Si stima che nel Settecento più della metà (due terzi per alcuni) di tutti i romanzi pubblicati in inglese siano stati scritti da donne. Eppure non ce n’è traccia o quasi nei testi scolastici… Pubblicato per la prima volta nel 1983, torna in una nuova edizione (e un nuovo titolo, “Vietato scrivere”) il saggio di Joanna Russ che ricostruisce una storia della soppressione (e del silenziamento, del soffocamento) delle voci letterarie femminili. Il punto centrale, il nodo su cui convergono le argomentazioni del volume, riguarda la questione dell’agency delle scrittrici e di come, nella storia (in particolare nella storia maschile), essa sia stata negata e ostacolata – L’approfondimento

Si stima che nel Settecento più della metà (due terzi per alcuni) di tutti i romanzi pubblicati in inglese siano stati scritti da donne. Apro una storia della letteratura inglese pubblicata da un prestigioso editore e vado al capitolo sul romanzo del ‘700: Defoe, certo, Richardson, va bene, Fielding, senz’altro.

“La maggior parte dei romanzi del periodo è opera di scrittrici”. Ecco, ci siamo: ma la questione è liquidata in una pagina, chi siano queste scrittrici non è dato saperlo, cosa abbiano scritto, come lo hanno fatto, nemmeno. La cosa non dovrebbe ormai più stupire nessuno: si sa, è noto. Ma guardare i numeri fa sempre una certa impressione, ed è utile per ricostruire una storia della soppressione (e del silenziamento, del soffocamento) delle voci femminili: come soffocare la scrittura delle donne è il sottotitolo di un libro importante di Joanna Russ, pubblicato nel 1983, e ora finalmente disponibile in italiano, con il titolo Vietato scrivere, grazie alle edizioni dell’Enciclopedia delle donne (prefazione di Jessa Crispin, postfazione di Nicoletta Vallorani, traduzione di Dafne Calgaro e Chiara Reali). Sono passati quarant’anni dalla sua prima pubblicazione e lo si vorrebbe un libro invecchiato, o almeno non più attuale, ma non è così.

Vietato scrivere. Come soffocare la scrittura delle donne, Joanna Russ

Il punto centrale, il nodo su cui convergono le argomentazioni di Russ riguarda la questione dell’agency delle scrittrici e come, nella storia (e in particolare nella storia dei maschi), questa agency è stata negata e ostacolata. Grazie a un’ampia casistica e alla discussione di moltissimi esempi Russ offre un catalogo dei metodi di “soffocamento” delle voci femminili e che tendono a raggrupparsi in alcune aree centrali: le proibizioni informali, la negazione di autorialità, lo sminuimento dell’opera, l’isolamento del testo dalla tradizione a cui appartiene e la conseguente visione di una scrittrice come “anomala” fino alle più semplici strategie messe in atto per ignorare semplicemente queste opere.

Vietato scrivere si inserisce all’interno di una lunga tradizione di riflessione sul rapporto fra donne e scrittura e non a caso inizia il suo discorso a partire dalle considerazioni svolte da Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé.

In quel libro ormai famosissimo Woolf scriveva che “una donna se vuole scrivere romanzi, deve avere soldi e una stanza per sé, una stanza propria”. È proprio a partire da queste condizioni materiali di vita che inizia il discorso di Russ, che va a indagare i modi in cui il lavoro (e il lavoro riproduttivo) abbia un forte impatto sulla possibilità di scrittura.

Ma cosa succede, e cosa è successo storicamente, alle donne che scrivono e pubblicano? A questa domanda cerca di rispondere Russ nei capitoli centrali del libro, attraverso esempi, testimonianze e casi che talvolta hanno davvero dell’incredibile. La prima modalità individuata è la negazione dell’autorialità femminile: dal momento che le donne non possono scrivere, qualcun altro (un uomo), deve averlo fatto. Si può stentare a crederlo, ma negli anni Trenta c’era davvero più di un critico che sosteneva che i romanzi delle sorelle Brontë fossero in realtà stati scritti dal fratello Branwell; talvolta queste spiegazioni possono sfociare nel fantascientifico: si è detto, ricorda Russ, che Emily Brontë ha iniziato a scrivere Cime tempestose, ma poi il romanzo si è finito da solo (perché di certo non poteva scriverlo una donna).

