“Non dureremo due settimane. Può darsi. Ho trascorso l’estate annebbiata dal desiderio incosciente di rimettere piede a scuola e adesso che ci sono ho un tarlo che mi mordicchia lo stomaco e mi impedisce di stare tranquilla. Vivo ogni giorno come fosse qualcosa a metà tra un regalo, una vittoria e una spunta in più da segnare sul calendario, fatico a programmare, non oso pianificare, apro le circolari in bacheca temendo sempre di trovare una comunicazione dell’asl che impone la quarantena a me ed alla mia classe…” – Su ilLibraio.it Valentina Petri, insegnante e autrice di “Portami il diario” fa un bilancio molto personale, di queste non semplici prime settimane di scuola

“Non dureremo due settimane”. Mi ricordo benissimo di aver sentito questa frase, forse perché l’ha detta un collega, forse perché l’ho mormorata anch’io a voce bassa. Ed è una frase scoraggiata ma comprensibile da dire alla fine del primo collegio docenti dell’anno, quello durato più o meno come un concerto dei Led Zeppelin, ma senza musica.

Abbiamo trascorso ore a prendere confidenza con una nuova realtà scolastica fatta di temperature e mascherine e gel igienizzanti e spruzzini sanificanti. Abbiamo studiato con attenzione le 23 (ventitré) pagine della circolare di avvio anno scolastico, abbiamo stampato gli schemini con le freccette che indicano i diversi ingressi, abbiamo memorizzato i percorsi da seguire nei corridoi. Ci hanno detto in che bagno andare e quando andarci, aprendo il rubinetto con i gomiti e chiudendo la porta con una mossa di bacino alla Elvis.

Non dureremo due settimane. In qualche classe del paese è davvero andata così, alcune classi addirittura sono partite con la didattica a distanza e i ragazzi devono ancora varcare fisicamente le soglie degli istituti. In alcune scuole si va a corrente alternata, a giorni alterni, a targhe alterne, un po’ a distanza e un po’ in presenza.

Non dureremo due settimane. Può darsi. Ho trascorso l’estate annebbiata dal desiderio incosciente di rimettere piede a scuola e adesso che ci sono ho un tarlo che mi mordicchia lo stomaco e mi impedisce di stare tranquilla. Vivo ogni giorno come fosse qualcosa a metà tra un regalo, una vittoria e una spunta in più da segnare sul calendario, fatico a programmare, non oso pianificare, apro le circolari in bacheca temendo sempre di trovare una comunicazione dell’asl che impone la quarantena a me ed alla mia classe.

Invece l’altra mattina mi hanno affibbiato una supplenza (sì, le supplenze non si assegnano si affibbiano, anzi si rifilano). Una supplenza all’ultima ora, perché i supplenti non sono ancora stati tutti nominati e quindi l’orario si completa come si può. Mi sono ritrovata in una classe non mia, dove non ero mai stata. I ragazzi, giganti felpati e mascherati, avevano aperto le finestre. Non perché ci fosse scritto sulla circolare (e c’è scritto), ma perché la pioggia dannunziana che aveva funestato la mattinata, battente, a scrosci violenti e rumorosi, era cessata di colpo lasciando uscire un sole inaspettato e ancora capace di scaldare.

Uno studente dell’ultimo banco con vista cortile mi ha chiesto premuroso se avessi freddo, ma non ne avevo. Poi, presa confidenza, mi ha chiesto se, trattandosi di un’ora di supplenza, io fossi così gentile da concedergli di finire il panino, perché tra la coda e il distanziamento, nell’intervallo la procedura di approvvigionamento si è allungata e lui non era riuscito a finire per tempo il fiero pasto. Magnanima, glielo concedo. E visto che il cibo incoraggia sempre la convivialità, iniziamo a chiacchierare, come si fa sempre, “lei che classi ha? questo lo conosce? sa già chi avremo di mate?”.

Io quanto meno chiacchieravo, i compagni partecipavano e lui masticava parole e mortadella. Quando ha finito si è allungato un po’ nel banco che lo imprigionava, ha guardato fuori l’aria ripulita dalla pioggia, respirandone il più possibile, poi si è tirato su la mascherina mi ha detto “oh, che bello, prof, ma lo sa che mi era mancato?“. “Che cosa?” gli ho chiesto. “Boh, non so bene. Queste cose qui. Fare lezione tutta la mattina e poi scoprire che l’ultima ora c’è supplenza. Mangiare a scuola con i compagni di classe. Pensare che per fortuna ha smesso di piovere sennò arrivavo a casa marcio e poi fare la strada col motorino. Guardare fuori appoggiato al mio banco vicino al termosifone. A proposito: da quand’è che li accendono, che metto la roba su a scaldare?”. Magari non dureremo altre due settimane. Ma intanto ci siamo. Sono sempre i ragazzi quelli che mi insegnano di più, anche a ricordarmi come si fa a essere felice.

portami il diario

L’AUTRICE E IL SUO PRIMO ROMANZO – Valentina Petri vive a Vercelli, dove insegna lettere all’istituto professionale Francis Lombardi. Dal 2017 condivide le sue storie di scuola sulla pagina Facebook Portami il diario. Che dà anche il nome al suo primo romanzo, in libreria per Rizzoli. Un libro in cui racconta la scuola dal punto di vista (autoironico) di una prof di lettere in un istituto professionale.

Quando entra in aula per la prima volta, Valentina è “Quella Nuova” e ha davanti ventotto futuri meccanici: c’è uno che si rifiuta di togliere gli auricolari e un altro che messaggia con la tipa; c’è Amebo che fissa il vuoto con aria indifferente; Piallato steso sul banco per nascondersi; il Trucido che ingurgita un panino al tonno. Siamo a settembre, ma l’anno scolastico sembra già lunghissimo. Eppure i giorni passano: passano sempre. E, tra petardi esplosi in cortile e turbolente gite all’Expo, capitano momenti di inaspettata meraviglia, in cui gli studenti abbassano la guardia e scelgono di fidarsi. Sono i momenti raccontati in questo libro, che ci riporta tra i banchi con lo sguardo amorevole e ironico di una prof. E ci ricorda che i ragazzi, se tendi loro la mano, sanno stupirti come nessun altro.

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