Su ilLibraio.it la postfazione dello scrittore di Enrico Palandri al saggio di Roberto Carnero “Lo scrittore giovane – Pier Vittorio Tondelli e la nuova narrativa italiana”

A partire dagli anni Ottanta si assiste in Italia all’avvento di una ricca produzione di opere scritte da autori giovani che raccontano storie di giovani. È la cosiddetta “nuova narrativa”, che determina un sostanziale svecchiamento delle forme letterarie tradizionali (comprese le declinazioni postmoderne e neoavanguardistiche). Principale protagonista di questa irripetibile stagione creativa è stato Pier Vittorio Tondelli (Correggio, 14 settembre 1955 – Reggio nell’Emilia, 16 dicembre 1991), non a caso considerato una delle icone culturali più rappresentative del decennio, ma anche uno degli scrittori più significativi dell’ultimo mezzo secolo.

All’autore di Altri libertini, Pao Pao, Rimini, Camere separate, Un weekend postmoderno e l’Abbandono  è dedicato il saggio Lo scrittore giovane – Pier Vittorio Tondelli e la nuova narrativa italiana (Bompiani) di Roberto Carnero, professore a contratto di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Verona.

Pier Vittorio Tondelli

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo la Postfazione
(Bompiani/Giunti editore 2018)

di Enrico Palandri

È forse ancora presto per dare una definitiva sistemazione storica del lavoro di Pier Vittorio Tondelli, cercando di giudicare il valore letterario dei suoi libri o il significato della sua vera e propria campagna, per lo più vincente, per un rinnovamento del pubblico e della scena letteraria in Italia negli anni ottanta. Il guaio dei contemporanei, e più ancora degli amici o dei parenti, è di avere molte informazioni che farebbero venire l’acquolina in bocca al filologo di una prossima generazione, ma di non saperle leggere. Se il giovane Gioberti poteva vedere in Leopardi la straordinaria luminosità delle sue qualità dopo un viaggio in carrozza, poco o nulla ne capirono i suoi genitori, poco, tutto sommato, anche i fratelli, pochissimo le donne che amò e poco, in generale, i contemporanei, fatta eccezione per Giordani che del resto, come gli altri, non seppe superare gli ostacoli della difficile dimestichezza con lui per leggere, come leggiamo noi oggi, attraverso la sua poesia, un mondo di straordinarie, profondissime intuizioni. Se queste difficoltà fossero dovute al carattere o al fatto che puzzava, secondo la celebre risposta della Fanny Targioni Tozzetti a Matilde Serao, o piuttosto alla miopia fin troppo pia dei sodali, a cominciare da Ranieri, è difficile dirlo.

Nel caso di Leopardi, come ha raccontato René de Ceccatty in un bel libro pubblicato in Italia da Archinto (Amicizia e passione, 2014), sono stati si direbbe i tormenti di una sottomissione a portare Ranieri a ricostruirne il lavoro, pubblicarne e promuoverne le opere, fino al gesto ostile, quando ormai era vecchio, del brutto libro sui sette anni di sodalizio. Anche per Tondelli molto è indubbiamente dovuto alla fiducia e alla tenacia di Fulvio Panzeri, che non solo ne ha curato l’opera per Bompiani, ma è stato in questi anni un promotore di iniziative, come il seminario che si tiene annualmente a Correggio. Sono stati appuntamenti importanti, ne sono nate tesi di laurea e di dottorato e il lavoro di Pier Vittorio Tondelli è stato guardato con attenzione e vivacità non solo dai coetanei, ma da molti più giovani di lui. Gianni Celati una volta disse che sembrava ci fosse un partito intorno a Tondelli. Questa osservazione, per quanto ironica, è piuttosto appropriata. Intorno a Tondelli si sono raccolti le attenzioni e gli affetti di chi, attraverso di lui, voleva promuovere un nuovo orizzonte di relazioni umane, e questo è in gran parte avvenuto.

