“Storie dal mondo nuovo” raccoglie una serie di reportage di Daniele Rielli. Su ilLibraio un estratto, dedicato alle giornate, alienanti, che vivono i cronisti politici a caccia di retroscena

I fantasmagorici rituali – di iniziazione – dei promotori di startup, riuniti in conclave a Londra. I saturnali, al Mugello, di una delle ultime divinità disponibili in Italia, Valentino Rossi. Il matrimonio fra i rampolli di due miliardari indiani – per tacer dell’elefante – nel cuore della Puglia. L’incontro, a New York, con un sopravvissuto alla sua stessa leggenda, Frank Serpico. Il paradiso – o l’inferno – artificiale nella sua versione più aggiornata, il poker online.

DANIELE RIELLI

Storie dal mondo nuovo (Adelphi) raccoglie una serie di reportage di Daniele Rielli, classe ’82, già autore di Quitaly (Indiana Editore, con lo pseudonimo Quit the doner, 2014) e Lascia stare la gallina (Bompiani, 2015). Un libro di giornalismo narrativo in cui non manca l’ironia.

Storie dal mondo nuovo

Su ilLibraio.it, per gentile concessione dell’editore, un estratto dal primo capitolo

IL RETROSCENA DEL RETROSCENA DEL RETROSCENA

«Non ce la faccio più » spiega un collega giovane e sveglio che fa cronaca parlamentare da alcuni anni, a mo’ d’incoraggiante introduzione nel magico mondo della politica vista da vicino. Siamo seduti su un divano del Transatlantico, il luogo dove si fabbricano quelle cinque, dieci pagine dei quotidiani in cui i politici si mandano messaggi a vicenda sulla testa dei lettori. Da questo salone lungo e discretamente sfarzoso arriva la maggior parte dei retroscena, spesso quelli più irrilevanti, visto che per comunicare le informazioni esclusive ci sono metodi migliori, strategie visionarie e clandestine come: mandare un sms. Qui lo struscio di politici, giornalisti e commessi non conosce sosta, e si confabula alacremente. La topografi a del potere è abbastanza intuitiva: le figure importanti stazionano in un punto, quelle medie si coagulano attorno a loro, i cazzoni alla base della piramide sociale (io) vanno avanti e indietro.

In pratica, almeno durante il cocktail party «elezione presidente della Repubblica », qui non manca nessuno dell’establishment politico, compresi diversi direttori di quotidiani che dal mattino presto prendono caffè, stringono mani e tengono gli occhi aperti nel caso un capogruppo con una dichiarazione importante da fare si fosse nascosto dietro una lampada, rendendosi così invisibile ai sette inviati a testata presenti nella stanza. In momenti come questi l’importante è esserci, marcare il territorio. «Il mondo di fuori scompare ed esiste solo questo» mi spiega un altro giornalista della mia età, poi aggiunge: «Alla lunga qui dentro è alienante ». A eccezione di casi particolari, il giornalista parlamentare convinto, oltre a essere orgoglio e idealtipo di quella parte della stampa che a tanta promiscuità con i potenti aspira e agogna, se la tira parecchio, perché poche cose ringalluzziscono un certo tipo di persone quanto la gloria riflessa. Il vero giornalista parlamentare si aggira a qualche centimetro da terra sulle ali del suo rapporto confidenziale con i politici, che, visti da molto vicino, sembrano principalmente due cose: più bassi (risaputo) e molto, molto, normali. A parte Bruno Vespa. Vespa emette anche dal vivo una potente aura di soprannaturalità televisiva che non si capisce bene da cosa derivi, se dalla carnagione più scura di chiunque altro qui dentro o dalla fisiognomica, che ricorda leader politici non esattamente democratici del passato. Di fatto quando si posiziona vicino al bar è l’unico che mi fa pensare «Ehi, ma quello è Bruno Vespa della televisione» proprio mentre chiedo a Formigoni se per favore può alzarsi un attimo perché si è seduto sul mio cappotto. L’uso comune vuole infatti che qui le giacche si buttino sui divani, metodo inspiegabilmente simile a quello che si applicherebbe a un concerto degli Asian Dub Foundation in un centro sociale.

Rielli

Le presentazioni del libro

La presidente della Camera, quando si muove per il suo regno, si porta dietro un codazzo istituzionale tale che qui dentro la chiamano col nome di un’imperatrice dell’antichità. Il convoglio è preceduto persino da uno spostacristiani che si assicura le si faccia largo. Quando incrocio la processione e mi ritraggo, la presidente mi ringrazia pure, gesto che accolgo con il deferente cenno del capo tipico del popolano che sa di non avere alcuna alternativa reale. Mentre mi rimetto il cappello di paglia e mi auguro che dio la protegga e le messi quest’anno siano abbondanti, mi dicono che Grasso si muove con un seguito simile più scorta armata.

Convogli da ancien régime a parte, l’aria che si respira non è proprio quella del contesto serio e solenne. Il clima in Transatlantico è intriso di quella convivialità ostentatamente paracula caratteristica dei ritrovi di chi in fondo ha svoltato. Che si vinca o si perda nella partita politica, rimane il fatto indubitabile che qui dentro c’è solo gente che nella vita ha vinto, e non fa molto per nasconderlo. Dall’altro lato della, si fa per dire, barricata, stanno i giornalisti con in mano i registratori e gli iPhone con il voice recorder acceso, quelli che un giorno sono Charlie Hebdo e l’altro Tsipras, e probabilmente per un paio di settimane sarebbero anche Marilyn Manson se per caso superasse il 28 per cento alle prossime elezioni in Portogallo o in Romania. Il mimetismo è totale, l’abbraccio è falso, ma in modo dichiarato, sistemico. In altri termini, è politica. Nel compiacimento del ristretto numero di persone messe qui dentro c’è anche la palese, quanto in parte anacronistica, convinzione di essere al centro di quello che conta davvero, il potere che tiene le fila; di trovarsi cioè nel punto più alto del sistema d’interdipendenze che sole possono rendere una vita agiata e dignitosa. Si respira lo spirito familistico di quella Roma che sembra derubricare la globalizzazione, l’innovazione tecnologica, l’Europa, i mercati, i poteri economici a questioni che si possono risolvere con qualche giro di nomine, come fosse il 1960 e il PIL crescesse con ritmi oggi riservati a paesi sull’altro emisfero. Se ne ricava una generale mancanza di tensione e una sacralità istituzionale quasi inesistente.
L’insieme è al tempo stesso elitario e popolare, ma nessuno dei due termini nell’accezione che probabilmente vi augurereste.
«Questo parlamento è lo specchio del paese» mi dice un deputato. «C’è l’antipolitica, ci sono i cialtroni, i delinquenti e gli sfigati» sottintendendo con ammirabile onestà intellettuale che lui fa parte dell’ultima categoria…

(continua in libreria…)

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