mercato, possano essere in qualche modo tutelate da un intervento dello Stato. Lo Stato non può fare tutto”: “Le cose che non ci diciamo (fino in fondo)” è il nuovo saggio di Ferruccio de Bortoli. L’ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore, editorialista e attuale presidente della Longanesi, ne parla in un’intervista a ilLibraio.it, in cui sono tanti i riferimenti all’attualità, alla pandemia e a quello che ci aspetta nei prossimi anni: “Ho fatto un appello al privato sociale: dobbiamo sostenere gli studi dei ragazzi che non riescono a farlo, perché magari sono scivolati insieme alle loro famiglie nella povertà”

Occorre essere schietti e non indugiare nei giri di parole. Perché sì, stiamo attraversando uno dei periodi più complessi e dagli esiti imponderabili della storia del mondo globalizzato, ma non per questo è il momento di indorare la pillola. Anzi, può essere l’occasione giusta per prendere di petto quelle storture, considerate endemiche, che hanno contribuito a portarci fin qui, ad affrontare il primo Natale dell’Italia divisa per colori, costretti a rinunciare a porzioni di libertà in virtù di un bene più grande che temiamo tardi ad arrivare. E allora risulta un ottimo vaccino contro chi vuole nascondere la testa sotto la sabbia e negare l’evidenza, l’ultimo saggio di Ferruccio de Bortoli, Le cose che non ci diciamo (fino in fondo), edito da Garzanti.

L’editorialista del Corriere della Sera rifugge la narrazione di comodo che ci esenta dalle responsabilità personali e collettive e invita a prendere consapevolezza delle verità scomode di cui abbiamo bisogno per non sprecare l’ennesima opportunità di riscatto. Lo fa citando spesso articoli di giornali, italiani e internazionali, che con lucidità hanno costruito un discorso di trasparenza con i propri lettori in questi mesi di emergenza. Ma ricorre spesso anche all’arte: per evidenziare le ingerenze dello Stato Imprenditore si avvale degli acquerelli e delle parole, non prive di punte di perfidia, di Giorgio De Chirico, cui l’IRI (l’Istituto per la ricostruzione industriale) commissionò nel 1961 dieci opere.

Oppure, per raccontare Milano, la sua ferita aperta e i troppi silenzi, menziona gli scatti del capoluogo lombardo deserto realizzati alcuni anni fa dal compianto Gabriele Basilico, che poco hanno a che fare con quelli senza folla di oggi.

La stessa Milano del celebre dipinto la Città che sale di Umberto Boccioni, ma anche quella del ciliegio di Gerusalemme, sorto dall’asfalto in via Canonica, metafora di speranza e di resilienza.

Per de Bortoli è resilienza la parola dell’anno. La associa alla preghiera di Papa Francesco sul sagrato di San Pietro, spettralmente vuoto, lo scorso marzo, ma anche ad un episodio che gli riferì Indro Montanelli a proposito di una mela tagliata a metà dall’allora presidente Luigi Einaudi: si condivide ciò che si ha e non si spreca nulla.

“Un Paese che investe poco, come il nostro, vive di rendita”. Siamo afflitti da un “vittimismo di massa” per cui è sempre colpa degli altri (l’Europa, la globalizzazione, i poteri forti) e persino il debito pubblico, nonostante tutto, non sembra essere una nostra preoccupazione. Nemmeno adesso che, dopo i necessari interventi per l’emergenza sanitaria, corre verso il 160% del Pil. Eppure le risorse, anche quelle del Recovery Fund, non sono illimitate.
“È chiaro che in una fase di difficoltà così drammatica come quella che stiamo vivendo non possiamo che aiutare le categorie più colpite dalla pandemia. Ma proprio per questa ragione abbiamo ancora di più il dovere di non disperdere le risorse già scarse, magari in inutili bonus e sussidi a lobby o a soggetti che patrimonialmente possono consentirsi di trascorrere e di superare questo periodo di assoluta instabilità. Il mio è un richiamo al fatto che non si può vivere in eterno facendo dei debiti, e che per distribuire bisogna produrre. E per produrre occorre lasciare più libere le imprese”.

