“Avevo scelto questa strada perché animato da un ideale di purezza, di giustizia, di lealtà, di un mondo che non trovavo nella società. Mi resi presto conto che nel mondo religioso la situazione era forse peggiore, perché la stessa cupidigia, l’interesse, l’ipocrisia, la vanità, l’ambizione che avevo trovato nel mondo del lavoro, nel servizio militare, e che tanto mi avevano deluso, li ritrovavo tali e quali nei conventi, ma mascherati e camuffati dalla pratica religiosa, dalla scrupolosa osservanza delle regole, un mondo dove l’apparenza nascondeva il nulla, solo foglie per coprire l’assenza di frutti…”. Su ilLibraio.it un estratto dal nuovo libro di frate Alberto Maggi, l’autobiografico “Due in condotta”

UN LINGUAGGIO UNIVERSALE

Al termine dell’anno di noviziato, quando si dovevano emettere i primi temporanei voti di povertà, castità e ubbidienza, il priore del convento e il maestro dei novizi mi convocarono e venni così a sapere che l’unico a non essere ammesso ero io. Lessero la relazione finale su di me ed era negativa: «Non adatto alla vita religiosa per il suo carattere entusiasta: può cedere alle prime inevitabili difficoltà e delusioni».

Se è pur vero che sono entusiasta, sono anche testardo, e non mollai, insistetti, assolutamente certo che quella fosse la mia strada. Nonostante la delusione e anche l’umiliazione, non pensai minimamente di tornare indietro e così mi concessero dei mesi supplementari nei quali mi sentivo come un sorvegliato speciale, controllato in ogni mossa. Mi comportai normalmente in quel periodo di prova, senza fingere o nascondere emozioni. Mi incoraggiava e dava forza un versetto della Bibbia, che ripetevo nei momenti difficili: «Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione» (Siracide 2,1). Affrontavo le difficoltà come una tentazione, mirata a farmi desistere dalla mia scelta e non mollai.

Seppure con ritardo, fui ammesso all’emissione dei primi voti, quelli che si rinnovano annualmente, e mi avviai agli studi di filosofia e teologia presso la Facoltà teologica Marianum, a Roma. Anche qui, dopo tre anni, quando con gli altri miei compagni di corso dovevo essere ammesso alla Professione solenne (i voti perpetui), ancora una volta fui l’unico a non essere accettato. La motivazione? La stessa del noviziato: «Carattere entusiasta, non adatto alla vita religiosa…».

Facevo fatica a comprendere il perché del rifiuto. Che male c’era a essere entusiasta, allegro, gioioso? Perché mai l’allegria era considerata incompatibile con la vita religiosa? Non venivo meno ai miei doveri di frate, studiavo, pregavo, lavoravo, con impegno, e sempre col sorriso, e forse era questo che disturbava o stonava in quell’ambiente.

Ne ebbi la conferma in seguito, quando, terminati gli studi teologici, iniziai la vita conventuale vera e propria. Avevo scelto questa strada perché animato da un ideale di purezza, di giustizia, di lealtà, di un mondo che non trovavo nella società. Mi resi presto conto che nel mondo religioso la situazione era forse peggiore, perché la stessa cupidigia, l’interesse, l’ipocrisia, la vanità, l’ambizione che avevo trovato nel mondo del lavoro, nel servizio militare, e che tanto mi avevano deluso, li ritrovavo tali e quali nei conventi, ma mascherati e camuffati dalla pratica religiosa, dalla scrupolosa osservanza delle regole, un mondo dove l’apparenza nascondeva il nulla, solo foglie per coprire l’assenza di frutti («non trovò altro che foglie», Marco 11,13).

E così mi resi conto ben presto che il voto di obbedienza, per molti, si traduceva in un ruffiano, meschino, interessato servilismo, e che i frati apparentemente più ubbidienti erano quelli che in realtà bramavano poi di poter comandare a loro volta. Con il voto di povertà si sublimava e nascondeva la più gretta avarizia, e la castità, più che generare persone caste, le trasformava in castrate. La repressione dell’affettività finiva per renderle disumane.

