“La classe disagiata rappresenta la sconfitta di una generazione, certo, ma soprattutto la sconfitta di tutta una società che non è riuscita a costruire il proprio futuro”. Raffaele Alberto Ventura parla con ilLibraio.it della sua “Teoria della classe disagiata”, oggetto di un saggio che riflette sulla differenza tra le aspirazioni e le reali possibilità di lavoro della classe culturale: “È spaventoso notare che lo Stato, l’Università, le famiglie hanno lasciato molti giovani ostinarsi in scelte formative del tutto irrazionali, percorsi di studio schizofrenici…” – L’intervista (in cui si fa anche un confronto con il contesto francese)

Prendendo le mosse da La teoria della classe agiata di Thorstein Veblen, il 33enne Raffaele Alberto Ventura formula una teoria sociale, più che economica, al limite della distopia: la realtà di una classe sociale media che non può permettersi di realizzare le proprie ambizioni ma, allo stesso tempo, non rinuncia ad aspirare alle posizioni “intellettuali”, nella speranza che ne derivi una ricchezza e una dignità che, nei fatti, vengono raggiunte da un candidato su mille. Quell’uno su mille andrà a costituire, secondo l’autore de La teoria della classe disagiata (minimum fax), la classe agiata di Veblen, ma tutti gli altri?

classe disagiata

Ventura, che da oltre dieci anni cura Eschaton, dopo studi di filosofia e di economia della cultura, si è trasferito a Parigi, dove si occupa di marketing editoriale per una prestigiosa casa editrice francese. ilLibraio.it lo ha intervistato.

“(…) È precisamente da questo disagio che nasce Teoria della classe disagiata: come testimonianza di una sconfitta, forse anche come autoanalisi, se possibile persino come mappa per orientare chi si affaccia alla vita adulta carico di aspettative. Se mi chiedono quali speranze ci restano, io risponderò come Kafka: c’è molta speranza, ma nessuna per noi. Vengono già nuovi uomini e nuove donne, più disperati e meno fragili, per pigliarsi il mondo che lasceremo. A loro questo libro è dedicato”. Quella che racconta, dunque, è la sconfitta di una generazione?
“La classe disagiata rappresenta la sconfitta di una generazione, certo, ma soprattutto la sconfitta di tutta una società che non è riuscita a costruire il proprio futuro. Nel libro mostro che è difficile dare la colpa a qualcuno – ai giovani fannulloni, ai padri avari, ai politici o alle banche… – perché la catena delle cause risale molto lontano, fino a certe contraddizioni strutturali che portano presto o tardi ogni classe relativamente agiata ad autodistruggersi. Il termine ‘sconfitta’ ha forse una connotazione morale ma è interessante perché evoca l’idea che ci sia una competizione. In effetti è proprio la competizione in seno alla classe media a essersi radicalizzata in una vera e propria escalation di spese, sacrifici e consumi. Una guerra di logoramento con molti sconfitti e pochi vincitori”.

In questi anni ha scritto molto in rete (soprattutto sulla pagina Eschaton), ma secondo lei che ruolo ha avuto il web nella creazione della “classe disagiata”?
“Lo sviluppo delle nuove tecnologie ha abbassato le barriere all’entrata in molti settori professionali, a partire da quelli culturali ma non solo. Questo ha prodotto indubbiamente dei risultati benefici: un aumento dell’offerta, della disponibilità di beni e servizi anche molto utili, oltre alla possibilità di aggirare i vecchi monopoli in diversi settori”.

Un esempio?
“Ad esempio il web ha permesso al sottoscritto di farsi conoscere dai lettori e dagli editori, a partire da un capitale accademico e sociale inizialmente nullo. Ma abbattendo le barriere all’entrata, questo sistema ha creato le condizioni di una concorrenza esacerbata: troppe aziende che si contendono gli stessi mercati, troppi lavoratori che si contendono gli stessi lavori, troppi prodotti che si vendono sempre meno. Una torta sempre più grande con porzioni sempre più piccole. È la cosiddetta ‘coda lunga’, che descrive la forma di quella curva delle vendite che spiega il successo di ‘meta-aziende’ come Amazon”.

A questo proposito, riferendosi a internet come motore di produzione, diffusione e promozione di contenuti (self publishing, ma non solo), qual è la responsabilità del web nella creazione delle illusioni della “classe disagiata”?
“Quelle che qui chiamo meta-aziende sono aziende che prosperano proprio sulla concorrenza delle altre aziende o degli individui, ne hanno un bisogno vitale perché ciò che vendono sono sostanzialmente ‘armi’ per la competizione sociale. Insomma vendono speranze. Lo si vede nelle pubblicità degli smartphone, che in fin dei conti giocano sempre sulla promessa di potersi realizzare, diventare artista, DJ, oppure imprenditore nomade. Per sopravvivere, queste aziende devono creare illusioni, creare una classe disagiata che aspiri a un certo tipo di vita, per poi vendere i loro prodotti come fossero biglietti della lotteria”.

