Tommaso Labranca è morto a 54 anni nel 2016. I non moltissimi che avevano letto i suoi libri pensavano che fosse uno dei più importanti intellettuali della sua generazione, forse il più importante. Claudio Giunta lo racconta in un libro, e attraverso di lui ridescrive il divertente ma straziante magma culturale nel quale tutti noi siamo immersi – Su ilLibraio.it un estratto

Tommaso Labranca è morto alla fine dell’estate del 2016. Aveva 54 anni. Infarto? Suicidio? Gli amici hanno opinioni diverse. Come che sia, non molti si sono accorti della sua morte, non era molto conosciuto, tranne che fra gli addetti ai lavori: scrittori, critici letterari, autori televisivi. Ma i non moltissimi che avevano letto i suoi libri pensavano che fosse uno dei più importanti intellettuali della sua generazione, forse il più importante: e leggendo o rileggendo le sue opere si capisce che avevano ragione. Dall’inizio degli anni Novanta alla metà degli anni Dieci, dagli esordi con Einaudi e dall’invenzione di Anima mia con Fazio e Baglioni alle collaborazioni pagate a pezzo per Cronaca vera, in questa repentina parabola di caduta Labranca non ha mai smesso di pensare e scrivere, in maniera spesso geniale, sulle cose che hanno riempito la nostra vita e il nostro immaginario dal dopoguerra in poi: canzoni, film, arte contemporanea, pubblicità, tv, e insomma tutto quello onnipresente prodotto che va sotto il nome di cultura pop.

Nel libro Le alternative non esistono. Vita e opere di Tommaso Labranca (Il Mulino) Claudio Giunta lo racconta, spiega che cosa ha pensato e che cosa ha detto nei suoi venticinque anni di lavoro, e attraverso di lui ridescrive il divertente ma straziante magma culturale nel quale tutti noi siamo immersi.

libro su Labranca

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto

Gli anni del riciclo

All’inizio degli anni Sessanta, in Apocalittici e integrati, Eco ironizzava sulle «surcigliose condanne del gusto massificato» pronunciate dagli intellettuali. Anche per reagire a queste condanne, Eco studiò le articolazioni di questo gusto in prodotti culturali di massa come i fumetti di Steve Canyon o di Superman, i romanzi polizieschi, le avventure di Sandokan, Rita Pavone. Nel mezzo secolo successivo, il dilagare delle nuove arti e dei nuovi mezzi di comunicazione ha spinto la corsa del pendolo all’estremità opposta, sicché la contaminazione tra la cultura highbrow e la cultura lowbrow è un fatto ormai talmente ovvio che a suonare rivoluzionaria è oggi semmai la pretesa opposta, quella – che vige ancora forse soltanto in certi corsi universitari – di tenere distinti i due ambiti, privilegiando il classico duraturo sull’effimero contemporaneo.

Come abbiamo visto, la posizione di Labranca era singolare: non era un uomo di studio che si applica ai media e alle arti di massa bensì un uomo che conosce e pratica i media e le arti di massa e ne scrive con la cultura e la profondità di un uomo di studio. Com’era privo di pregiudizi ideologici nel riflettere sul bene e sul male della società dei consumi, così era privo di pregiudizi culturali, cioè sapeva apprezzare la bellezza o l’intelligenza di un’opera a prescindere dal valore che a quell’opera attribuiscono la considerazione comune o l’opinione degli esperti. Da qui, da questa disponibilità a prendere sul serio e sottoporre a giudizio, alla lettera, tutto, deriva lo spettro amplissimo della sua capacità d’ammirazione. Labranca sa elogiare, argomentando con competenza, cose tanto diverse come i campionamenti del deejay Molella e i video di Madonna, la tecnica di ripresa di Cesare Medail, le installazioni di Nam June Paik e le canzoni di Baglioni, i film di Risi e i testi di Freak Antoni degli Skiantos, i quadri di Riccardo Tommasi Ferroni e le canzoni e l’habitus di Renato Zero e di Orietta Berti. Perché anche nella sfera dell’arte, come nella sfera sociale, Labranca detesta i simulatori e ammira gli autentici, e sia Zero sia Orietta Berti lo sono. Anche per questo i libri che dedica all’uno e all’altra, benché scritti entrambi su commissione, sono libri riusciti, perché a parte allineare un numero impressionante di notizie e considerazioni intelligenti sulla loro opera e sulla loro epoca, Labranca stabilisce con i suoi biografati un rapporto di simpatia che gli permette tra l’altro di fare ciò che nessuno si sogna di fare occupandosi di questi cantanti proverbialmente lowbrow: spiegare come sono fatte le loro canzoni, dire perché piacciono.

