Dal 27 maggio all’1 giugno Barcellona ha ospitato l’edizione 2019 del Primavera Sound, il festival indipendente più famoso al mondo, che quest’anno ha proposto una vera svolta: aprendosi non solo al 50% di artiste (mentre anche in Italia si dibatte sul sessismo dell’industria musicale), ma a tutta una fetta di pubblico rigorosamente queer, che si è riversata al Parc del Fòrum per celebrare la tre giorni al grido di “The New Normal” – Il reportage de ilLibraio.it

Da sempre, nell’immaginario il Primavera Sound si classifica come il luogo indie per eccellenza, dai cui palchi vengono annunciati lavori inediti e tour mondiali in anteprima, oltre alle tendenze musicali per i mesi a venire. Insomma, un evento da cui non si può uscire senza sentirsi parte di una nicchia di intenditori della musica di qualità.

Il festival, che è nato nel 2001 come fortezza dell’indie, dall’organizzazione fino al lifestyle, e dell’avanguardia, nel 2019 ha ceduto ai tempi che cambiano, subendo lo scossone definitivo e facendo crollare ogni certezza nei suoi frequentatori più affezionati. A scatenare indignazione tra i fan della prima ora, l’annuncio di una line up diversa, in tutti i sensi possibile del termine, convocando tra i propri headliner una maggioranza di nomi femminili, non-bianchi e non-indie: Solange, J Balvin, Erykah Badu, Janelle Monáe, Rosalìa, Future.

Il New Normal è un motto e una dichiarazione d’intenti per la nuova edizione: il logo delle due N divise da una saetta campeggia ovunque all’interno della venue, appena superati i famosi tornelli di ingresso sovrastati dall’iconica scritta Primavera Sound, addirittura rubandogli la scena.

L’impressione, infatti, è di essersi catapultati in un villaggio utopico, in cui i palchi si alternano alle immense infrastrutture di cemento del Parc del Fòrum di Barcellona; un villaggio abitato da una comunità di 220mila persone, dove la norma è stata ribaltata, lasciando spazio a espressioni di genere non conformi, a colore, spontaneità, creatività e giovinezza. In una parola: queer.

Un aspetto fondamentale poco preso in considerazione da chi parla del Primavera solo in termini musicali: aprire la line up ad artisti pop di provenienze diverse, senza comunque rinunciare alla qualità, ha significato innanzitutto riconoscere il valore assoluto di certi artisti e, soprattutto, validarne la sua audience.

Jay ha 24 anni ed è portoghese: lavora come make up artist a Lisbona, ma è nomade nell’animo, amante della musica e del clubbing. Ci racconta: “Per me sarebbe stato impensabile partecipare al Primavera Sound gli scorsi anni. Leggere la line up di quest’anno mi ha fatto sobbalzare dalla sedia! Sono venuta qui per Janelle Monáe, ma anche per altri artiste come Junglepussy o Yaeji: non sono nomi molto noti, ma ugualmente non mi sarebbe mai capitato di vederle in questa rassegna fino allo scorso anno”.

Come lei, sono tanti i ventenni accorsi da tutta Europa, di cui ne rappresentano probabilmente uno dei lati migliori e più cosmopoliti, una generazione ormai post-Erasmus che colleziona radici in molteplici paesi, anche oltreoceano. Come all’interno del suo gruppo di amici, l’orientamento sessuale di Jay è fluido, così come la sua identità, espressa attraverso una grande cura per l’abbigliamento e il make-up. L’impressione, infatti, durante tutti e tre i giorni del festival, è di essere a un costante gay pride. “Non si tratta di un dettaglio”, continua Jay. “Se qui al Primavera, oggi, i miei glitter non sono l’eccezione, è perché comunque è stato deciso che non lo fosse”.

Si sono sprecati i paragoni con il Coachella, analogo festival californiano nato come baluardo della musica indie-rock, accostato al Primavera non solo per l’eccentricità e lo stile da clubbing all’aria aperta, ma anche per la parabola che lo ha caratterizzato. Ce lo spiega Juan, 34enne spagnolo, veterano del Primavera Sound che, nonostante tutto, non è rimasto deluso dalla svolta di questa edizione: “Indubbiamente qualcosa è cambiato. Credo sia da ingenui negare che si sia trattato di un’operazione per vendere più biglietti e adeguarsi a un mercato musicale che ormai si rivolge decisamente al genere urban (trap, hip hop e reggaeton). A parte alcuni nomi discutibili, ho trovato che la scelta sia sempre stata di qualità. E comunque, per me che sono un appassionato di chitarre, gran parte dei miei artisti preferiti continuano a trovare spazio”.

Se in Italia si è cominciato da poco a introdurre un dibattito sul sessismo strisciante nell’industria musicale, nel resto del mondo è già molto ben avviato e le line up dei festival sono la prima cartina tornasole dello stato di parità di genere. Al Primavera nessuno parla di femminismo, nessuno scomoda la politica, ma nessuna mossa è mai stata più politica di questa.

La musica rimane il collante più forte a trascinare l’energia vitale delle persone, radunate per esempio attorno al palco di Lizzo per celebrare la body positivity e l’amore per sé stessi, oppure al palco principale per assistere le cerimonie quasi spirituali di Erykah Badu, o le rime implacabili di Kate Tempest, che ha abbandonato l’invettiva per parlare di amore e sentimenti. Il messaggio arriva dal pulpito su cui Janelle Monaè è salita: siamo qui per affermare chi siamo, donne, nere, non-eterosessuali.

Non è un caso che i beat dell’urban abbiano scalzato le chitarre del rock, e non è nemmeno un caso che questa edizione del festival arrivi in contemporanea con il 50esimo avversario dei moti di Stonewall, a New York City, dove le prime a fare la rivoluzione per i diritti LGBT furono due donne transgender nere, Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera. A distanza di 50 anni, qualcuno si prende la briga di affermare l’uguaglianza (di genere, orientamento, gusti musicali), “il nuovo normale”.

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