In arrivo in libreria il saggio-memoir di un grande traduttore italiano, Massimo Bocchiola

«Tradurre testi letterari è bello. Consente di impossessarsene a proprio uso, e nel contempo – se lo vogliamo, se ne siamo capaci, molto o poco – di farne dono ad altri. Inoltre, dopo tutti questi anni, il pensiero di non tradurre nulla per un periodo prolungato mi dà un inevitabile senso di vuoto, di routine sconvolta. Di una routine, peraltro, che ha una sua natura molto specifica che potrei definire la felicità del traduttore».

Nel saggio-memoir Mai più come ti ho visto – Gli occhi del traduttore e il tempo (in arrivo in libreria per Einaudi Stile Libero), Massimo Bocchiola (che in una ventina d’anni di attività ha tradotto dall’inglese opere di narrativa e di poesia di numerosi autori, tra i quali Kipling, Stevenson, Beckett, Amis, Pynchon, Auster, Welsh) racconta il suo mestiere di traduttore letterario, colui che insegue per centinaia, migliaia di pagine le parole degli altri, senza mai davvero raggiungerle, come un Achille «che rincorra Achille».

E riflette sul legame fra la traduzione e il tempo. Restituire un testo in un’altra lingua significa infatti far rivivere il passato, modificarlo, rendere la sua eco infinita, e quindi in qualche modo superare il limite, sconfiggere la morte.

Einaudi

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