Lei a tal proposito parla di accountability, ovvero di quella regola che governa le democrazie economiche più evolute verso la responsabilità nell’uso delle risorse pubbliche e il dovere morale di essere scrupolosi e onesti nel rendiconto. Il nostro Paese ne è capace?
“Occorre dire la verità agli italiani: non si possono salvare tutte le aziende e tutti i posti di lavoro. I lavoratori devono essere accompagnati e sorretti, ma sarebbe illusorio pensare che quelle occupazioni che non hanno più ragione di esistere nel mercato, possano essere in qualche modo tutelate da un intervento dello Stato. Lo Stato non può fare tutto: non può proteggere, non può sussidiare, non può fare l’imprenditore di ultima istanza. Questo è il discorso di verità che non stiamo facendo”.

Ha citato i bonus. Per rispondere all’emergenza della pandemia, il governo Conte ha varato 45 misure agevolative tra crediti, contributi a fondo perduto, esenzioni e benefit. Il bonus diventa una sorta di “stupefacente normativo”, lei scrive, a danno del contribuente che non ha – e questo è il paradosso italiano – lo stesso potere di lobby persino di piccolissime categorie. Come mai?
“In questi casi la spesa pubblica è finanziata in deficit, quindi si contrae nuovo debito e comunque il bilancio dello Stato è sostenuto dalle entrate fiscali, cioè dai contribuenti che pagano le tasse. E noi, come contribuenti, non saremmo felici di disperdere i nostri soldi e neanche di investirli in attività che non hanno alcuna possibilità di procurare una redditività sufficiente. Va fatta una premessa: il governo si è trovato di fronte a una emergenza eccezionale, e con la seconda ondata non può che aiutare, ma non può aiutare all’infinito”.

Si è parlato per Natale di un ulteriore bonus indirizzato ai cassaintegrati. Che ne pensa?
“Se fossi un cassintegrato preferirei un governo che finanzia le politiche attive, cioè che si occupa del mio destino come lavoratore, magari investendo nella formazione in modo da consentirmi di trovare un altro impiego. Invece l’esecutivo dà la sensazione di finanziare la cassa integrazione fino al 31 marzo 2021 come semplice ristoro. È ovviamente una scelta miope, per cercare di evitare dei contrasti sociali, ma inevitabilmente i contrasti sociali esploderanno nel momento in cui finirà la moratoria dei debiti e in cui si potrà tornare a licenziare. Dire adesso le cose come stanno serve anche a preparare il terreno a quello che accadrà. E speriamo che non accada in termini drammatici”.

L’APPUNTAMENTO SU FACEBOOK: mercoledì 9 febbraio, alle 18, per il format LibLive Ferruccio de Bortoli dialoga con Federico Fubini (in libreria con il saggio Sul vulcano, Longanesi) sulla pagina Facebook de ilLibraio.it. Modera la giornalista Alessia Liparoti

A proposito di debito pubblico, la Chief Economist del Fondo Monetario Internazionale, Gita Gopinath, ha dichiarato: “Il debito non sempre semina distruzione”. Eppure David Sassoli, Presidente dell’Europarlamento, ha suscitato vaste polemiche, ipotizzando di cancellare i debiti contratti per fronteggiare la pandemia. Chi ha ragione?
“Un debito buono, per usare una definizione di Mario Draghi, è un debito che investe per creare reddito futuro, nuovi posti di lavoro, per aumentare la formazione del capitale umano. Diventa così un modo attraverso il quale si garantisce una crescita della produttività, che nel nostro Paese è ferma da 30 anni. Se si contrae debito per investire bene, quello è un debito buono che non genera preoccupazioni sui mercati. Ciò che ha detto Sassoli è una fesseria e il giornalista che ha ripreso le sue dichiarazioni avrebbe dovuto essere più cauto, sapendo quali interpretazioni, anche eccessive, sarebbero potute scaturire. Dire ‘non paghiamo i nostri debiti’, prima che si debbano pronunciare 27 Parlamenti sul Next Generation EU che prevede sussidi e prestiti all’Italia per 209 miliardi, è una forma di autolesionismo”.