Per questo, nella gran parte dei conventi, la vita era senza slanci, senza profezia, senza Spirito. Per lo più i frati continuavano a ripetere, stancamente e senza convinzione, gesti e riti che erano stati a essi trasmessi e ripetevano senza creare. Qualunque tentativo di aprirsi alla novità, di tentare nuove modalità di vivere la vita religiosa, anche se minime, veniva inesorabilmente respinto come diabolica tentazione: «Si è sempre fatto così, perché cambiare?».

Ma lo Spirito non si manifesta nel ripetere, bensì nel creare, e la Bibbia insegna che chi guarda al passato si esclude dall’azione del Signore, quello stesso Dio che invita a non guardare sempre indietro, altrimenti si rischia di non accorgersi delle meraviglie che il Creatore instancabilmente propone per la vita delle sue creature («Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» Isaia 43,18-19).

In molti conventi tutto quel che è nuovo veniva visto con sospetto, come una tentazione o un tradimento del venerato glorioso passato religioso. E io sentivo mancarmi l’aria, l’ossigeno vitale, e il fumo dell’incenso non bastava a coprire il tanfo del chiuso, dell’acre odore della naftalina nella quale molti religiosi si erano volontariamente imballati e mummificati. Certamente questi frati si conservavano incorrotti, ma erano come involucri senza vita, e l’attaccamento alla tradizione era come un immacolato sudario che copriva la putrefazione, sepolcri imbiancati dai quali Gesù invita a stare alla larga, perché se «all’esterno appaiono belli, dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume» (Matteo 23,27).

Tra le mura dei conventi sembravano albergare per lo più degli uomini delusi, amareggiati, depressi, senza entusiasmo, certamente zelanti nelle preghiere, ma poi incapaci, a tavola, di scambiarsi una sola parola. Avevano parlato con Dio, che bisogno c’era di parlare anche con il fratello? Credevano di onorare il Signore, ma ignoravano la sua presenza nel vicino. Frati che nella celebrazione eucaristica si scambiavano ritualmente, senza trasporto, il segno della pace, ma conservavano nel cuore rancori e recriminazioni. Religiosi devotissimi della Madonna, ma minimamente sfiorati dall’idea di mettersi, come lei, al servizio delle persone.

Come aveva ragione Gesù, quando definiva commedianti le persone religiose! (Marco 7,6). Tanta scrupolosa devozione per il Santissimo Sacramento, e ignorare il fratello accanto non sembrava una contraddizione, ma la pratica pressoché abituale. Molti di questi frati erano entrati in convento certamente animati da generosi slanci d’amore e pensavano di trovare comunità di fratelli che si volevano bene, che si amavano vicendevolmente l’un l’altro, secondo l’insegnamento di Gesù (Giovanni 13,34). Si ritrovavano invece a vivere in comunità dove, a malapena, ci si sopportava, se non ci si detestava cordialmente. Celebravano la Giornata di preghiera per le Vocazioni e si meravigliavano che il Signore non ascoltasse le loro suppliche, non inviasse neanche un giovane in convento. Vedendo la triste realtà conventuale, io mi meravigliavo non che non entrassero, ma che non fossero scappati via quelli che ancora resistevano.

E quei rari frati che, spinti e animati dallo Spirito, tentavano tenacemente di aprire nuove strade, come padre Giovanni Vannucci e David Turoldo, quando andava bene, erano considerati bizzarri, se non eretici, fuori della Chiesa, e venivano ostacolati, emarginati, derisi, umiliati, isolati e puniti. Salvo poi celebrarli, dopo morti, come profeti, e farsene un vanto, confermando le severe parole di Gesù: «Guai a voi, che costruite i sepolcri dei profeti, e i vostri padri li hanno uccisi» (Luca 11,47).

Credevo, e continuo a credere, nella validità e nell’importanza della vita religiosa. Ma questa non può consistere nel ripetere modi di vita del passato, bensì nel crearne dei nuovi, che esprimano la relazione con Dio e con gli uomini in forme nuove, originali, creative. Solo così si è certi di essere sempre in comunione con quel Dio che continuamente fa «nuove tutte le cose» (Apocalisse 21,5).