Quanta parte della classe disagiata è consapevole di far parte della “classe disagiata” che descrive nel libro?
“Quando ho iniziato a scrivere il libro avevo l’impressione che nessuno attorno a me si rendesse conto di questa cosa, ma devo dire che oggi discuto con un numero crescente di persone che sono d’accordo con me, che riconoscono che c’è qualcosa di ‘ideologico’ nelle nostre aspirazioni”.

Qualcosa è cambiato.
“Può darsi che siamo semplicemente invecchiati noi, e che questa lucidità venga naturalmente quando passi dalla vita studentesca, relativamente protetta, alla vita adulta, in cui inizi a porti mille domande molto materiali. Ma nel frattempo si è anche concretizzata quella crisi economica di cui sentiamo parlare da anni. Poi certamente ci sono anche quelli che non vogliono assolutamente saperne nulla di quello che dico, perché è molto doloroso ammettere che certe cose che consideravi più che sacre sono in realtà semplici fantasmi”.

All’interno della “classe disagiata” solo uno su mille ce la fa: esiste una strategia vincente?
“Ovviamente no. Ma esistono molte strategie chiaramente perdenti, ed è spaventoso notare che lo Stato, l’Università, le famiglie hanno lasciato molti giovani ostinarsi in scelte formative del tutto irrazionali, percorsi di studio schizofrenici, eccetera. Va detto che anche le strategie razionali pagano poco, per cui non è sembrato troppo assurdo parcheggiare centinaia di migliaia di persone all’università per evitare di doverli contare nelle statistiche di disoccupazione”.

Praticamente un vicolo cieco.
“Il paradosso che descrivo nel libro è che, nell’attuale mercato del lavoro, certe strategie più rischiose sono le uniche che permettono di trovare un lavoro interessante, mentre dei percorsi totalmente lineari portano ai più classici bullshit jobs che nessuno vuole fare. Ma se scegli il rischio poi di solito lo paghi, anche se gli sconfitti non sono mai qui per raccontare la loro storia (è la cosiddetta ‘fallacia del sopravvissuto’). In pratica oggi scegliere gli studi è diventato complicato come investire in borsa. E ovviamente la gente si rovina”.

“Leggendo l’economia come se fosse letteratura e la letteratura come se fosse economia, da Goldoni a Keynes e da Marx a Balzac”, il libro “vorrebbe essere un’autocritica impietosa ma si lascia volentieri consumare da una vena di malinconia”: com’è nata l’idea di interpretare in chiave letteraria le teorie economiche che prende a riferimento?
“Credo che sia iniziato tutto quando ho letto Goldoni, anzi quando ho visto La bottega del caffé fatta dalla compagnia del Teatro dell’Elfo. Sono uscito dal teatro e avevo l’impressione di avere capito qualcosa. Qualcosa di molto semplice, essenziale, su come circola la ricchezza, su come l’economia sia fondata su speranze irrazionali e rischi fatali. Poi nelle altre commedie di Goldoni emerge chiaramente questo tema dei consumi posizionali, che soltanto in un secondo tempo ho ritrovato leggendo la Teoria della classe agiata di Veblen, a cui mi sono ispirato per il titolo del mio libro”.

Lei aveva già autopubblicato questo libro in digitale un paio di anni fa. Rispetto alla sua analisi, cos’è cambiato da allora?
“I fenomeni descritti si sono accentuati e diventati più evidenti, ad esempio in una prima stesura nel 2009 io parlavo ancora del ‘print on demand’ perché il libro digitale non era ancora arrivato, ma la tendenza era ben definita. Semmai è cambiato molto il mio libro, che da principio era soltanto una raccolta di tre saggi ed è diventato (credo) una vera teoria”.

Alla fine dei ringraziamenti annuncia che La teoria della classe disagiata tornerà prossimamente in un libro intitolato La guerra di tutti. Cosa può anticipare sull’evoluzione del progetto?
“Si tratta di una riflessione che ho condotto parallelamente alla teoria della classe disagiata, nel quale il discorso se vogliamo passa dall’economico al politico ma abbraccia una problematica più larga rispetto alla sola classe disagiata. Si tratterà di un libro (già scritto per metà) sulla guerra civile, sulla guerra di tutti contro tutti, su cosa tiene assieme il corpo sociale e cosa lo minaccia, sul collasso delle élites e la minaccia del terrorismo, sul politicamente corretto e la violenza linguistica, un libro che parte da constatazioni molto pessimiste ma che vuole essere costruttivo e proporre nuovi paradigmi di convivenza multiculturale ispirati all’esperienza europea del Cinquecento”.

Lei lavora a Parigi, e si occupa di marketing per una prestigiosa casa editrice. Un osservatorio interessante, in un contesto culturale ed editoriale molto diverso dal nostro: quali sono le principali differenze tra i giovani intellettuali italiani e quelli francesi?
“In Francia è più evidente la demarcazione tra l’intellettuale legittimo (universitario, editoriale) e chi è fuori, mentre in Italia siamo riusciti a costruire una vera e propria ‘scena’ di giornalismo culturale disagiato, spesso molto preparato ma incapace di mantenersi con la sola scrittura. Sebbene si pongano i problemi di cui parlavo sopra, direi che c’è una freschezza in questa configurazione, o comunque io (forse per perversione) è sempre verso l’Italia che mi giro quando voglio respirare una boccata d’aria”.

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