“Perché fidarsi della scienza?” è il titolo del saggio molto attuale di Naomi Oreskes, storica della scienza che analizza la risposta semplice, ma comunque efficace, alla domanda che lo titola. In una forma critica, Oreskes spiega le ragioni per cui la scienza merita la nostra fiducia, che non deve essere cieca, bensì vigile e razionale. Espone inoltre due proposte che a suo parere renderebbero il processo scientifico ancora meno soggetto a degli errori e alla sfiducia dei detrattori di questa disciplina – Su ilLibraio.it l’intervista all’autrice

Perché fidarsi della scienza? Anche chi non ha mai guardato alle istituzioni scientifiche con diffidenza, è probabile che non si sia mai posto la domanda. E la necessità di rispondere si presenta con urgenza, dato che il momento storico che viviamo pone l’umanità di fronte a una pandemia e all’emergenza climatica.

Naomi Oreskes, storica della scienza, si è chiesta perché bisognerebbe fidarsi di essa in un breve saggio che prende il nome da questa domanda (edito da Bollati Boringhieri nella traduzione di Bianca Bertola). Non si tratta di un manifesto a favore della scienza, ma dell’esposizione del percorso logico e storico che ha portato l’umanità ad accordare fiducia al mondo scientifico.

La prima metà del libro di Oreskes riassume alcune teorie filosofiche e sociologiche che hanno provato a rispondere a questa domanda. La seconda invece analizza dei casi significativi in cui qualcosa nel processo scientifico sembra essere andato storto.

Il sano scetticismo che innerva queste pagine permette a Oreskes di aprire la porta a una richiesta di fiducia del tutto razionale, concessa alla scienza come processo sociale e non agli scienziati come individui.

La risposta al perché fidarsi della scienza infatti si trova proprio in questa dimensione sociale, un fattore su cui si basa la valutazione critica dei risultati e delle loro interpretazioni e che funge da filtro per errori, bias e interessi personali ed economici. È possibile che una teoria scorretta superi comunque lo scrutinio sociale? Sì, ma l’esperienza e l’osservazione su cui si fonda la storia della scienza suggeriscono che il procedimento, preso nel suo complesso, funziona.

Inoltre, prendendo spunto da alcune recenti teorie epistemologiche e dall’analisi di alcuni errori passati, Oreskes espone un criterio ulteriore da applicare per aumentare il grado di oggettività della scienza: la diversità. Rendere i gruppi di lavoro e di ricerca il più diversificati possibile, secondo un ragionamento che mette da parte le implicazioni politiche di questa scelta, è la chiave per far sì che i presupposti impliciti nel modo di ragionare dei singoli scienziati non influenzino l’intero processo. Un ambiente molto omogeneo, infatti, presenta meno probabilità di riconoscere e di eliminare i bias condivisi.

Come trovare, infine, un modo di dialogare con chi la fiducia alla scienza non è disposto a concederla? Secondo Oreskes un terreno di incontro consisterebbe in un confronto aperto e sincero tra i valori che guidano l’avanzamento scientifico e quelli che muovono i detrattori della scienza. L’autrice sostiene che la scienza sia infatti mossa da principi di utilità, che se riconosciuti verrebbero percepiti come positivi e condivisibili. La pretesa di neutralità, al contrario, rappresenterebbe un ostacolo alla concessione di fiducia da chi non fa parte della comunità scientifica.

ilLibraio.it ha intervistato l’autrice tramite email, per approfondire alcune tematiche legate al suo saggio e i legami che queste presentano con l’attualità.

Nel suo libro Perché fidarsi della scienza?, lei spiega che una delle ragioni principali consiste nello scrutinio sociale a cui la comunità scientifica sottopone le proprie affermazioni. Questa stessa comunità è però a volte percepita dall’esterno come un ambiente poco accessibile. Lei pensa che questi meccanismi di scrutinio sociale possano essere resi più trasparenti, o si tratta solo di cambiarne la percezione?
“Penso che gli scienziati possano sicuramente fare di più per spiegare come funzionano i loro rispettivi ambiti di lavoro. L’ho detto spesso: gli scienziati devono adoperarsi per spiegare non solo ciò che sappiamo, ma come lo sappiamo”.

