Nel saggio “La verità sul capitalismo – Denaro, morale e mercato”, John Plender esplora i paradossi e le insidie di questo sistema economico straordinariamente dinamico, e lo fa partendo da lontano, dalle sue origini – Su ilLibraio.it l’introduzione

Storicamente, il capitalismo è stato oggetto di una diffusa e radicata ostilità. Eppure, nel corso della sua ormai lunga storia, ha indubbiamente sollevato dalla miseria molti milioni di persone: in Occidente, grazie alla deprecata economia di mercato, il benessere è costantemente cresciuto e, in Oriente, i paesi emergenti hanno conosciuto negli ultimi decenni uno straordinario sviluppo economico che ha finito per trascinare il mondo intero verso una sempre maggiore prosperità.

Eppure, nonostante tutto, il capitalismo continua a essere messo in discussione. Ci sono gli insoddisfatti, gli oppositori moderati, i critici radicali e i nemici giurati, in tutte le molteplici declinazioni, ma in genere quando si pensa al capitalismo non si pensa certo a qualcosa di buono. Denaro e morale difficilmente vanno a braccetto nell’immaginario collettivo.

Nel saggio La verità sul capitalismo – Denaro, morale e mercato (Bollati Boringhieri), John Plender, giornalista del Financial Times, esplora i paradossi e le insidie di questo sistema economico straordinariamente dinamico, e lo fa partendo da lontano, dalle sue origini nella Venezia mercantile medievale, fino alle bolle speculative del XXI secolo, nelle quali siamo tutt’ora immersi.

Lungo il viaggio incontriamo tutti i momenti chiave della storia del capitalismo, come ad esempio la strana vicenda della prima bolla finanziaria della storia – quella dei tulipani nell’Olanda del Seicento – le speculazioni nel mondo dell’arte contemporanea, fino alla complessa e recentissima crisi dei mutui subprime di cui ancora oggi i mercati mondiali pagano le conseguenze.

Plender però allarga costantemente lo sguardo, lasciando parlare spesso filosofi, poeti, scrittori e artisti di ogni epoca, pronti a indirizzare le loro acute critiche alle numerose falle di un sistema che, con le sue crisi cicliche e le profonde ingiustizie perpetrate in suo nome, si è dimostrato più che imperfetto. Su tutto aleggia – cruciale – la questione etica.

L’etica del debito, la giustizia o l’ingiustizia del profitto, il denaro visto come “sterco del demonio”, la differenza, per molti così importante, tra il guadagno ottenuto producendo beni e quello ottenuto semplicemente facendo circolare il denaro.

Su ilLibraio.it l’introduzione, pubblicata per gentile concessione dell’editore

La grande crisi finanziaria che ha avuto inizio nel 2008 con il fallimento di Lehman Brothers, la banca d’investimento americana, è stata la peggiore dal crollo di Wall Street del 1929. A differenza di quella crisi precedente, però, non ha messo in discussione la sopravvivenza del sistema capitalista. La Grande Recessione che ha seguito la batosta di Lehman è stata infatti la prima crisi moderna dove non si vedevano all’orizzonte alternative strutturali al capitalismo: in fin dei conti, nessuno guarda alla Corea del Nord come a un modello alternativo per il futuro. Dopo la caduta del Muro di Berlino, si è dibattuto solo di quanto il capitalismo dovesse essere orientato al mercato. Quel che ha fatto la crisi, è stato di provocare un profondo esame di coscienza sui meriti e i difetti di un sistema capitalista consolidato.

I meriti sono piuttosto chiari. Il capitalismo, con cui intendo un sistema basato sul mercato dove la proprietà privata dell’industria e del commercio è supportata dai diritti di proprietà, ha fatto uscire dalla povertà milioni di persone. Fin dall’inizio della Rivoluzione industriale nel xviii secolo, il tenore di vita in Occidente ha subito una trasformazione. E dalla metà del xx secolo il processo di industrializzazione e urbanizzazione, che è fondamentale per migliorare i tassi di crescita economica, si è esteso al mondo in via di sviluppo. La strada aperta dal Giappone, e poi dalle economie di Tigri asiatiche come la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Thailandia e Singapore, è stata seguita da altri paesi emergenti in tutto il pianeta. Passando da una rivoluzione industriale all’altra, i tassi di crescita di questi paesi hanno accelerato fino a toccare livelli ben superiori a quelli mai raggiunti da Europa e Nordamerica; il caso più spettacolare è costituito senz’altro dalla Cina, dove il leader comunista Deng Xiaoping segnò una tappa fondamentale nella lenta marcia del capitalismo verso la rispettabilità dichiarando che «arricchirsi è glorioso».

L’economia cinese è cresciuta a un tasso medio del 10 per cento annuo durante i due decenni a cavallo del Duemila, mentre nei tre decenni fino al 2010 il prodotto interno lordo pro capite è cresciuto di otto volte tanto. Questo tasso di crescita non è eccezionale per gli standard asiatici recenti. Quel che è eccezionale è l’impatto straordinario che ha avuto sulla riduzione della povertà. Secondo la Banca Mondiale, il numero di persone che vivevano con 1,25 dollari al giorno, o meno (a parità di potere di acquisto nei vari paesi) è passato dal 52 per cento nel 1981 al 21 per cento nel 2010 – una trasformazione del tenore di vita che non ha precedenti nella storia umana. Non c’è da stupirsi che, via via che la globalizzazione rende i paesi sviluppati e in via di sviluppo più interdipendenti, la bilancia del potere economico cominci a pendere a favore dei secondi. Un’ulteriore conseguenza di questa serie di industrializzazioni è la riduzione dell’ineguaglianza globale.

