Quello che si presenta come un memoir si trasforma in un piccolo concerto di episodi e di destini che fa da sfondo alle domande, alle paure, alle speranze di un uomo che per capire il significato del suo essere al mondo si sente costretto a tornare indietro…

Già autore di raccolte di poesie (l’ultima è Rubrica degli inverni, Marcos y Marcos, 2016) e di altri libri in prosa, tra cui Una tazza di polvere (2014), La città delle parole (2015) – un insolito collage di saggi-racconti sugli scrittori vicentini del ’900 – e Contro i venti invisibili (2017), Paolo Lanaro, classe ’48, è tornato in libreria per Cierre edizioni con Ogni cosa che passa.

ogni cosa che passa

L’autore va alla ricerca degli antecedenti familiari, psicologici e morali della vicenda già raccontata in Una tazza di polvere. Il tempo dolcemente liquido dell’infanzia e della prima adolescenza si coagula all’improvviso in una sequenza di flash che illuminano giochi, avventure, amori, illusioni del protagonista e dei suoi amici di un tempo.

Il risultato è anche il ritratto di una piccola comunità che vive, e talvolta si trova perfino a sognare, la propria esistenza come se fosse un romanzo. Alla fine, quello che si presenta come un memoir si trasforma in un piccolo concerto di episodi e di destini che fa da sfondo alle domande, alle paure, alle speranze di un uomo che per capire il significato del suo essere al mondo si sente costretto a tornare indietro.

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Su ilLibraio.it due estratti dal romanzo:

Pioveva. Il paese affondava in una tinozza di acqua grigia. Il cielo si rifletteva nelle pozzanghere come accade in certe stampe parigine. I vetri delle finestre colavano come fossero inondati da un celeste fiumiciattolo. Rari i passanti, rari i gatti, rari gli uccelli. Tristezza, senso di caducità, ma anche, ovidianamente, quaedam flēre voluptas. Dove finisce l’acqua dei gatolàri? Me lo chiedevo ogni volta. Nei torrenti, nei fiumi, infine nel mare. D’accordo, ma come ci si arriva? C’erano tubature così lunghe da portare l’acqua nel Bacchiglione? Non era possibile. Guardavo l’acqua che si infilava rapida per le fessure e correva giù in Piazzola verso Isola, Castelnovo, Vicenza, Padova e poi verso l’Adriatico con le sue spume cantate dai poeti. Ne coglievo l’ultimo gorgoglio e mi sognavo su una immaginaria barchetta di carta in avventurosa fuga verso lontanissimi lidi.

A una certa età, più o meno da adolescenti, si prediligono i fenomeni legati alla velocità. Non importa l’aspetto vettoriale, cioè dove si va, ma il puro e semplice fatto di andare. Era bello tutto quel che fuggiva: i torrenti, un cavallo scappato dalle scuderie, un cane, una ghiandaia, un millennio agli sgoccioli, Sergio sulle prime rampe del Passo, Foscolo… Pioveva e sulle strade ai formavano piccole onde che stavo a guardare con un po’ di souffrance ma anche con un granello di gioia romantica: amore e pioggia, amore e quieti paesi lustrali.

[…]

Nello scontro tra quelli della Proa e noi della Piazzetta c’erano un sacco di implicazioni, così da renderlo altamente drammatico. Intanto c’era da stabilire chi tra Sergio (detto Suarez) e Cianetto fosse il più bravo in assoluto. Poi si trattava di smentire che noi della Piazzetta fossimo molli ed effeminati, adatti al Monòpoli ma non al calcio. E ancora: chi perde incassa una sconfitta che è anche morale. Come dire: voi borghesucci del Centro non sapete fare un cazzo e voi della Proa siete una manica di lùdri.

La partita fu aspra, tesa, combattuta. Non c’era una prevalenza netta di una squadra sull’altra. E infatti finì due a due. A fine partita le discussioni furono interminabili: su un au che non c’era, su un presunto rigore per noi, non assegnato, su un fallo subito da Cianetto che, secondo quelli della Proa, ne aveva compromesso la prestazione. Al termine Sergio e Cianetto si diedero sportivamente la mano e decretarono la fine delle rivendicazioni. Un enorme cielo azzurro incombeva su di noi e raccoglieva confidenzialmente le puntigliose disamine del gioco, i sospiri, i coretti stonati, le bestemmie. Però sapevamo che la cosa sarebbe continuata. Era un po’ come le guerre tra i Russi e i Turchi. Si faceva un trattato, si dichiaravano cessate le ostilità, poi qualche principe o qualche qan ricominciava la solfa un’altra volta. Noi della Piazzetta non stipulammo mai trattati con quelli della Proa. Non avevano diplomatici, non erano all’altezza.

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