pier vittorio tondelli

Per l’Italia e non solo per la letteratura, e soprattutto per le persone che attraverso il suo lavoro hanno vissuto l’emancipazione della propria vita emotiva dall’ambito ristretto e provinciale così finemente descritto in Camere separate a una dimensione più aperta e consapevole, questo vale molto più della letteratura. Le conquiste ottenute non solo dalle organizzazioni per i diritti civili degli omosessuali ma più in generale da chi cercava di dare cittadinanza a nuove forme di solidarietà che nella società affiancavano la famiglia, sembrano la risposta ad alcune pagine, belle e politiche, dove il protagonista Leo immagina un mondo futuro che sia in grado di accogliere il suo lutto per la scomparsa del compagno Thomas. In diverse occasioni pubbliche, a Correggio e a Reggio Emilia, mi sono sentito chiedere se questa attenzione di cui ho sempre cercato di parlare in modo concreto e non sentimentale, costruisca valore letterario, se insomma Tondelli andrà oltre il suo tempo e se con lui ci andremo noi che abbiamo amato i suoi libri. È una domanda a cui ovviamente non sono in grado di rispondere: deve farsi silenzio intorno al lavoro di uno scrittore che in un certo modo è il contrario del dolce rumore della vita, come lo chiama Sandro Penna in un celebre verso, perché le opere ci parlino con il timbro indistinguibile di una voce. Devono farsi obsolete le opinioni politiche, i manierismi delle cricche letterarie e sociali, deve morire il rumore del mondo perché riemerga il timbro con cui un autore ha affermato il proprio contrasto con la sua epoca. Pier è stato importante per ragioni troppo diverse, nella nostra generazione, perché si possa riuscire ad ascoltare la sua voce senza distrazioni, anche quando non si pretende di dare un giudizio ma semplicemente di chiarire alcuni contenuti. È proprio quello che fa, in parte, questo bel saggio di Roberto Carnero, ripercorrere le tappe; pur sentendomi incapace di dire cose utili, sapendo di essere io il contemporaneo che non capisce perché troppo condivide e quindi non può che accennare a ciò che ha intensamente avvertito intorno al lavoro e all’amicizia di Pier, non voglio neppure sottrarmi alla richiesta di Carnero e voglio dire quello che posso su di lui. Paolo Di Stefano, recensendo sul Corriere della Sera il numero di “Panta” che dedicammo a Pier dopo la morte, citò qualche mia frase accusandomi di non riuscire a vedere se le qualità che attribuivo a Pier si facessero davvero letteratura. Aveva probabilmente ragione, ma anche oggi, a distanza di tanti anni, non saprei cosa aggiungere a quanto dissi allora. Ho anzi la sensazione che se qualcosa resterà non è per quel che lui o altri hanno aggiunto, ma se mai sottratto. In questo Tondelli non è stato aiutato dal giornalismo. Non solo nel Weekend postmoderno, ma in molti punti cruciali dei romanzi, si vede Pier così radicato nel proprio mondo che è difficile farglielo trascendere. Ma se anche il contesto è mutato, il Weekend resta per tanti aspetti un libro che trovo interessantissimo, proprio per il modo in cui Pier interloquisce, da giornalista culturale, con la variegata realtà che ha attorno. Accade anche al Pasolini che io preferisco, quello degli Scritti corsari, che oggi avrebbero bisogno di un vero apparato di note per essere comprensibili. Ma anche questa mia difficoltà interloquisce appunto con ciò che ci siamo lasciati alle spalle, e, per quanto mi riguarda, è vero che non posso promuovere Pier nel Parnaso, per i miei innumerevoli limiti e, di fronte a Pier, anche per l’amicizia che, con la sua morte, è diventata ancora più complessa per l’impegno della memoria.