Come intuì giustamente Karl Marx, il capitalismo industriale è sempre stato intrinsecamente instabile, che è poi il difetto principale e più tangibile del sistema. Il ciclo di profitto, speculazione, euforia irrazionale, panico finanziario e recessione è stato un tratto endemico del capitalismo fin dall’inizio della Rivoluzione industriale. La distruzione creativa, il processo che secondo l’economista austro-americano Joseph Schumpeter costituisce la dinamica essenziale del capitalismo, è da sempre un problema per coloro che vengono estromessi dal mondo del lavoro in seguito alla maggiore concorrenza e innovazione tecnologica. Inoltre sovverte il senso di comunità. E oggi, il ciclo economico non solo è peggiorato da politiche monetarie sconsiderate e da banchieri insani – negli ultimi trent’anni, nel mondo ci sono state più di cento crisi bancarie importanti – ma la globalizzazione e l’interdipendenza economica hanno fatto sì che industrie manifatturiere fondamentali venissero traslocate in blocco dal mondo sviluppato al mondo in via di sviluppo, con un alto costo in termini occupazionali. Quando, dopo la crisi finanziaria, gli industriali hanno scoperto che la loro filiera produttiva era iperestesa, hanno riportato in patria alcuni posti di lavoro. Ma non è chiaro se l’innovazione capitalistica riuscirà a generare nuova occupazione come ha fatto negli ultimi due secoli.

Nello stesso tempo, la globalizzazione e la maggiore concentrazione del sistema bancario seguita alla crisi implicano che qualunque futura crisi finanziaria globale e conseguente recessione saranno potenti come non mai. Inoltre, il costo ambientale di portare i paesi dei mercati emergenti ai livelli di reddito pro capite dei paesi avanzati aumenta sempre di più, ed è pericoloso per il pianeta come la prima industrializzazione e suoi effetti non sono mai stati. Da tutto questo, ne deriva che il migliore tenore di vita il cui merito va al capitalismo è accompagnato da un maggiore grado di incertezza – un’incertezza che è esacerbata mentre scrivo dalle rigide politiche fiscali adottate negli Stati Uniti e in Europa. Tali politiche intendono affrontare i deficit dei governi e il peso dei debiti contratti per sostenere il welfare, quella rete di sicurezza installata proprio per mitigare quell’incertezza.

L’altro importante motivo di scontento nei confronti del capitalismo riguarda i suoi fondamenti etici. La centralità del denaro come motore dell’economia di mercato è da tempo motivo di preoccupazione per molti. Sulla scia della crisi finanziaria, quella preoccupazione è stata peggiorata dalle enormi ineguaglianze presenti sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Un punto essenziale è la retribuzione degli alti dirigenti. Pochi possono trovare una giustificazione, economica o morale, all’enorme disparità di trattamento tra dirigenti e lavoratori, il che spiega perché il movimento di Occupy Wall Street e proteste analoghe nel resto del mondo si siano guadagnati molte simpatie nel 2011-2012. La maggior parte della gente è più che convinta che la retribuzione dei banchieri sia esageratamente alta. Se a livello globale l’ineguaglianza è diminuita, in molti paesi del mondo sviluppato è aumentata, in parte per via dell’esorbitante incremento dei compensi nei consigli d’amministrazione. C’è anche un evidente senso di disagio nel mondo di lingua inglese di fronte alla crescente finanziarizzazione non solo dell’economia, ma di tutto quanto, dai servizi pubblici all’arte.

Questo scontento mi affascina fin dall’inizio della mia carriera. Dopo essermi laureato all’Università di Oxford nel 1966, mi imbarcai in quello che baldanzosamente pensavo essere il grande romanzo del Novecento. Quando ne avevo scritto ormai un terzo, mi resi conto che era spaventosamente privo di qualunque valore letterario. Gettai via il manoscritto incompiuto, e non avendo un piano di riserva, cedetti alle pressioni genitoriali e andai a lavorare in uno dei grandi studi di revisori dei conti nella City londinese, dove un mio prozio aveva ricoperto un ruolo importante per gran parte della prima metà del secolo. Tre anni in quello studio mi lasciarono un profondo disgusto per la ragioneria e delle competenze che non pensavo mi sarebbero mai tornate granché utili. Cominciai però a nutrire un crescente interesse per i meccanismi dell’economia globale e una durevole preoccupazione per i fondamenti etici del capitalismo. Sono argomenti che ho studiato nella mia successiva carriera di giornalista, che sarebbe stata arricchita da esperienze sul campo come quella, per esempio, di direttore non esecutivo e presidente di una società quotata in borsa, e dal lavoro pro bono sulla corporate governance nel mondo per la Banca Mondiale e l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico.

Questo libro contiene il frutto di quell’esperienza. Esamina l’attuale scontento in un contesto storico, osservando molti dei grandi dibattiti sul denaro, l’economia e i mercati non solo attraverso gli occhi di economisti e imprenditori, ma anche di filosofi, politici, romanzieri, poeti, teologi, artisti e molti altri ancora. È un’indagine ostinata e piena di digressioni sulle viscere borbottanti del sistema capitalista. Nella mia analisi, ho cercato di spiegare il paradosso per cui questo meccanismo straordinariamente dinamico, che ha fatto molto più di innumerevoli politici e burocrati per alleviare la povertà nel mondo, susciti un sostegno tanto esitante. Concludo spiegando perché il mondo sia ancora sull’orlo dell’abisso malgrado tutti gli sforzi dei politici, delle banche centrali e dei mastini della finanza volti a rafforzare il sistema finanziario globale. Purtroppo, c’è sempre la possibilità che in futuro vivremo un’altra crisi, più dannosa.

(continua in libreria…)

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