Come spiega Gianluca Diegoli in “Seguimi! Il marketing come culto, il culto come marketing”, siamo tutti (o quasi), costantemente e allegramente manipolati da culti nuovi di zecca. Queste sette “light” non sono pericolose come quelle vere, eppure a ben vedere funzionano con le stesse, identiche regole… – Su ilLibraio.it due estratti dal libro (“Nella tribù dei discepoli” e “Microbrand e nobiltà”)
Gianluca Diegoli, consulente e professore di marketing, già autore di Svuota il carrello. Il marketing spiegato benissimo (Utet) e di altri manuali, è un divulgatore nel suo campo anche attraverso la newsletter Il venerdì di [mini]marketing.
Da trent’anni osserva “con un certo stupore” gli intrecci tra cultura, internet e consumismo. Come si legge nella sua biografia, dopo una carriera in grandi brand, “invece di intraprendere un viaggio spirituale”, ha deciso di dedicarsi alla consulenza.
Ora torna in libreria, sempre per Utet, con Seguimi! Il marketing come culto, il culto come marketing.
Perché parlare di culto? In principio fu Apple. Non bastava più la “fedeltà al marchio”, che per decenni di pubblicità aveva spinto la signora a non scambiare il suo Dash per due anonimi fustini. Apple con il “Think different” dettava un comandamento: non avrai altro computer all’infuori di me. Sui primi forum online infuriavano battaglie tra gli utenti Mac radicalizzati e gli infedeli che ancora servivano l’idolo fasullo pc e il falso profeta Windows.
Scopri le nostre Newsletter

Notizie, approfondimenti e curiosità su libri, autori ed editori, selezionate dalla redazione de ilLibraio.it

Che cosa era successo? Be’, il marketing aveva semplicemente fatto un passo avanti: il marchio non si doveva più amare, si doveva venerare e difendere, perché ci faceva entrare in una specifica setta di consumatori, in cui sentirsi accolti e amati, in cui riconoscersi e identificarsi. Eppure al mercato neanche questo bastava, come dimostra Diegoli nel suo nuovo libro. Il passaggio successivo è stato quello di smaterializzare il culto del singolo prodotto per raggiungere la vera trascendenza del consumo, immateriale e pervasiva: non siamo più devoti a una marca, ma a delle pratiche, che siano il running, la mindfulness, il foodporn, le vacanze da postare sui social o la skincare coreana da praticare come un rito laico di purificazione.
Come si spiega in Seguimi!, è una verità che non ci piace sentire, ma siamo tutti costantemente, allegramente manipolati da culti nuovi di zecca, che durano qualche mese come BeReal o qualche anno come lo zumba. Per fortuna, queste sette “light” non sono pericolose come quelle vere, eppure a ben vedere funzionano con le stesse, identiche regole…
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
Nella tribù dei discepoli
Gli umani sono esseri sociali, si dice. Il marketing ha mimetizzato da sempre l’incentivo al bieco consumo mascherandosi dietro occasioni per socializzare: le corse cittadine del sabato mattina, dove Nike rafforza la sua community, gli aperitivi dove brand come Campari monetizzano, i festival musicali brandizzati Coca-Cola, i workshop di cucina sponsorizzati da KitchenAid, i raduni di appassionati di videogiochi organizzati da PlayStation.
Ma anche gli hobby sono socialmente monetizzabili: oggi il découpage, l’arte di aggiustare le bici, mobili e tutto il ritorno al recycling delle robe usate si svolge in gruppi Telegram, WhatsApp, scambiandosi tutorial su YouTube e TikTok; gli hobbisti recuperatori di mobili condividono le sfide su Pinterest. Del resto, persino la religione, in fondo, ha offerto spazi di aggregazione. Come in Quattro matrimoni e un funerale, dove le cerimonie sono un’occasione per intrecciare relazioni.
Oggi l’appartenenza a un gruppo è sempre più una necessaria componente equilibratrice di una vita da smart working, scrolling social e streaming da divano. Ci serve essere in contatto stretto con altri per svolgere le cose, da soli non riusciamo a fare più nulla: pare che la peer pressure (la pressione dei pari) sia necessaria. Il runner che corre da solo in realtà è probabilmente connesso tramite l’apposita app Strava a una sua personale cerchia in cui ci si confronta sul rapporto tra risultati e sforzi: il gruppo a ogni sessione lo incoraggerà pubblicamente (e magari lo criticherà sottobanco).
In pratica la passione ha assorbito la vita sociale “generica”. In palestra noto che la mia modalità “giro solitario in sala attrezzi munito di cuffie isolanti” è sempre più soppiantata dalla modalità “sessioni collettive urlanti”. I corsi online di qualsiasi cosa hanno ricreato il meccanismo delle classi annuali, in modo che gli studenti iniziando assieme un percorso possano interagire tra di loro, e avvertire la pressione sociale degli altri partecipanti per frequentare diligentemente.
Oggi, non a caso, se c’è una cosa che accomuna tutti i brand cult, è il tentativo di cementare una comunità tra i propri clienti e un legame tra chi si riconosce nel brand. Nel marketing la community ha avuto momenti di gloria e momenti di oblio. Le aziende “normali” vedono prosperare i brand cult muniti di community e ogni brand ne vorrebbe una. La FOMO dei brand per la community non è mai stata così intensa.
Le community oggi sono qualcosa di più fluido rispetto ai vecchi forum e blog. Su TikTok, ogni creator è il leader di una microcommunity dentro a community più grandi. Una farmacista di provincia può trasformarsi in una guru del digiuno intermittente, con migliaia di visualizzazioni e commenti di follower che chiedono “info” come se Google non esistesse più. È una rete di appartenenze sovrapposte: la sua community, quella della dieta intermittente e la più ampia galassia del biohacking (che, per chi se lo chiede, è l’arte di ottimizzare corpo e mente con pratiche che vanno dal digiuno all’acqua calda al mattino – ne parleremo fin troppo, più avanti).
A pensarci adesso, mi viene nostalgia del primo blog di Ducati, dove i commenti erano mossi dal desiderio di aiutarsi a vicenda. Poi le community si sono spostate sui gruppi Facebook, il rifugio preferito dei motociclisti della domenica per organizzare giri nei tornanti dell’Appennino. Ducati è (era?) un perfetto esempio di brand di culto: distante e irraggiungibile come un dio del Vecchio Testamento, da adorare e basta.
Scopri il nostro canale Telegram

