Chi produce i nuovi storytelling digitali? Chi li fruisce? Dove si vedono? Il nuovo libro di Simone Carfagni, “Storytelling digitale. Le nuove produzioni 4.0”, che sarà presentato alla 78^ edizione della Mostra di Venezia, mappa le risposte a queste domande offrendo un’aggiornata prospettiva- Su ilLibraio.it un estratto

Le piattaforme video non rappresentano solo un business di successo, ma anche una nuova generazione di “narratori di storie” che stanno creando nuove regole di narrazione, in grado di influenzare l’industria audiovisiva e di coinvolgere la società nei loro immaginari.

A questo proposito, esiste già una galassia di produzioni audiovisive non più riconducibili ai modelli cinematografici e televisivi: nuovi generi, nuove tecnologie, nuove piattaforme, nuovi sistemi produttivi e distributivi, nuovi pubblici. In una parola nuovi storytelling profondamente legati al mondo digitale.

Chi li produce? Chi li fruisce? Dove si vedono? Storytelling digitale. Le nuove produzioni 4.0 (Luiss University Press) di Simone Arcagni offre una prospettiva a volo d’uccello su questo mondo fatto di webserie, idocs, contenuti transmediali, storytelling interattivi, videomapping, realtà virtuale, realtà aumentata e molto altro ancora.

L’autore, professore all’Università di Palermo, oltre che collaboratore di numerose riviste, consulente, curatore e divulgatore di nuovi media e nuove tecnologie, ha infatti messo a punto nel volume una mappatura, che muove dal panorama internazionale per poi soffermarsi anche su quello italiano.

L’opera, la cui postfazione è stata curata da Derrick de Kerckhove e da Maria Pia Rossignaud, domenica 5 settembre alle ore 16 sarà presentata in occasione della 78esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia presso lo Spazio Italian Pavilion, in collaborazione con Rai Cinema e Anica, e vedrà coinvolti Francesco Rutelli (presidente Anica), Paolo Del Brocco (amministratore delegato Rai Cinema), Manuela Cacciamani (presidente Unione editori digitali e creators Anica), Claudia Mazzola (responsabile centro studi Rai), Carlo Rodomonti (responsabile marketing strategico e digital Rai Cinema) e Fru dei The Jackal.

Copertina del libro Storytelling digitale

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto del saggio:

In Fahrenheit 451 la protagonista interviene in una serie Tv modificando il corso degli eventi: l’idea di un cinema interattivo ha radici lontane, nella fantascienza ma anche nel pensiero di alcuni teorici del cinema.

Già nel 1967 Radúz Cˇinˇcera propone Kinoautomat, un film in cui le vicende possono prendere strade diverse a seconda di ciò che la maggioranza del pubblico decide, il tutto premendo un pulsante in determinati momenti dello spettacolo. Ce lo raccontano Antonio Pizzo, Vincenzo Lombardo e Rossana Damiano, autori di Interactive storytelling.19 La storia dei contenuti interattivi su base informatica si può far risalire agli anni Sessanta. Eliza, per esempio, è una terapista artificiale progettata nel 1966 dal MIT. Premesso che non esiste un vocabolario unico e concordato per quanto riguarda l’interactive storytelling, possiamo prendere atto di una serie di sperimentazioni che, di volta in volta, assumono il nome di libro-game, compufiction, cinema, Tv e performance interattiva, pervasive gaming. Si può provare a limitare il campo definendo interactive storytelling la produzione di testi che utilizzano tecnologie digitali, si sposta su diversi media e si relaziona con il fruitore aprendo uno spazio più o meno ampio di relazione: interazione, partecipazione, collaborazione ecc. Ne abbiamo davvero moltissimi esempi, che vanno dal mondo dei videogame a quello dei social. Le pratiche sono anch’esse molteplici: dal mondo delle storie gerarchiche (ramificazione di possibilità) o labirintiche (esplorazione di diverse vie verso la conclusione) che sfruttano la logica combinatoria. Un modello alternativo è invece quello generativo in cui un algoritmo non mette in fila gli eventi, ma li genera una volta dati alcuni presupposti. Non resta che avventurarsi in questi testi in cui ogni definizione di genere si rivela ardua e che vanno da Desert Rain di Blast Theory a Bandersnatch. Territori che ridefiniscono il senso di installazione, videogame, cinema, televisione e performance.

Cominciamo col dire che le forme interattive per la sala (sul  modello di Kinoautomat) sono davvero poche, anche a causa della peculiarità della proiezione tradizionale. L’horror Last Call imbocca la via della narrazione a scelta multipla invitando alcuni spettatori a interagire tramite il loro smartphone. Lo stesso modello provato dal film Late Shift di Tobias Weber presentato al Festival di Locarno nel 2016. Ma si tratta di casi rari. Ben più interessanti i casi come Revolution 1979: Black Friday, un ibrido davvero coinvolgente tra documentario, film di fiction e videogame. Protagonista un fotografo che si trova a Teheran, in Iran, coinvolto nelle proteste che porteranno alla destituzione dello Shah e alla presa del potere di Khomeyni. E, ancora, The Moment,  in cui lo spettatore indossa un caschetto dotato di sensori. Si chiama NeuroSky MindWave, ed è un’elaborazione dell’elettroencefalografia (Eeg) che serve per tracciare l’attività elettrica cerebrale e misurare il livello di attenzione del pubblico. Le informazioni che il dispositivo capta vengono inviate in tempo reale al software proprietario sviluppato da Richard Ramchurn, che non appena le riceve le elabora, le interpreta, e apporta di conseguenza e in tempo reale le modifiche necessarie in base agli input ricevuti: modifica le scene, la colonna sonora, i dialoghi. Parliamo di una ulteriore declinazione del concetto di film interattivo, ma l’elemento innovativo interessante da osservare è proprio nell’uso della cosiddetta “brain interface”.