Gli italiani sono spesso vittime di autolesionismo. Eppure, durante i mesi del coprifuoco sanitario, ci siamo comportati bene. Il Paese ha sprigionato nuove “energie morali e civili” per citare il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Lei stesso, pur non potendo preconizzare la pandemia, nel titolo e nel sottotitolo del suo precedente saggio, Ci salveremo. Appunti per una riscossa civica (Garzanti, 2019) ha anticipato quella che si sarebbe rivelata una risposta al contagio persino esemplare.
“Durante la prima ondata della pandemia siamo stati attenti e responsabili. Si può discutere sul rilassamento estivo, ma penso che le polemiche siano infondate: gli italiani sono tornati a vivere, forse sarà venuta meno qualche precauzione, però, tutto sommato, se ci paragoniamo alla Francia e persino alla più disciplinata Germania, non siamo stati incoscienti. Abbiamo discusso a lungo delle movide, delle discoteche, ma anche riaprendo le scuole ci si è esposti a un pericolo”.

È un rischio che dovevamo prendere.
“Certo: un Paese che non riapre le scuole cancella il proprio futuro. E i giovani devono capire e imparare che si devono comportare in maniera responsabile. Discorso a parte meritano i negazionisti: i nostri sono avanspettacolo rispetto a quelli d’Oltralpe. Sarei molto preoccupato se vedessi sfilare per le nostre strade masse di persone come quelle scese in piazza in Germania, tra l’altro sostenute dai partiti presenti nello stesso Bundestag”.

Riguardo alla scuola lei scrive: “Sulla didattica a distanza – così come sullo smart working – si è consumata un’altra commedia italiana degli equivoci lessicali. Come se la formula tecnologicamente avanzata avesse già in sé tutti gli elementi positivi dell’istruzione o del lavoro”. E invece sappiamo che non è così. Lei ha lanciato un importante appello dalle pagine del Corriere con delle proposte concrete. Le può illustrare?
“Le proposte consistono nell’occuparci della formazione del capitale umano. Noi abbiamo un tasso di laureati che è il più basso della media europea. Per fortuna le immatricolazioni non sono scese in questo anno accademico, come invece era accaduto con la precedente crisi del 2008-2009. Abbiamo poche borse di studio, abbiamo oltre due milioni di ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano. Ho fatto un appello anche al privato sociale: dobbiamo occuparci di questi ragazzi, dobbiamo sostenere gli studi delle persone che non riescono a farlo perché magari sono scivolate insieme alle loro famiglie nella povertà. Gli investimenti previsti dai governi europei vanno nel verso dell’inclusione, della digitalizzazione, della transizione energetica, ma soprattutto si preoccupano del capitale umano delle prossime generazioni”.

Un po’ diversa dalla “visione collodiana degli allievi”, come fossero statuine immobili da spostare a piacere secondo l’analisi critica di Tito Boeri su Repubblica.
“Occorre che i ragazzi si sentano al centro della società e non emarginati o costretti a emigrare. Il nostro Paese si sta svuotando di giovani. Non è sotto l’assedio degli immigrati, al di là di qualche episodio magari gestito male con le successive polemiche. Ci troviamo di fronte a un richiamo morale: cosa stiamo facendo per i nostri figli e per i nostri nipoti? Stiamo compiendo gli stessi sacrifici che hanno fatto i nostri genitori e i nostri nonni per farci studiare e per farci stare meglio?”.