Ogni giorno dalla redazione de ilLibraio.it notizie, interviste, storie, approfondimenti e interventi d’autore per rimanere sempre aggiornati

Nella letteratura di marketing la community si trasfigura a volte in “tribù”: «Un gruppo di consumatori che condividono interessi, valori e passioni comuni, creando una connessione emotiva intorno a un prodotto, un brand o un’idea». All’inizio degli anni duemila Bernard Cova, sociologo e professore di marketing, teorizza il marketing tribale: puntare più sui legami emozionali (un termine abusato, ma piuttosto amato dai direttori marketing, che cercano di infilarlo ovunque, spesso a sproposito) e meno sugli scambi economici (razionali). La tribù non compra un prodotto; compra un’identità. Ai tempi tutti volevano fare “marketing non convenzionale” (la tv, la stampa e i banner erano considerati “convenzionali”, ferri vecchi), e la creazione di una tribù rientrava nel cassetto degli attrezzi dell’uomo di marketing alla moda di allora.
Con l’uovo di Colombo della tribù il marketing riesce a sbolognare lavoro agli adepti, che peraltro sono felicissimi di farlo. Sono quindi i membri della tribù a mantenere stretti i legami. Il brand diventa il collante invisibile che trasforma individui dispersi in un’unica forza collettiva. Ci si allontana via via dal materialismo di prodotto, cioè, semplificando, si valorizza l’allure della tribù e non i chilogrammi di alluminio di una moto. Per farlo, basta fare leva sul senso di appartenenza al branco, sulla volontà di esprimere sé stessi. Qualcuno potrebbe dire: si fa aumentare il tasso di irrazionalità nel consumatore per fargli aprire più facilmente il portafoglio.
Questo legame profondo tra brand e community si spiega perfettamente con il principio di unità di Cialdini. Siamo più propensi a fidarci, supportare e acquistare da chi percepiamo come parte del nostro gruppo, uniti da valori ed esperienze comuni. I brand cult creano simboli riconoscibili che rafforzano il senso di appartenenza. Acquistare è un modo per dire “io faccio parte di questo gruppo”. Sostenere il brand diventa un dovere perché è parte di ciò che siamo. In effetti forse mai come in questo periodo la parola “identità” è stata così mainstream, e questo nonostante l’altro nome del principio di unità sia un molto poco lusinghiero “effetto gregge”. A un certo punto il marketing ha capito che le funzionalità sono facilmente replicabili (una crema notte X è, al 99 per cento, uguale a una crema notte Y, dopo tutto) mentre la tribù non lo è. La tribù è una specie di energia rinnovabile del marketing: trasforma un’inesauribile voglia di appartenenza in fatturato, senza passare dalla pubblicità tradizionale. Si scambiano devozione, tempo e attenzione in cambio di un prodotto “identitario”.
Microbrand e nobiltà
La frammentazione della società digitale ha portato alla proliferazione di centinaia di microbrand che si plasmano ciascuno su di una particolare bolla. Non tanto per specializzarsi sulle necessità cosmetiche della pelle “che invecchia” (anche se esiste almeno un brand dedicato alla terza età, dal nome evocativo di Look Fabulous Forever), ma per sintonizzarsi su valori, estetiche e credenze di particolari community. Il settore del beauty è composto in Italia da oltre cinquecento brand attivi, che mettono in commercio centinaia di migliaia di formulazioni, sostanzialmente simili tra loro ma avvolte da un “packaging ideologico” peculiare.
Niente di tutto questo sarebbe successo senza internet: la Rete ha abbattuto il muro tra brand cult e generazioni Millennial e Z, e gli ha conferito un “ruolo sociale”. Il prodotto rimane quindi più in ombra rispetto invece ai riferimenti subculturali. La funzione cosmetica (il “funziona!”) non è più il primo elemento di scelta. In pratica, in un mondo in cui tutti i brand promettevano miracoli, anche la disillusione per l’efficacia viene sfruttata per promuoversi a seconda dei casi attraverso la bellezza “realistica”, l’inclusione di genere, il ritorno alla natura, la spiritualità, il femminismo, i diritti sociali, la sostenibilità ambientale. Il brand si posiziona nella società attraverso i contenuti che crea, i colori che usa, e i riferimenti a ciò che succede nel mondo. Che venda un rossetto è secondario: non è raro osservare brand USA prendere posizione sul diritto all’interruzione di gravidanza. In Italia più pragmaticamente ci sono brand che recuperano mosto d’uva dalle cantine di famiglia per produrre olio di vinaccioli dall’azione antiossidante, e ciò basta per definirsi impegnati nel “beauty circolare”.
Ma la lista delle nobili cause è potenzialmente infinita. In un magazine di lifestyle si legge, all’interno di un ennesimo I migliori brand di make-up: la nostra selezione, sui criteri di scelta: «I valori sono importanti e per questo la scelta di un brand make-up non è legato solo alla tipologia di prodotto ma anche alla sua filosofia. Quando si parla di bellezza, la dimensione emotiva è sempre molto forte, per questo vale la pena chiedersi: quale marchio incarna e rappresenta i valori a cui tengo? Per esempio, ha una connotazione naturale? Ha un INCI [l’INCI è la sigla che sta per “lista degli ingredienti” di un cosmetico] pulito, rispettoso della pelle? Ha attivato strategie produttive che impattano il meno possibile sull’ambiente? Lo ha fondato un personaggio che stimo e in cui mi identifico? Questo significa fare una scelta consapevole». Non sto più comprando una crema, sto richiedendo un certificato di appartenenza e di eticità da mostrare in giro.
Scopri la nostra pagina Linkedin