Il territorio ibrido tra cinema e videogame nel tempo si è diversificato: L.A. Noire (il primo videogame a essere invitato in una sezione ufficiale di un festival del cinema, il Tribeca, nel 2011), per esempio, si caratterizza per un’adesione notevole ai modelli  cinematografici del noir classico, oltre al fatto di giovarsi di una recitazione live animata in un secondo momento. Mentre una linea evolutiva può essere in qualche modo tracciata da Doom e Tomb Raider fino ad arrivare ai più complessi Assassin’s Creed o Grand Theft Auto. Per non parlare di quei gioielli di narrazione interattiva che sono The Last of Us e Detroit: Become Human. Particolarmente interessante è anche il fenomeno dei giochi realizzati con algoritmi generativi (come No Man’s Sky), situazioni di gioco che potenzialmente non finiscono mai e sono costruiti dalla presenza degli utenti che partecipano, costruiscono, condividono i loro artefatti.

Sul fronte dell’interattività si è parlato molto di Bandersnatch, l’episodio interattivo della serie Black Mirror prodotto da Netflix. Ma dietro allo storytelling interattivo c’è davvero un mondo composito e vario. Eko, per esempio, è una giovane start up americana che si è fatta già notare. All’inizio per la produzione di video musicali interattivi e poi per la realizzazione di una vera e propria piattaforma di contenuti interattivi o, come li chiamano loro, “cinematic interactive video”. Cosa si può trovare quindi su eko.com? Alcuni reality, per esempio, sul fai-da-te o sulla cucina. Il classico format televisivo viene aperto alla possibilità dello spettatore di prendere decisioni, seguire un percorso o un altro, un personaggio o un altro. E poi una vera e propria guida turistica interattiva, a dire il vero piuttosto interessante. Nell’episodio di New York si ha a disposizione una guida personale che accompagna e informa, ma propone delle scelte a bivio riguardanti i gusti dell’utente: preferite una vera colazione all’americana seduti in caratteristico diner o un caffè al volo? Preferite i luoghi d’arte o gli scorci più caratteristici? Volete muovervi in bus o a piedi? Ma la parte più golosa della proposta di Eko è rappresentata dalle serie, comedy o drama. In Epic Night si può seguire una folle notte tra adolescenti scegliendo il punto di vista di uno dei partecipanti, mentre The Coop trasporta l’utente all’interno di un reality modello Grande fratello in cui però uno dei partecipanti viene trovato ucciso. Al posto di fermare il programma la produzione chiede agli spettatori di trovare indizi e investigare per cercare il colpevole. Siamo noi quindi a spiare i vari personaggi, le zone della casa, costruendo un nostro personale percorso alla scoperta dei protagonisti e degli indizi per risolvere il mistero.

L’universo dello storytelling interattivo è davvero vario e multiforme e si arricchisce sempre più di applicazioni anche dal di fuori degli àmbiti dello spettacolo e dell’intrattenimento. Si parla in questo caso di applied game o serious game che sottostanno alle regole della produzione dei videogame per trovare poi il loro campo di applicazione in àmbiti differenti come la medicina, la formazione, l’educazione ecc.

Le nuove generazioni famigliarizzano con l’interattività a diversi livelli (basti citare il successo incredibile di fenomeni come Angry Birds, Minecraft, World of Warcraft, Fortnite, solo per citarne alcuni) e quindi il linguaggio, e di conseguenza il modello produttivo, del game si appresta a colonizzare diversi spazi; il termine che è stato coniato è quello di gamification.

C’è poi un genere interattivo che si dispone su livelli diversi, quello degli Alternate reality game (Arg). Siamo nel 1997: esce The Game di David Fincher, film in cui il protagonista è calato in una trama narrativa decisamente complicata e reticolare. The Game è la dimostrazione di ciò che da lì a qualche anno verrà chiamato Arg. Si tratta di una struttura narrativa complessa in cui il fruitore viene immerso in un universo narrativo fatto di diversi indizi, e in cui si deve muovere secondo regole tipiche dei giochi (e in particolare dei multiplayer). Ciò che inoltre caratterizza gli Arg è una tendenza transmediale per cui il fruitore deve operare su diversi media e secondo diverse abilità, alternando reale e virtuale. Un gioco, quindi, molto complesso, intricato. L’Arg si pone in un territorio ibrido dove il videogame si contamina con i giochi di ruolo, dove strategie transmediali (gli Arg sono spesso usati per campagne pubblicitarie) si mischiano a esperienze immersive. Dove il linguaggio dei film incontra la “caccia al tesoro”. Contaminazione, quindi, nel nome di immaginari, ruoli e anche tecnologie (un buon architetto di Arg si muove con abilità tra piattaforme, social e magari nuove tecnologie come la realtà virtuale e quella aumentata). Un Arg famoso è la campagna Why So Serious? che ha condotto una serie di fan alla caccia di indizi per arrivare alla soluzione dell’enigma che li ha portati alla prima del Cavaliere oscuro di Cristopher Nolan: un esempio di come un film incontra strategie di marketing, esse stesse narrative. Dall’altra è un Arg anche l’esperienza di Secret cinema, la società che organizza live event in cui ricostruisce le sequenze più famose di alcuni film cult coinvolgendo il pubblico a partecipare assieme ad attori e comparse.

(continua in libreria…)

Libri consigliati