Venerdì 9 marzo, alle ore 19, a Milano, la fiera Tempo di Libri ospiterà l’incontro – organizzato da ilLibraio.it – dal titolo “Il mondo letterario e il riconoscimento del valore delle scrittrici”. Nell’attesa, ospitiamo la riflessione di una delle relatrici, Helena Janeczek: “Il guaio è che le donne sono al contempo corteggiatissime dagli editori come target e identificate come discendenti più o meno evolute di Emma Bovary…”

La storia del romanzo ha compiuto balzi da gigante sulle gambe di due famosi personaggi a cui l’eccesso di letture ha dato alla testa. Dopo l’hidalgo della Mancha ammattito a causa dei romanzi cavallereschi, la giovane moglie di un medico si è fatta traviare dagli antenati del romance che la rapivano dall’uggiosa Normandia. Gustave Flaubert, che per quell’opera scandalosa è stato posto sotto processo, avrebbe esclamato in sua difesa “Madame Bovary, ç-est moi!

La frase ha qualcosa di apocrifo, di leggendario. Proprio per questo rende più evidente da qualche posizione si trovava a parlare uno dei massimi artefici del romanzo realista. Era un demiurgo capace di dare vita a qualsiasi personaggio – persino a una donna di provincia rovinata dal romanticismo deteriore dei romanzi – ed elevare la mediocrità, la noia, persino la stupidità, a letteratura.

Emma Bovary partecipa alla staffetta di eroine che popolano il romanzo borghese dall’ascesa al tramonto: Moll Flanders, Pamela, Jane Eyre, Eugénie Grandet, Effi Briest, Anna Karenina, Therese Raquin, Tess dei d’Urberville, Daisy Miller, Mrs. Dalloway.

Mancano nell’elenco opere di Jane Austen, Emily Brontë e Edith Wharton, per esempio, ma anche di tanti scrittori che hanno creato indimenticabili protagoniste. Mi premeva mostrare che per quasi due secoli era così consueto imbastire il romanzo intorno a dei personaggi femminili che i loro nomi finivano spesso per imporsi come titolo.

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Questa consuetudine indifferente al sesso dell’autore rimanda al fatto che le lettrici costituivano già un pubblico da coltivare quando le scrittrici erano rarissime, spesso celate dietro l’anonimato o uno pseudonimo maschile. I romanzi, talvolta edificanti, spesso accusati di corrompere i costumi, erano un veicolo che introduceva nel salottino delle gran signore e sotto il tetto delle mogli di provincia i mutamenti e conflitti del mondo circostante. Scriverli significava promuovere la modernità e i suoi valori, un’incidenza obiettiva affatto inconciliabile con le idee tradizionaliste di singoli autori, come per esempio quelle del monarchico Balzac. Accanto ai giovani eroi dei romanzi di formazione, le figure femminili erano le protagoniste perfette per narrare l’affermarsi di una nuova soggettività. Perciò a nessun narratore scrivere di donne, per essere letto anche dalle donne, risultava in contrasto con la realizzazione delle proprie aspirazioni letterarie.

Sembra paradossale che le cose si siano complicate proprio a partire dal momento in cui un numero crescente di autrici si è affacciato sulla scena editoriale e letteraria. Lo si evince dall’intervento introduttivo di Luigi Spagnol, a cui va il ringraziamento d’essersi fatto carico di un problema che si presumeva superato, come accade a gran parte degli uomini e pure a molte donne che si occupano di libri.

Riassumo e aggiorno per sommi capi il quadro fornito da Spagnol. In Italia le lettrici sono la maggioranza (secondo i più recenti dati ISTAT la forbice tra i 15 e i 64 anni oscilla addirittura tra il 15 e il 20%), le autrici la metà, una quota significativa di titoli scritti da donne scala le classifiche. Eppure gli scrittori continuano a detenere lo scettro del prestigio. Questo si riflette nella vistosa superiorità numerica delle recensioni e dei premi ottenuti, nello spazio concesso nei manuali scolastici e nei programmi delle facoltà di lettere che promuovono e consolidano i processi di canonizzazione (cfr. Alberica Bazzoni, “Il genere della letteratura; scuola e università” in La Balena Bianca). Una situazione analoga si trova in pressoché tutti i paesi occidentali, con qualche ricalibratura negli Stati Uniti, dove i “gender e womens’ studies” sono prassi consolidata e le istanze femministe una corrente socialmente incisiva, come la valanga scatenata dal caso Weinstein ha mostrato in modo plateale. In questo contesto va rilevato che le studiose di Women’s writing hanno potuto attingere a una tradizione letteraria più corposa, variegata e antica rispetto alle altre letterature occidentali. Ne è prova che tra le quattordici vincitrici (tre poetesse, undici narratrici) del Premio Nobel cinque sono autrici di lingua inglese: Pearl S. Buck, Nadine Gordimer, Doris Lessing, Toni Morrison, Alice Munro.