Sebbene io non abbia fatto quasi altro, nella vita, che scrivere e pensare ai libri, la letteratura non è mai stata la cosa più importante; sono state e sono infinitamente più ricche di influenze le persone che ho incontrato, e tra queste ci sono certo, accanto agli amici e alle amiche con cui ho condiviso la conversazione e le stagioni, poeti, musicisti e scrittori che non ho conosciuto personalmente. Ci sono i miei familiari, con cui oltre che alle stagioni abbiamo vissuto una transtoricità che è arbitraria e al tempo stesso fondante del nostro stare al mondo.
Gli autori che ho amato sono per me sempre usciti dalla letteratura per entrare a far parte, con le loro preoccupazioni, dell’orizzonte confuso e innamorato della mia vita di ogni giorno. La loro corrispondenza, o persino, negli anni per me più duri economicamente, una forma di solidarietà con la povertà di alcuni di loro che me li affraternava, ha accompagnato non solo la lettura, ma certi ritorni a casa notturni, solitari, dopo una notte amorosa (e poco conta se d’amore corrisposto o deluso), certi vagabondaggi per le strade d’una città, il nascere d’una amicizia o il compiersi di un addio. Non ho mai interpretato quel che facevo scrivendo e leggendo come la santificazione di una sensibilità superiore, che così spesso mi ricorda la giustificazione di un privilegio sociale, ma come il mio modo di stare nelle cose ed è lì, non nella letteratura, che ho incontrato Pier, e se qualcuno torce il naso perché così non si passa un esame critico, forse avrà pure ragione, ma l’odore che c’è qua fuori è così buono e intenso che io non ho nessuna intenzione di lasciarlo per ottenere diplomi. È nell’odore del mondo, tra le voci che si caricano di sensazioni, che ha le sue radici la scelta di Pier e in questo le sue scelte estetiche le sento fraterne. Ogni suo libro è un po’ come una lettera, un lungo biglietto agli amici, scritto da un certo punto nella vita a chi lo segue e ascolta. Certo non a chi si sente seduto sullo scranno di un’anonima letteratura italiana e fa il vaglio di quel che va bene e quel che va male, come se potesse davvero prendersi sul serio uno scranno del genere.
Messe le mani avanti, c’è da aggiungere che alle mie difficoltà personali se ne sommano altre meno soggettive: non solo troppo poco tempo è trascorso dalla morte di Pier per mettersi a fare dei bilanci, ma il fatto che sia morto così giovane fa sì che la sua influenza, il modo in cui aveva percepito l’evolversi di certe trame, sia ancora vitalissima, come dimostrano i tanti che scrivendo sentono di riconoscergli un ruolo.
I due versanti della sua attività di scrittore, quello delle opere letterarie e quello dell’attività editoriale, sono ancora discorsi aperti e a me sembra che si possa solo indicare gli elementi che in questi ambiti sono in movimento.
Mi sembra innanzitutto utile ricostruire il quadro in cui apparvero i suoi libri, per spiegare tra quali spinte si inseriva, chi reagì e come, cosa ne fece il pubblico. C’è in primo luogo una barriera generazionale molto netta: Tondelli ha avuto una grande importanza per i suoi coetanei e per quelli più giovani di lui, ma non è stato quasi capito da chi era più vecchio. Io reagii, magari anche scompostamente, a una pagina di Alberto Arbasino su “Repubblica” quando Pier morì, forse perché sapevo quanta ammirazione e affetto aveva Pier per lui. Il tono un po’ liquidatorio con cui Arbasino, che pure ne piangeva la morte, parlava del contesto in cui era cresciuto Pier, mi sembrò allora ingiusto. Così pure Goffredo Fofi e il gruppo di “Linea d’ombra”, sempre un po’ troppo compatto, mantenne per tutti gli anni ottanta un tono piuttosto sufficiente nei suoi confronti. Per non parlare di Angelo Guglielmi o dei tanti altri che ostentarono una superiorità in nome di un’idea di letteratura che, a così pochi anni di distanza, è di una straordinaria eloquenza sulla propria miopia.