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E ancora: se una donna non può scrivere allora quando succede deve averlo fatto l’uomo dentro di lei (così per Mary McCarthy, spesso complimentata per la sua mente “maschile”). Ma se siamo costretti a riconoscere che sì, in fondo una donna ha scritto quest’opera, possiamo comunque continuare a negare la sua agency: lo ha fatto, va bene, ma non avrebbe dovuto, lo ha fatto, va bene, ma si è resa ridicola. E anche in questo caso gli esempi apportati da Russ si muovono fra il tragico e il ridicolo: se Jane Eyre fosse stato scritto da un uomo, così pure ha sostenuto qualcuno, sarebbe stato un capolavoro, ma scritto da una donna è scioccante e disgustoso. Perché, in fondo, si sa, gli uomini possono parlare di tutto, la loro esperienza è universale, mentre quella delle donne no: se l’esperienza delle donne è definita come inferiore, meno importante, più ristretta, automaticamente è denigrata anche la scrittura femminile che su quelle esperienze si concentra e quelle esperienze sono spesso esplicitamente limitate ignorando o trascurando aspetti di grande importanza all’interno delle opere (non a caso nelle pagine di Vietato scrivere ci sono riletture molto belle di grandi opere di autrici, come la costante attenzione alla vena politica di Virginia Woolf molto spesso, invece, volutamente eliminata).

E se pure si deve riconoscere che una donna quel libro lo ha scritto, continua Russ, e che quel libro ha un valore allora si ricorrerà molto spesso al mito del risultato isolato: lo ha scritto, ma ne ha scritto solo uno – con un corollario che molto spesso i migliori libri di una scrittrici non siano davvero considerati tali: Russ fa a questo proposito l’esempio di Villette di Charlotte Brontë, un romanzo “troppo sovversivo per essere popolare”. E infine: lo ha scritto, va bene, ma ce ne sono poche. Quest’ultimo considerazione permette a Russ di riflettere anche sui modi e sui ruoli della formazione di una tradizione letteraria femminile e quindi sul rapporto fra scrittura e modelli e sull’apparente assenza di modelli per la definizione di una autorialità femminile. Non a caso Russ (che è anche un’importante scrittrice di fantascienza) riversa continuamente la sua esperienza di scrittura nelle riflessioni saggistiche, in particolare affrontando il problema delle traiettorie femminili: cosa significa per una donna entrare nel campo letterario, quali sono le possibilità che ha disposizione, com’è socialmente determinata e costruita la sua traiettoria, da cosa dipendono le sue scelte (per esempio nella pratica di un genere letterario piuttosto che un altro: e si sente ancora una eco da Virginia Woolf e dalle sua riflessione sul Non sapere il greco).

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La ricchezza del libro di Russ è data anche dalla sua capacità di tenere insieme un’argomentazione assolutamente rigorosa e logicamente struttura sul problema dell’agency femminile nel campo letterario insieme a una tendenza erratica della riflessione che è in grado di toccare così questioni molto diverse e che pure si mostrano di assoluta tangenza con il problema dell’autorialità femminile: come la decostruzione dell’idea del genio, il rapporto fra le condizioni effettive e materiali (di classe) e la scrittura, la questione dell’insegnamento della letteratura e della scrittura, i rapporti fra varie forme discorsivi nel soffocamento di questa agency, la messa in discussione di concetti e criteri di attribuzione del valore assoluti: “questo è un buon romanzo. Buono per cosa? Buono per chi?”.

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