Su ilLibraio.it un capitolo (dedicato a “I Viceré” di De Roberto) da “Che profumo quei libri – La biblioteca ideale di un figlio del Novecento” di Giampiero Mughini

Che profumo quei libri – La biblioteca ideale di un figlio del Novecento (Bompiani) è un libro in onore dei libri, quelli di carta. Libri come cavalieri, che vanno alla carica, disperata e inane, contro il fuoco battente dell’artiglieria digitale. Fragili creature da pochi centimetri di altezza e pochi centimetri di larghezza, ma che non per questo hanno un’aria meno imponente nel loro osare contro un nemico ben equipaggiato.

Giampiero Mughini ha scelto alcuni dei libri a lui più cari fra quelli della sua collezione dedicata al Novecento italiano, non necessariamente i più famosi e riconosciuti, anzi spesso i più obliqui, azzardati e trascurati dal grande pubblico. Quei libri, che Mughini mette in vetrina come una mostra o racconta come in una telecronaca sportiva, sono descritti minuziosamente nella veste e nelle caratteristiche che ebbero quando apparvero in prima edizione, perché quello è il momento in cui un libro arrischia la sua avventura nel mondo. Tutti insieme compongono una biblioteca ”ideale” non nel senso oggettivo del termine, bensì arbitraria e soggettiva e talvolta spudorata, modellata dai capricci della memoria e a volte dalle sue malizie.

mughini

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, un estratto, dedicato a I Viceré di Federico De Roberto:

FEDERICO DE ROBERTO, I Vicerè, Milano, Casa editrice Galli, 1894.

Quante volte avete sentito da qualcuno che stimate il giudizio secondo cui questo romanzo dell’ultimissimo Ottocento – coetaneo dei romanzi di Émile Zola e Giovanni Verga – è, di tutti i romanzi di ambientazione siciliana, superiore persino al celeberrimo Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa? Giudizi perentori a parte, e a parte i paragoni senza alcun senso tra due romanzi pubblicati a distanza di sessant’anni, per il nitore del racconto, per il profi lo della dinastia nobiliare capeggiata da Donna Teresa Uzeda e Risà principessa di Francalanza (una famiglia che “riscoteva rendite da mezza Sicilia”) che fa da asse portante della narrazione, per il tocco assieme morbido e acuminato di ogni descrizione di personaggi che sono l’uno all’altro tanto parenti quanto iene, ebbene questo è uno dei grandi romanzi italiani che scandisce il passaggio da un secolo all’altro e che quel passaggio lo nobilita. E del resto non a caso viene pubblicato a Milano, la gran città lombarda che i siciliani Giovanni Verga e De Roberto, i due campioni del verismo letterario in Italia, avevano tastato ed esplorato, e dove avevano fatto combutta nelle redazioni dei giornali e nei caffè.

A un tempo in cui la distanza culturale e umorale fra Milano e Catania era forse minore di quanto non lo sia oggi, tanto è vero che a Milano di latitudini come quelle occupate dalla Lega e dall’indipendentismo lombardo non ce ne erano. De Roberto non era siciliano di nascita ma di tutto il resto. Nato a Napoli nel 1861, venne a Catania nel 1870. Dove morì nel 1927, cinque anni dopo Verga.

Così come quella distanza era minore nei miei vent’anni, quando io vivevo a Catania (chiamata giornalisticamente la “Milano del sud”) e lessi con gran soddisfazione il libro di De Roberto. Mi commuovevo quando rasentavo il monastero dei Benedettini, in piazza San Nicola, lassù nell’alto della città barocca costruita dopo il terremoto, il monastero che fa da teatro del romanzo e dov’era nei sessanta il liceo frequentato dalla ragazza bionda per cui andavo in estasi. Quando seduto sul marciapiede aspettavo che lei ne uscisse, e mentre stavoleggendo Il Giorno su cui scrivevano Alberto Arbasino Gianni Brera Pietro Citati, ci pensavo sempre a De Roberto, a quella Catania di inizio secolo, ai corridoi di quel monastero battuto da monaci spavaldi e pronti a tutto, a quelle famiglie nobiliari i cui rampolli erano talvolta miei compagni di scuola, famiglie di cui si raccontavano cose analoghe a quelle che De Roberto scrive dei Francalanza. Iene che facevano penare un calzolaio cui avevano affidato da risuolare un paio di scarpe, quanto a pagarlo, e che in cucina raccomandavano al cuoco di riutilizzare l’olio rimasto in padella dopo la frittura. Mi commuovevo allo stesso modo quando, in un palazzo adiacente al Giardino Bellini, guardavo la targa che segnalava l’abitazione (se ricordo bene al secondo piano) dove aveva vissuto De Roberto mentre scriveva il suo romanzo. Il quale ci mise decenni ad acquistare il prestigio che ha oggi nel panorama delle nostre lettere, e per quanto sia immensamente meno noto il film che hanno tratto dal suo libro rispetto a quello ispirato dal Gattopardo.

La copia che lessi a vent’anni credo di averla ancora, su uno scaffale lassù in alto della mia biblioteca. La copia della prima edizione l’ho trovata e comprata una quindicina di anni fa. Su quella copia, in vostro onore, ho riletto I Vicerè. E, come sempre, leggere un libro nella sua versione grafi ca e cartacea originale, è tutt’altra sensazione. A me ha dato i brividi, da quanto è bello e letterariamente moderno il romanzo del 1894.

(continua in libreria…)

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