Questa sufficienza, il senso di superiorità, lo ritrovo spesso quando, in dibattiti o in interviste, mi si invita a liquidare a mia volta il lavoro di Pier come fosse uno scrittore sopravvalutato di cui bisogna riprendere, anzi restringere, le misure.
Eppure se c’è una sopravvalutazione non è certo reperibile nel mondo della critica o della letteratura. Pier non ha mai vinto un premio e non mi sembra sia stato il darling di nessuna delle nostre scuole letterarie; non è insomma la critica, che non lo ha mai molto lodato, a dover restringere le misure. Piuttosto si dovrebbe allargare il discorso, e in questo il lavoro di Carnero non può che essere prezioso. Tuttavia Carnero testimonia bene l’attenzione per il lavoro di Pier, ma è già un suo postero.
Può essere utile, invece, ricordare l’attrito che la pubblicazione dei suoi libri provocò nell’Italia di allora, nominare alcune delle resistenze con cui vennero accolti. La diversa valutazione di Tondelli rispetto a quella che ne offrì la critica a lui contemporanea non è data dalle vendite e neppure da una riconsiderazione critica, ma piuttosto dalla scia che si allarga dietro di lui, che comprende molti nuovi autori, che testimonia una trasformazione della società italiana avvenuta nel corso degli anni settanta e che, nel momento di passaggio, tra il ’79 e l’82, mostrava molti dei suoi elementi vitali. A questa centralità di Pier Vittorio per i più giovani non si può che dare il benvenuto, ma si rischia di non vedere la solitudine di Pier e degli altri, le ragioni della non integrazione di una generazione intera con l’Italia di quegli anni. Si rischia di non vedere la furibonda omofobia di quegli anni.
Finiva, negli anni settanta, una fase iperpoliticizzata, chiusa in una visione piuttosto asfissiante, tra ortodossie ed eterodossie marxiste, militanze cattoliche e organizzazioni fasciste; la società adulta era del tutto inadeguata ad accogliere e articolare le curiosità e gli interessi di chi come Pier aveva modelli letterari poco nazionali. Non è solo lo spirito di Autobahn a guardare al Nordeuropa, ma un po’ l’aria che si respira in tutto il suo lavoro, così lontana dai calligrafismi delle avanguardie letterarie e dagli impegni subordinati alla politica dei marxisti, a evadere dalla nostra tradizione. Il benvenuto che lui dà alla moda e in generale alla stravaganza degli anni ottanta è la ragione principale della disapprovazione di “Linea d’ombra”.
Credo che lo abbiano trovato un confusionario; a me pare che senza attraversare la confusione di Pier si rimane un po’ al di qua di una frontiera, nelle ortodossie che poi inevitabilmente si trasformano, in un quadro ideologico frammentario come il nostro, in autoritarismi un po’ velleitari e giudizi allegramente arbitrari.
“Linea d’ombra” è nata con un progetto importante grazie a un’intuizione significativa di Fofi: è vero che una linea d’ombra fosse passata allora attraverso la letteratura facendole abbandonare temporaneamente la politica, ma le difficoltà che hanno continuamente contrapposto il nucleo di origine ideologica della rivista agli autori con cui via via si è incontrata e poi scontrata (Claudio Piersanti e Giorgio Van Straten, per fare qualche nome, ma ce ne sono altri), e l’aver così poco capito Pier Vittorio, segnano un po’ il limite dell’esperienza della rivista piuttosto che quello di Tondelli. Le poesie e la letteratura non salvano nessuno, non vogliono essere votate né da una giuria né dal popolo per ottenere un mandato, non promettono nulla.