Notizie, approfondimenti, retroscena e anteprime sul mondo dell’editoria e della lettura: ogni giorno con ilLibraio.it

L’ininterrotta sensibilizzazione alla skincare di creator e influencer crea sia la domanda che l’offerta. In una prima fase sono state le influencer “internet-native” a formare attorno a sé community attraverso i famigerati tutorial – la chiave era diffondere gratuitamente contenuti che prima erano confinati a professioni come la make-up artist e l’estetista dietro casa.
Lo scambio di successo è stato: ti diamo conoscenze gratis in cambio della tua attenzione. All’inizio sembrava conveniente, ma col tempo l’attenzione è diventata più preziosa della conoscenza elargita. Per cominciare servivano: a) una personalità di spicco; b) capacità di produrre video in linea con i format richiesti dalle piattaforme; c) avere un modello di business per monetizzare la community. Estrarre valore economico dalle relazioni, direbbe il solito cinico economista. Le community vendono, direbbe il marketer. Puoi fare collaborazioni promuovendo prodotti di altri, oppure puoi provare a creare un tuo brand. L’ascesa di Instagram come vetrina Millennial del mondo in vendita ha facilitato le cose.
Non guasta poi che il beauty goda di margini ben superiori ad altri settori. Insomma, produrre prodotti di bellezza costa relativamente poco rispetto al prezzo di vendita, non serve nemmeno avere economie di scala così elevate. Oggi è semplice farsi produrre piccoli lotti di flaconi personalizzati. Chiunque, appoggiandosi ai cosiddetti “produttori terzisti” (la cosmesi ha i suoi hub mondiali di produzione tra Cremona e Bergamo), può dare vita al proprio marchio. Così, dallo stesso stabilimento di Crema può uscire il prodotto di un famoso brand quanto quello creato da una influencer di Buccinasco. Il prodotto magari è all’incirca lo stesso, ma l’immagine che proiettano. E nel marketing, questo fa la differenza: si chiama posizionamento.
(continua in libreria…)