Per questo, malgrado le cocenti delusioni, andai avanti, e seppure con un anno di ritardo, fui infine ammesso alla professione solenne, nonostante il parere contrario e il disappunto dello stesso priore generale, un nordamericano totalmente estraneo alla cultura europea, che non mi perdonava il fatto che gli avessi detto apertamente quel che tutti pensavano, ma nessuno osava dirgli in faccia. Infatti gli dissi che per il bene dell’ordine avrebbe dovuto dare le dimissioni. Non me lo perdonò mai.

Non venni neanche ammesso all’ordinazione presbiterale, perché definito «non cattolico», ma questo l’ho già raccontato in Chi non muore si rivede

Deluso, negli anni giovanili, dalla vita civile, da quella militare e perfino da quella religiosa, con la maturità compresi che non dovevo attendermi un mondo ideale che fosse disposto ad accogliermi, ma che dovevo costruirlo, non aspettarmi il paradiso, ma tentare di realizzarlo. E così nel 1995, con lo spagnolo Ricardo Pérez Marquez, mio confratello, realizzammo il Centro Studi Biblici di Montefano, dedicato a Giovanni Vannucci, per lo studio e la divulgazione dei vangeli. Laureato in arte, Ricardo ha contribuito con la sua sensibilità artistica a creare un luogo che fosse all’insegna del bello (categoria che tutti percepiscono e comprendono). In seguito il Centro è stato arricchito dalla presenza di un laico, l’artista portoghese Amaro della Quercia, capace di esprimere nel disegno profondi concetti teologici. E così ci siamo impegnati a costruire, giorno dopo giorno, un luogo dove ogni persona, credente e no, si potesse sentire sempre accolta e mai esclusa, ascoltata e mai giudicata. Una comunità religiosa che fosse profondamente umana e il cui tratto distintivo fosse la disponibilità e la solidarietà. Una realtà dove poter svolgere un servizio generoso e disinteressato, per poter non solo annunciare, ma essere la buona notizia che gli uomini attendono e manifestare questa buona notizia attraverso la tenerezza di una carezza, linguaggio universale che mai invecchia, non ha bisogno di essere tradotto, è compreso da tutti e fa bene a tutti.

IL NUOVO LIBRO – Dopo aver raccontato con candore e allegria dei giorni trascorsi tra interventi chirurgici, terapie e speranze in Chi non muore si rivede, il biblista Alberto Maggi risponde alle tante richieste dei lettori, curiosi di conoscere il resto della sua incredibile vita. Riprendendo così il filo interrotto dei ricordi, nel suo nuovo libro, l’autobiografico Due in condotta (sempre pubblicato da Garzanti), offre un ideale album di istantanee per scoprire aspetti inediti e sorprendenti dell’autore: il bambino ribelle in un’Italia del Dopoguerra più povera ma ricca di speranza, una scuola non sempre capace di contenere tutto il suo entusiasmo, le grandi letture adolescenziali, la scoperta dell’amore, i primi lavori da dattilografo, fino al riconoscimento della sua vocazione e alla scelta – in un primo momento osteggiata da una famiglia incredula – di diventare frate. Condividendo la sua storia con l’incontenibile gioia che lo contraddistingue e senza mai scivolare nella nostalgia, Maggi indica la strada per rispondere sempre con il sorriso alle difficoltà che ci impone la vita, per non arrenderci mai alle avversità e continuare sempre a combattere per i nostri sogni e per la felicità nostra e di chi ci sta accanto.

Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri:il già citato Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vitaRoba da preti; Nostra Signora degli eretici; Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede)Parabole come pietreLa follia di Dio e Versetti pericolosi, L’ultima beatitudine – La morte come pienezza di vita Di questi tempi.

Qui tutti gli articoli scritti da Alberto Maggi (foto di Basso Cannarsa, ndr) per ilLibraio.it.

Fotografia header: Alberto Maggi foto di Basso Cannarsa 1

Abbiamo parlato di...