Non a caso uno dei capitoli del suo libro si intitola: “Il futuro non esiste, tanto vale rovinarlo”. “Non sono sicuro di voler fare qualcosa per i posteri, del resto loro che cosa hanno fatto per me?”: citando Oscar Wilde lei si auspica la stessa sincerità da parte dei promotori di quei provvedimenti che definisce “sciagurati”: Quota 100 e reddito di cittadinanza. Perché non riusciamo ad essere lungimiranti?
“Questo accade perché le corporazioni, nel nostro Paese, contano troppo e i giovani non sono rappresentati. C’è una classe dirigente inadeguata, che non ha una visione né uno sguardo di lungo periodo. È preoccupata solo di ottenere un consenso immediato, il futuro può anche cancellarlo. Lei ha citato due misure, prese dal precedente governo. Se pensiamo a Quota 100, anche solo basandoci su ciò che ha scritto la Corte dei Conti, è stato un fallimento poiché non ha liberato spazio, come si prometteva, per chi si affaccia per la prima volta al mondo del lavoro. È un peso in più, come debito, che noi abbiamo scaricato sulle prossime generazioni. Attraverso Quota 100 sono andati in pensione più di 7.000 medici e infermieri di cui in questo momento abbiamo un bisogno disperato”.

E riguardo al reddito di cittadinanza?
“Il reddito di cittadinanza è stato approvato anche con l’impegno che avrebbe in qualche modo prodotto un passaggio dalla disoccupazione all’occupazione: i risultati, da questo punto di vista, sono assai modesti. In alcuni casi, considerando l’aumento della povertà, resta uno strumento necessario, ma le modalità attraverso le quali viene erogato non sempre vanno a vantaggio delle famiglie più povere e quindi spesso raggiunge persone che potrebbero farne a meno”.

Così si creano ulteriori disuguaglianze, che la pandemia ha accentuato: da una parte nuove e profonde sacche di povertà e dall’altra coloro che si sono arricchiti, alla stregua di quanto ricostruisce Fabio Ecca nel suo Lucri di guerra (Viella, 2017) a cui lei fa riferimento in merito al meccanismo speculativo delle forniture sanitarie, identico a quello delle armi nell’urgenza drammatica di un conflitto. Come si può scongiurare tutto questo?
“Penso che si debba tornare a guardare alla crescita, senza la quale noi non sosterremo il debito. E la crescita si fa aumentando la concorrenza e avendo attenzione per il mercato. Il mercato non è una sorta di giungla nella quale vince il più forte, ma, se ben disciplinato e con delle regole certe, fa sì che le persone che hanno possibilità, possano aprire un’attività, fondare un’impresa, trovare il lavoro e cambiarlo. Il nostro è il Paese con il più basso tasso di crescita di aziende fondate dai giovani e stiamo trasmettendo loro un messaggio sbagliato, come se lo Stato potesse fare tutto e loro aspettarsi una sorta di benessere di cittadinanza che non esiste. Sì, perché i bisogni, anche quando sono reali e drammatici, hanno dei costi. Non esistono dei pasti gratis e quello che non paghiamo oggi, lo pagheremo per dieci anni, magari nell’illusione che i debiti possano essere cancellati”.

Un’illusione molto pericolosa.
“Sì, perché fa in modo che ogni spreco venga tollerato, ogni richiesta non fondata, soddisfatta. Questo è il problema di fondo. Bisogna dire al Paese di recuperare uno spirito di riscatto: si devono fare dei sacrifici e andare incontro a dei rischi, lottare, come abbiamo fatto per la sopravvivenza del dopoguerra e ci siamo risollevati. Lo hanno fatto i nostri genitori e hanno creato il miracolo economico. Non si aspettavano che lo Stato portasse a casa loro tutto. Dobbiamo uscire da questa idea che possiamo essere assistiti e sussidiati. Serve aiutare quelli che hanno bisogno e chi ha guadagnato di più, dovrà pagare più tasse. Si tratta di equità fiscale. Sta passando il messaggio che grazie ai programmi europei potremo ridurre le tasse, ma non è così. Si riducono le tasse spendendo meglio i soldi. I 6 miliardi per la sanità li abbiamo spesi tutti bene? Vedo servizi giornalistici che mostrano l’acquisto di macchinari rimasti nei depositi e con cui avremmo potuto creare nuove terapie intensive. Pagherà qualcuno per questi sprechi?”.

 

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