Alla luce di queste osservazioni, il fatto che, negli ultimi decenni, molte scrittrici siano entrate nelle long e short-list del Booker e del Pulitzer per ottenere raramente la vittoria, sembra riflettere la loro indubbia rilevanza, ma anche il permanere del “soffitto di cristallo”. È sconcertante che negli USA, oggi spesso identificati con la “dittatura del politically correct”, il numero più alto di vincitrici del Pulitzer Prize for Fiction – sei! – risale agli anni Trenta, preceduti dagli anni Venti con cinque premiate.

La società borghese ferita a morte dai due conflitti mondiali nel secondo dopoguerra si è mutata nella società del conformismo e dell’imperativo del successo. Le donne tornano a casa contornate di magazine ed elettrodomestici, gli uomini, finito di elaborare l’esperienza bellica in un’epica scarna e virile, si misurano con l’agone dei nuovi modelli che il presente impone a loro. Gli eroi o antieroi che prestano i loro nomi ai titoli si chiamano Herzog e Stoner, JR o Zuckerman (ma anche Mr. Ripley: l’opera di Highsmith resta tra le migliori confutazioni dell’esistenza di una scrittura “al femminile”), le Elizabeth Costello e Olive Kitteridge si fanno mosche rare. Nei romanzi le donne retrocedono spesso a figure secondarie, specchio di desideri e frustrazioni che non consentono di ritrarle come personaggi autonomi. Se c’è un’immagine che riassume il clima culturale degli anni ’50 e ‘60, sono le foto di Marilyn Monroe che legge un libro. “Quelle foto rappresentano anche una contraddizione in corpore, incarnano un’antitesi. L’immagine è costruita per sovrapposizioni: sintetizza, apparentemente, ciò che invece di solito è separato; raccontano un destino, non solo individuale, di sdoppiamento e di scissione tra ciò che appartiene al mondo della bellezza e la seduzione – il corpo – e ciò che appartiene al mondo della cultura – la mente”, scrive Daniela Brogi in un’articolo apparso su Le Parole e le Cose.

Marilyn si offre all’obiettivo di grandi fotografi – Elliot Erwitt, Alfred Eisenstaedt ma anche Eve Arnold – esibendo lo sforzo di cimentarsi con la Vera Letteratura: l’Ulisse di Joyce o alcuni titoli del marito Arthur Miller. L’immagine trasmessa da Marilyn lettrice ci riguarda ancora oggi. Siamo tuttora educati a identificare il maschile con l’umano tout court, l’universale – l’ha già scritto qui Michela Murgia – mentre il femminile rappresenta un derivato dalla costola di Adamo. Perciò i libri degli uomini sarebbero per tutti, i libri delle donne soltanto per le donne.

In uno dei film suoi ultimi film in bianco e nero, Marilyn attrae la curiosità del vicino di scompartimento fingendo di leggere un romanzo – Murder by Strangulation – come rivela la foto a testa in giù dell’attraente autrice. Che cosa hanno in comune il personaggio della commedia e la star che posa con un libro? L’idea che leggere sia un modo per farsi notare o – impresa molto più ardua – per farsi riconoscere dagli uomini, unita al sottinteso che le emozioni forti di Murder by Strangulation siano più alla portata di una donna dell’impervio Ulisse.

Ecco che si riaffaccia Madame Bovary, divoratrice di romanzi d’evasione. I suoi sogni sono diventati ancora più a buon mercato da quando l’industria culturale li ha resi universalmente accessibili. I grandi schermi si sono riempiti di eroine dannate, riscattate in extremis o premiate per la ricerca dell’uomo giusto. Oggi che l’era delle grandi star di Hollywood è ormai lontana, a una fruitrice (ma anche a un fruitore) di Netflix basta aver guardato qualche film o serie tv vagamente “femminile”, perché la piattaforma le proponga Sex and the City, mamme per amica, sontuosi adattamenti romanzeschi che rendono le vicende di Lizzie Bennet o Anna Karenina infinitamente più centrate sugli aspetti sentimentali di quanto non siano nei capolavori letterari.

Il guaio è che le donne sono al contempo corteggiatissime come target e identificate come discendenti più o meno evolute di Emma Bovary. L’editoria si affanna per non perdere neanche un’acquirente, il che è comprensibile, visto che sono le lettrici a tenerla in piedi. Il comparto della narrativa femminile è diventato un’affastellarsi di sottogeneri come la chick-lit o il recente filone aureo con il principe azzurro esperto di bondage, ma anche il thriller psicologico declinato “al femminile”.

Per raggiungere le lettrici, i libri di narrativa scritti da donne vengono pressoché tutti genderizzati: in copertina figure e volti di donne, still-life con fiori o tazze di tè, colori dolcemente polverosi, titoli lirico-suggestivi o comunque segnaletici che quel romanzo si rivolge principalmente alle donne, come la falange di ragazze (del treno ecc.) in cui anche la “mia” niente affatto sentimentale Gerda Taro, La ragazza con la Leica, si è di recente intruppata..

