“Io che sono prete non ho convertito questi ragazzi, ma sono loro ad avermi evangelizzato”. Don Mattia Ferrari a venticinque anni si imbarca sulla Ong Mediterranea per pescare in mare gli ultimi tra gli uomini. La sua missione oggi è in un libro scritto con il giornalista di Avvenire Nello Scavo. ilLibraio.it ha intervistato il giovane prete: “E’ importante riscoprire che la vita trova senso e significato nella misura in cui viene donata…”

Mattia Ferrari (nella foto di Giovan Battista D’Achille, ndr) ha ventisei anni e un colletto bianco, di quelli che si usavano quando ancora i preti portavano la talare. “Scusi, eh, è che sto di corsa ché siamo in emergenza per il virus”. Al primo minuto sono chiare due cose. Uno: il ragazzo è emiliano. E due: non ha intenzione di starsene fermo in canonica. Tanto che nell’ottobre del 2018 sopra il colletto ha messo una felpa blu, ed è andato in mare con la Ong Mediterranea, sulla nave Mare Jonio: per andare incontro ai barconi partiti dalla Libia e prendere a bordo il disperato carico di umani in fuga, evitandone così lo sbarco clandestino sulle coste siciliane, o l’annegamento.

Il tema è dei più controversi e dibattuti in Italia (e non solo), e se dal punto di vista politico il fuoco è acceso, dal punto di vista vocazionale Don Mattia non ha dubbi: tendere la mano al fratello che soffre è precetto evangelico. E lo racconta, insieme al giornalista di Avvenire Nello Scavo, in un libro edito Garzanti, che ha per titolo una parabola: Pescatori di uomini, la promessa che Gesù fece ai primi suoi discepoli, Pietro e Paolo, invitandoli a lasciare reti e pesci per seguirlo. Il 29 giugno 2018, giorno di San Pietro e Paolo, nasce il progetto di Mediterranea.

Don Mattia, la missione in mare è stata da subito evangelica?
“Il 29 giugno è la notte in cui è stato concepito il primo sogno di Mediterranea, la nave poi è partita la notte tra il 3 e il 4 ottobre. Quando, rientrati, mi è stato chiesto quanti ne avessi convertiti a bordo, ho risposto senza retorica che sono stati loro a evangelizzare me”.

Cioè?
“Sono queste persone, anche chi non è credente, o magari è di altre religioni, ad avermi evangelizzato”.

E come?
“Con il loro coraggio, con la grandezza umana che dimostrano nell’attivarsi e nell’esporsi in prima persona solo per essere accanto agli ultimi del mondo. È stata una grande testimonianza evangelica da parte loro nei miei confronti, che pure sono prete. Io che sono prete non ho convertito questi ragazzi ma loro hanno evangelizzato me”.

Ha frequentato i centri sociali dove, come poi sulla nave, incontrava più atei che cristiani, e certo molti islamici. Che convivenza è stata?
“Quelli che abbiamo salvato sono prevalentemente musulmani, ma non in maggioranza schiacciante, c’erano tanti cristiani ed evangelici. Una convivenza perfetta: l’esperienza di Mediterranea fa vivere la bellezza di essere una grande famiglia umana, al di là di ogni appartenenza religiosa e culturale, un sentirsi fratelli e sorelle, membri di un’unica famiglia umana”.

È la chiesa voluta da Papa Francesco?
“È la Chiesa di Gesù. Sì, il messaggio di Francesco riprende appunto quello di Francesco d’Assisi, che parlava di Vangelo sine glossa, di riscoprire il Vangelo nella sua integralità, bellezza, anche nella sua radicalità”.

Giovanissimo in seminario: com’è prendere una decisione profonda come il sacerdozio, in un mondo che va verso la secolarizzazione?
“L’esperienza personale e comunitaria che ho fatto a Formigine, a Modena, per me è stata un’esperienza esistenziale di incontro con la persona di Gesù e con la sua Chiesa. Non nasce da un’idea, ma dall’esigenza di rispondere alla chiamata che ho sentito, quella di diventare prete, e dalle esperienze che mi hanno portato a sperimentare la bellezza del Vangelo”.

A metterla in cammino è stato l’incontro con una comunità di migranti. Cosa le ha fatto capire?
“Più che con una comunità, con alcuni migranti. Ha fatto capire a me, e a tutti, che tutte le persone che arrivano, i migranti, i poveri, sono innanzitutto un dono perché ci portano un’enorme ricchezza spirituale. La consapevolezza che ho visto, nelle donne della parrocchia di Cittadella come sulla nave Mediterranea, è la consapevolezza profonda che se tu apri il cuore a queste persone, ne sei arricchito. È quello che dice Papa Francesco: questi fratelli sono un dono che ti arricchisce di senso, ti fanno riscoprire la gioia del Vangelo”.

Si dice critico con “i populisti”: è quindi contento delle traversie dell’ex ministro dell’Interno? E che dice a chi poi ha bloccato navi per tempi ancora più lunghi?
“Intende la Ocean Viking? Per entrare nel merito delle questioni politiche invito a leggere le dichiarazioni della presidente di Mediterranea Alessandra Sciurba, che è più preparata di me. Quello che dico io è che il rischio di una certa retorica culturale, prima che politica, è che porti a una percezione distorta secondo cui pensare prima a se stessi che agli altri ti fa stare meglio. Invece è importante riscoprire che la vita trova senso e significato nella misura in cui viene donata: più pensi agli ultimi e più trovi la gioia nella tua vita. Il rischio del pensare di trovare la gioia solo se si pensa a se stessi è quello che il vescovo di Palermo Corrado Lorefice chiama la peste nel cuore”.

In cosa consiste?
“In un circolo vizioso, in una spirale che porta dall’egoismo alla tristezza. Invece, se ti doni a chi è più in difficoltà, più sperimenti la gioia vera, del Vangelo, e qui nasce un circolo virtuoso. Ciò che mi preoccupa di certa retorica, da prete, è che la gente rischia di maturare quel pensiero. Dal punto di vista politico lascio che ne parlino altri”.

Questa è stata solo la prima missione?
“Non so se tornerò a vivere missioni in mare. Il problema non si è più posto”.

Perché?
“Dopo la prima missione, la Mare Jonio è stata sequestrata. Ma c’è una grande unità tra missione in mare e sulla terra”.

In cosa consiste?
“Nel costruire giustizia e fraternità nelle nostre città. Una missione che già costruiscono le parrocchie, i centri sociali: sulla terra facciamo la stessa cosa che facciamo in mare, dedicarci all’accoglienza. Costruire la civiltà dell’amore, per usare le parole di Paolo VI. Se capiterà a me di tornare in mare non lo so. Di sicuro, l’unica grande missione per tutti continua”.

Quando celebrava messa sulla nave, partecipavano?
“Partecipavano tutti alla messa domenicale. Per loro scelta, partecipavano anche gli atei, anche gli agnostici e i musulmani”.

Anche i musulmani?
“Sì. Per esprimere un senso di stima e di amicizia verso me che ero il cappellano di bordo, ma in generale verso la Chiesa. Non venivano alla messa feriale, ma spesso non lo fanno nemmeno i cattolici. E poi è difficile in navigazione: se avessimo dovuto ogni giorno sospendere le attività avremmo dovuto piantare la nave in mezzo al mare. E in 18 giorni, di cui 12 di navigazione, è dura”.

E dopo?
“Dopo c’è stato il salvataggio”.

La pesca.
“Appunto”.

Fotografia header: don Mattia Ferrari foto di Giovan Battista DAchille

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