Gli autori si mettono in ascolto della realtà in un suo punto sensibile, questo è tutto. Non possono organizzarsi e non possono venire organizzati. C’è probabilmente una componente di narcisismo e megalomania (ma davvero solo negli artisti?), che però può aiutare a riflettere su altre cose, sull’amore e la morte e certo, anche sulla giustizia, ma non per prospettare una trasformazione, solo per raccontare, come hanno sempre fatto gli scrittori, da Dante a Primo Levi. Persino l’ingiustizia sociale, per uno scrittore, finisce con l’essere elemento di un libro. In quanto cittadino, chi scrive è sottoposto come tutti ai casi della storia e può aderirvi o meno, ma in quanto scrittore, proprio come Pier, è interessato a trasformare il mondo che ha di fronte in tessuto del suo racconto; non può mettersi a suonare nessun piffero e se lo fa, prima o poi sceglierà (e può essere una scelta eticamente più alta) la politica, l’agire tra gli altri e il capitanare le loro scelte. Ma questo è diverso dall’ascoltare il mondo, che vuol dire ascoltare le invenzioni fantastiche di Boiardo, Ariosto, Calvino mentre naturalmente, come sempre, intorno a noi c’è anche la fame e la guerra. Questo non significa che la realtà venga estetizzata o che vi sia una rinuncia morale; la buona letteratura si tiene alla larga da entrambi questi pericoli, ma il suo rigore è diverso dall’organizzazione, dal volontariato, anzi diffida intimamente dell’agire, perché non ha nel cuore la salvezza dell’umanità, ma il capire gli uomini.
Per “Linea d’ombra” ciò che davvero irritava di Pier, e di numerosi altri, era l’irriducibilità del suo innegabile impegno a un impegno politico, e in questo è il primo autore che ci ha portato oltre la contestazione. Senza banalizzare, in forza di una diversità generazionale.
Il dissenso di Arbasino, e dietro di lui di Guglielmi e un po’ di tutti quelli legati alla Neoavanguardia, è più complesso. Pier aveva studiato al DAMS, che in quegli anni era una roccaforte del Gruppo 63. Vi insegnavano, tra gli altri, Eco, Celati, Barilli, Giuliani. Il contributo più importante del Gruppo 63, soprattutto nella sua fase originaria, fu lo scontro, che non si è mai veramente concluso, con una certa idea di cultura. Le belle pagine di Apocalittici e integrati in cui Eco descrive la funzione quasi sacerdotale di certi letterati nell’accogliere o respingere gli autori in un’idea di cultura alta, spesso superficialmente pomposa e retorica, lasciano intuire i problemi che dovette affrontare da giovane con la sua generazione. Tra i protagonisti del Gruppo 63 c’era certo anche gente più vicina ai modelli di Pier: non erano ripiegati su una tradizione nazionale ma avevano visto un po’ d’Europa e di America, sapevano cosa fosse un’industria culturale e quanto l’idea di cultura alta, ancorata ai licei classici e condannata a nutrirsi di sensiblerie, avesse fatto il suo tempo. Al di là dei modi poco cortesi, a parer mio, con cui attaccarono personalmente autori significativi (ma la scortesia, anzi un tono astioso e meschino, è grave anche nei confronti di quelli meno significativi ed è rimasta una venatura purtroppo profonda, caratterizzante, anche negli anni successivi, per alcuni di loro), c’era una battaglia da combattere, che per una parte del gruppo trovò il suo sbocco naturale nel Sessantotto e per altri seguì altre vie. Sicuramente, però, le battaglie del Gruppo 63 contribuirono ai profondi cambiamenti della società italiana da cui venne fuori Pier Vittorio. Adesso bisogna chiedersi se gli strali retorici lanciati da giovani e da una rivista come “Il Verri” contro l’establishment, non cambino di segno quando vengono lanciati, a un’altra età e dai quotidiani e settimanali più venduti del paese, contro i più giovani. Se insomma, detronizzati i vecchi satrapi della cultura italiana, molti di loro non si siano ritrovati seduti, non so quanto involontariamente, sugli stessi scranni, solo più incattiviti e acidi.
Cosa non si perdona a Pier da parte di quell’ambito è abbastanza evidente: lo stile, le scelte ideologiche, tutto nei libri di Pier è straordinariamente indisciplinato e non offre nessun ossequioso omaggio ai protagonisti del Gruppo. L’ammirazione per Arbasino ha in alcuni punti della sua produzione una influenza riconoscibile, ma in generale Pier è di un’altra razza. Inoltre è ingrato. Si trova in un certo senso il pranzo pronto e non sa riconoscere chi l’ha cucinato. Gli interessa andare oltre, non continuare una scuola. La libertà nelle scelte letterarie, come nei comportamenti, è figlia da un lato della battaglia del Gruppo 63 e dall’altra dei movimenti degli anni settanta. L’abisso, per esempio, che c’è tra la sua omosessualità,  tutto sommato serena, come mostra bene Carnero, comunque non più impugnata come elemento di scontro con la norma, e quella sofferta di un Comisso o quella politicamente aggressiva di un Pasolini, si deve alle coraggiose battaglie civili del FUORI e più in generale alle aperture di quegli anni.