Infine, questa stessa spregiudicatezza consente a Labranca di distinguere: tra ispirazione e imitazione, arte e artigianato, originalità ed epigonismo. C’è a suo avviso un contrasto, anzi c’è una caduta verticale tra gli originali anni Settanta e gli epigonici anni Ottanta-Novanta, e questo giudizio viene argomentato attraverso oggetti-campione come, da una parte, David Bowie o Alice Cooper e, in Italia, Tito Schipa Jr. o Schifano o il giovane Zero, e, dall’altra, replicanti sfiatati come i Sigue Sigue Sputnik e, in Italia, tutto il cantautorame (Antonacci, Ramazzotti ecc.) che Labranca riunisce nel quadrante Nulla del suo Diagramma dei Cantori Italici:

A questo punto capirete come mai fino a qui ho ribattuto più volte il tasto di un preciso argomento, ossia la non-emulazione delle avanguardie romane dei tardi Sessanta: da Schipa Jr. a Schifano. L’ho fatto per preparare il terreno a un’apologia di Renato Zero. Come Schifano non copiava Warhol, come Schipa Jr. non copiava gli Who, allo stesso modo Renato non copiava Bowie. Tutti incarnavano uno Zeitgeist che annusavano nell’aria. Magari Zero avrà sicuramente visto qualche foto di Bolan o Bowie su copertine, riviste eccetera. Ma se l’avesse davvero voluto copiare, come gli veniva imputato, sarebbe arrivato fino in fondo nell’emulazione, ricalcandone anche lo stile musicale e la tendenza a creare dei personaggi teatrali dietro cui nascondersi.

Labranca si commoveva davanti all’emulazione di Presley da parte di Little Tony, ma non aveva pazienza con gli attardati. Vestirsi da vamp, bistrarsi gli occhi e camminare con una gallina al guinzaglio andava bene negli anni Settanta; riciclare una posa del genere venti o quarant’anni dopo è patetico. Ma gli anni Ottanta inaugurano appunto l’Età del Riciclo, quella in cui «i bizzarri puri smisero di esistere e al loro posto apparvero i bizzarri costruiti», e innovatori autentici come Bowie lasciarono il campo a «marionette create da produttori e discografici» come Boy George o Steve Strange. Pensava che Lady Gaga fosse solo una copia sbiadita di Madonna; trovava puerili, perché già visti mille volte, il papa colpito da un meteorite e i bambini impiccati di Cattelan. A volte si ha l’impressione che Labranca – un po’ come MacDonald nelle pagine che ho citato nel terzo capitolo – avesse nostalgia di un mondo più ordinato, nel quale i generi artistici avevano caratteri e confini meglio definiti. Ma è un’impressione sbagliata. Ciò che trovava respingente era la ripetizione degli schemi già sperimentati e archiviati, soprattutto quando il ripetitore aveva velleità di denuncia. La mancanza di originalità, associata spesso al moralismo, produce i mostri – le opere-mostro, gli uomini-mostro – contro i quali Labranca combatterà nel suo ultimo libro, Vraghinaroda.

(continua in libreria…)

 

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