Nel suo testo lei illustra il motivo per cui l’incremento della diversità nella comunità scientifica, prima che un fatto politico, sia un fattore che da un punto di vista probabilistico può rendere la ricerca meno soggetta a bias impliciti. Se dovesse fare un bilancio di quella che è la diversità nella comunità scientifica oggi, quale sarebbero le sue considerazioni?
“La scienza ha sicuramente fatto molta strada, dai tempi in cui le donne (e altre categorie) erano formalmente escluse dal dottorato, dal lavoro in molti laboratori e nei campi sperimentali, e dai tempi in cui c’erano palesi molestie e discriminazioni. Quando ero all’università, molte persone esprimevano liberamente l’opinione che le donne fossero troppo emotive o irrazionali per essere scienziate. Quando ho iniziato a insegnare, lavoravo in un dipartimento che non aveva mai avuto una donna a occupare il ruolo di professoressa ordinaria. Penso che abbiamo fatto molta strada e che a tutte le persone che hanno lavorato per attuare questi cambiamenti, sia uomini sia donne, ne vada riconosciuto il merito. Detto questo, abbiamo ancora molto lavoro da fare”.

Ad esempio?
“Un recente sondaggio su Nature ha mostrato che circa la metà di tutte le donne dopo il dottorato ritiene ancora di subire forme di discriminazione di genere. E continuo a incontrare colleghi che vedono gli obiettivi di diversità e inclusione come in contrasto con ‘l’impegno per l’eccellenza’. Se il mio lavoro dovesse portare a qualcosa, vorrei che mostrasse alle persone che questa visione è sbagliata: la diversità è al servizio dell’eccellenza”.

Lei sostiene che altre cause della sfiducia verso la scienza siano anche la cultura della post-verità e la rappresentazione distorta o semplificata della scienza da parte dei media e sui social network; anche quando si parla dell’acuirsi della sfiducia verso la democrazia e verso le istituzioni in generale si rintracciano le stesse cause. Ritiene che ci sia un legame tra questi fenomeni?
“Sì, assolutamente. Non c’è dubbio che le sfide ai fatti scientifici si siano trasformate in sfide ai fatti. Negli ultimi mesi ne abbiamo vista l’apoteosi negli Stati Uniti, con i leader politici che mentono sulle elezioni e fanno accuse sconcertanti (e antisemite) su presunti ‘laser spaziali ebrei’. Non è una coincidenza che tra coloro che hanno attaccato il Campidoglio ci fossero uomini che indossavano magliette che ridicolizzavano, negavano o addirittura difendevano l’Olocausto. Bisogna ricordare che l’antisemitismo è radicato nella bugia dell”accusa del sangue’. Le menzogne sono contagiose”.

L’amplificazione di argomenti scettici verso alcuni ambiti scientifici sta coincidendo storicamente con due grandi sfide che l’umanità si trova ad affrontare: l’emergenza climatica e la pandemia. Ritiene che la diffidenza verso la scienza (penso per esempio alla riluttanza di alcune persone a vaccinarsi) stia rappresentando un serio impedimento verso la risoluzione di queste sfide?
“Credo di no. I sondaggi mostrano che la maggior parte delle persone in tutto il mondo sa che il cambiamento climatico è reale. Penso che gli ostacoli siano in gran parte politici, si veda il potere politico dell’industria dei combustibili fossili e dei suoi compari, in particolare qui negli Stati Uniti. Ce ne sono però anche di culturali, penso alla sfida di cambiare il modo in cui pensiamo al potere dei mercati, e a come i governi dovrebbero affrontare il loro fallimento. Il mio prossimo libro parlerà proprio di questo!”.

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