Quando poi, all’inizio degli anni ottanta, con la sconfitta della sinistra radicale, riapparvero abitudini nel mondo della cultura che nel decennio precedente o erano state sospese o avevano perso influenza, perché il dibattito culturale non era avvenuto all’interno delle istituzioni ma tra le istituzioni e un mondo giovanile sempre più disgregato e ribelle, il ruolo di questi intellettuali mutò notevolmente. Se negli anni settanta non si pubblicava nulla di giovane perché con quel mondo c’era una guerra (non solo quella delle Brigate rosse, ma una guerra a tutto campo che nell’editoria implicava o la scelta di una strada militante, assai poco adatta alla letteratura, o scarsissime possibilità di pubblicare), negli anni ottanta anche i grandi editori iniziarono ad accogliere nuovi autori; la generazione del Gruppo 63 riprese la sua battaglia, ma da una posizione sostanzialmente nuova. La mancata maturazione di molti dei suoi esponenti portò a ridurre, in modo irritante, concetti duttili, impugnati con fantasia nella passata stagione, a luoghi comuni svuotati. Che Susanna Tamaro vada bene perché scrive con frasette brevi e un altro invece non vada bene perché usa frasi troppo lunghe ha qualcosa di ridicolo. È a ben altro che bisogna guardare e se di stile si vuole parlare non ci si può ridurre a formulette tanto banali. I progetti e le utopie che in un’epoca diversa avevano avuto una funzione, si sono degradati a feticismo linguistico, al tentativo di reperire nel nuovo le tracce di quel che si era, perdendo completamente di vista la complessità dei significati. Umberto Eco, che è l’unico ad avere avuto una comprensione significativa dei problemi della linguistica, non si è mai azzardato a farne l’uso balordo che ha invece caratterizzato altri nel Gruppo 63. C’è poi qualcosa di paradossale nel celebrare i quarant’anni o i cinquanta di un’avanguardia, che nasce – se è autentica – da una frattura nella storia, e non si mantiene in aeternum con i sussidi di un assessorato.
Era ormai un’altra età, l’invettiva aveva perso la sprovveduta freschezza di chi opera in un cambiamento e aveva invece inevitabilmente costruito una complessa genealogia; la prosa di molti ex membri del gruppo era diventata opaca, rancorosa, e soprattutto parlava a un’Italia completamente diversa. Arbasino pubblicò feroci stroncature collettive, Guglielmi continuò i suoi poco invidiabili anni d’intolleranza, Giuliani stroncò per l’ennesima volta la Morante, insomma si scatenò una polemica ininterrotta e a trecentosessanta gradi che diede un doloroso segnale di quanto faticoso fosse stato anche per loro vivere le trasformazioni di quegli anni. Gadda, innalzato come un vessillo (e quindi travisato, enfatizzando gli aspetti stilistici e comprendendo poco quelli psicologico-contenutistici), non veniva più letto; ancora oggi dalle schiere della ex neoavanguardia salta fuori ogni tanto qualcuno che si mette a fare strampalati confronti tra quello che loro vedevano annunciato in Gadda come futuro della letteratura e quello che oggi si scrive. La conclusione che forse si dovrebbe umilmente trarre è che non erano in grado, nel caldo della polemica, di elaborare un canone alternativo. Come ho detto, non voglio certo essere io a proporne uno nuovo e tantomeno a restaurarne uno precedente. Vorrei che il campo fosse aperto, ecco tutto.
Era proprio la questione dello stile, così centrale per quella generazione, a essere estranea ai nuovi autori, almeno nei termini in cui era stata posta. Pier, con l’energia che lo ha sempre caratterizzato, avvertiva con urgenza la necessità di aprire la letteratura alla contaminazione con il cinema, la musica, la pittura, la moda. Una scrittura troppo sofisticata, dove se non era l’abolizione della punteggiatura era l’uso spregiudicato degli anacoluti, non avrebbe avuto alcuna speranza di entrare nei consumi culturali di una nuova generazione. Pier voleva partecipare di un mondo che premeva da fuori della letteratura e inevitabilmente, difendendo la propria visione, il Gruppo 63 aveva finito con l’arroccarsi entro una serie di parole d’ordine. Con Il nome della rosa, con cui Eco voltò pagina, divenne evidente che i talenti più significativi del gruppo originario (Vassalli, Celati) avevano fatto ormai molta strada per conto proprio, erano diventati come tutti persone che cambiano modo di vivere, di vedere le cose. Con questi il confronto è rimasto aperto e in Pier Vittorio si trovano numerose tracce riconducibili a Eco o a Celati. Altri hanno invece continuato a ribadire un ripudio, ora articolato, ora generico, che al di là delle opere si rivolgeva in realtà alla generazione. Sul valore delle opere di Pier, come dicevo, è comunque presto, almeno per me, per esprimere un giudizio definitivo. Quello che a me pare più interessante, in una produzione così eterogenea, è la libertà che ha sentito nel fare le proprie scelte, e la capacità di rinnovarsi che ha mostrato soprattutto in Camere separate. Ho scritto in un’altra occasione (Altra Italia, “Panta”, 9, 1992) cosa trovo particolarmente significativo, soprattutto nel racconto Postoristoro che apre il suo primo libro e in Camere separate. Non voglio tuttavia sovrappormi, a questo proposito, all’attenta ricostruzione del percorso letterario di Pier Vittorio fatta da Carnero, che offre una prospettiva decisamente diversa dalle due a cui ho fatto cenno, quella politica e quella della Neoavanguardia, e che sono state per così dire quel che c’era a monte di Pier. Carnero invece è a valle, sembra fortunatamente oltre le difficili battaglie che Pier ha dovuto sostenere, fuori dai gruppi come tutti noi, per esprimere il suo mondo poetico.

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