Un titolo più sobrio o un’immagine più ricercata avverte di un’eventuale contenuto letterario, ma con la delicatezza di un compromesso calibrato affinché nessuna lettrice si spaventi. Che l’opera di una scrittrice possa essere calata dall’alto, rivestendosi del nero integrale di Everyman di Phillip Roth o del rosso Fontana di Le Benevole, comunicando anche alle Marilyn odierne che va affrontata in barba a ogni osticità, rappresenta un’evenienza più unica che rara. In Italia, oltretutto, un genere associato al maschile come il crime seriale, viene, al contrario, routinariamente proposto in una veste elegante che lo innalza nei pressi della letteratura. L’ironia amara è che anche i libri non appositamente confezionati per loro – i noir e i thriller, i titoli letterari scritti dagli uomini ecc. – sono oggi comprati e letti in buona parte dalle donne.

La realtà è che molte donne non corrispondono allo stereotipo tutta emotività che l’editoria replica di copertina in copertina. Così come nel guardaroba hanno anfibi e abiti svolazzanti, chiodi di pelle e tacchi alti che finiscono spesso ironicamente combinati, in molte delle loro librerie ci sono Phillip Roth e Margaret Atwood, L’amica geniale e Il Signore degli anelli. E se anche fosse vero che cercano la condivisione d’esperienze, l’immedesimazione, sopratutto nei libri delle donne (ma non vale altrettanto per le opere dei colleghi prescelte dai lettori?), questo non vuol dire che non si aspettino anche il confronto riflessivo o la scoperta di mondi sconosciuti. Le ragazze che amano leggere, in fin dei conti, sono poi quelle che s’iscrivono alle facoltà umanistiche, dove gli studenti maschi sono la minoranza: vale a dire che il numero maggiore di persone provviste di qualche competenza letteraria si trova oggi tra le donne. Poi, certo, le eredi di Emma Bovary esistono. Ma anche un romanzo melenso richiede una fruizione solitaria, un processo che lascia più spazio all’immaginazione e all’emozione soggettiva rispetto alle narrazioni dove le immagini sono già pronte; cosa che non c’entra con la letteratura e neanche con un’idea di cultura “che rende migliori”, ma potrebbe, in minima parte, contribuire al benessere di quella lettrice.

Ad ogni modo, se entrando in una libreria fossero soltanto quei titoli a inondarci di una nuvola pastello avremmo risolto i problemi di cui stiamo ragionando. Perché i libri scritti dalle donne sono ormai fisicamente così simili che si annullano l’un l’altro. Non saprei dire quante volte mi sia accorta che il tal romanzo non l’avrei mai preso in mano, se non mi fosse stato consigliato da qualcuno di cui mi fido. Come dovremmo convincere gli uomini a leggere dei libri scritti dalle donne, se chissà quante lettrici non ne sono attratte? Ci si è mai posti seriamente la domanda se il rischio di non far arrivare certi titoli a coloro che sono in grado di apprezzarli (e poi recensirli, studiarli ecc.) possa pesare più del tornaconto di blandire delle acquirenti occasionali? Non è sessista pure il dare i lettori per persi in partenza o costringerli a nascondersi sotto le coperte con delle copertine imbarazzanti, come quelli della tetralogia ferrantiana?

Pur comprendendo che l’editoria non tende quasi mai a lasciare la strada vecchia per una strada nuova, penso che quell’arruffianamento al ribasso possa, alla lunga, rivelarsi dannoso non solo per le donne, ma per tutti coloro che tengono ai libri e alla letteratura. Nella trappola di Madame Bovary è compressa una forza che le è vitale: un’immaginazione libera di andare non soltanto dove ti porta il cuore, ma ovunque voglia andare.

L’AUTRICE – Helena Janeczek, nata a Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da oltre trent’anni. È autrice dei romanzi Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), finalista al Premio Comisso e vincitore del Premio Napoli, del Premio Sandro Onofri e del Premio Pisa, Lezioni di tenebra (Guanda, 2011) e La ragazza con la Leica (Guanda, 2017).

L’APPUNTAMENTO A TEMPO DI LIBRI – Venerdì 9 marzo, alle ore 19, presso lo Spazio Incontri di Fieramilanocity è in programma l’incontro intitolato “Il mondo letterario e il riconoscimento del valore delle scrittrici”, organizzato da ilLibraio.it, che vedrà protagoniste Helena JaneczekLoredana Lipperini (scrittrice – il suo ultimo libro, L’arrivo di Saturno, è pubblicato da Bompiani -, giornalista e conduttrice di Fahrenheit su Radio3), Giusi Marchetta (insegnante e scrittrice – si appresta a tornare al romanzo con Dove sei stata, Rizzoli), Bianca Pitzorno (scrittrice amata da più di una generazione di lettori) e l’editore Luigi Spagnol. Modera Antonio Prudenzano, giornalista e responsabile editoriale de ilLibraio.it.

 

 

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